Gli Istituti Confucio e lo "sharp power" di Pechino

(di Antonio Vecchio)
02/05/20

L’ultima in ordine di tempo è stata la Svezia, prima in Europa ad aprirne uno all’università di Stoccolma nel 2005. Lo Stato scandinavo, la scorsa settimana, ha annunciato la chiusura di quello ospitato all’università di Leula1, una sorte toccata anche agli altri tre presenti nel Paese.

Parliamo degli Istituti Confucio (IC), gli enti scolastici che la Cina ha sparsi in tutto il mondo allo scopo legittimo di “diffondere una visione favorevole del modello cinese” e “promuovere lo studio della propria lingua e cultura".

Una misura che il governo di Stoccolma ha valutato come necessaria alla luce della recente ostilità montata in seno all'opinione pubblica, dopo che un tribunale cinese aveva condannato a 10 anni di reclusione per reati di opinione uno scrittore sino-svedese che viveva a Hong Kong.

Ma l’iniziativa non è isolata. Altre chiusure erano già avvenute in USA, Australia e Canada, mosse dalla crescente insofferenza verso un governo giudicato sempre più assertivo in casa d’altri.

Negli Stati Uniti, anche l’Università dell’Arizona e quella di San Diego hanno chiuso i propri IC, e analoghe misure sono state prese in Regno Unito, Francia Danimarca e Belgio.

Anche il Dipartimento di Stato USA ha deciso di non finanziare più le università che ospitano programmi di lingua cinese (dal 2006, aveva contribuito con 158 milioni di dollari).

Facciamo una premessa: l’attività di promozione culturale all’estero è comune a molti paesi, e anche l’Italia la svolge (mai abbastanza...) con gli “Istituti Italiani di Cultura”.

Lo fa il Regno Unito con i British Council, la Germania con i “Goethe Institute”, la Francia con gli “Institut Français” e la Spagna con gli “Istituti Cervantes”: una rete di migliaia di enti culturali con i quali gli Stati esercitano legittimamente una componente fondamentale del proprio “soft power”.

Il problema con gli IC sorge però quando la promozione culturale viene condotta pretendendo di imporre la propria visione anche sui temi, come ad esempio Tibet, Taiwan e Tienanmen, che sortiscono in Occidente sensibilità opposte.

Il che sarebbe pure legittimo, se perseguito nel quadro di un confronto laico con discenti e docenti locali, dettato cioè da libertà dialettica, mai sviluppato al di fuori delle regole del paese ospite, le quali, nel caso dell’Occidente, prevedono ampia libertà di pensiero.

Proprio quella che parrebbe negata agli Istituti Confucio, che nel tempo si sono invece contraddistinti come primari strumenti non tanto del “soft power” di Pechino, quanto del suo “sharp power”, inteso2 come la capacità di “trafiggere, perforare, penetrare” (Messa, 2018) i contesti accademici, la pubblica opinione e i media dei paesi ospiti.

Non è un caso se la Camera dei Comuni britannica, in un rapporto3 del novembre 2019, ha posto l’attenzione sulle "pressioni finanziarie, politiche e diplomatiche che Pechino esercita nei confronti delle università britanniche affinché rispettino la sua agenda politica".

Non lo è neppure se un report di Human Rights Watch4 del 2019 sostiene che “gli Istituti Confucio sono una estensione del governo cinese che censura determinati argomenti per motivi politici, mettendo in pratica procedure di assunzione che tengono (esclusivamente) conto della lealtà politica”.

Ma andiamo per ordine. Costituiti nel 2004 (il primo a Seul) durante l’epoca di Hu Jintao, allo scopo di elaborare a livello internazionale "politiche e piani di sviluppo per la promozione della lingua cinese”, e promuovere all’estero "programmi di lingua presso Istituti di istruzione di vari tipi e livelli”, ad oggi sono 541 gli Istituti Confucio (12 in Italia) presenti in 123 paesi.

Sono collocati perlopiù in sedi universitarie, ma anche - con il nome di Classi Confucio (CC) -, in scuole medie e superiori (1193), con una distribuzione5 che privilegia America (138), Europa (187) e Asia (135) a danno di America Latina (39) e Africa (40).

Dipendono dall’Hanban6, il potente ente statale emanazione dell’Ufficio Propaganda del Partito Comunista, alle dirette dipendenze del Ministero dell’Istruzione cinese, il cui consiglio direttivo7 è composto da 12 ministri, fra cui il titolare degli Affari Esteri e il capo dell’Agenzia per la stampa, le pubblicazioni, la radio, i film e la televisione (Da anni ne è a capo, Xu Lin8, potente direttrice famosa per aver nel 2014 unilateralmente e platealmente espunto dal programma di una conferenza internazionale a Grida in Portogallo una discussione su Taiwan).

A differenza dei loro omologhi europei e asiatici, gli IC sono il risultato di un accordo tra due realtà indipendenti: l’istituto medesimo e l’università straniera ospite, entrambi finanziati dall’Hanban.

Con questo sistema, gli Istituti Confucio si trovano sempre a operare nell’ambito di istituzioni universitarie, pur non avendo essi stessi i necessari requisiti di libertà didattica.

Un vantaggio non da poco, considerata la tradizionale “attenzione” di Pechino verso tutto ciò che concerne la produzione intellettuale estera.

La guida degli istituti rappresenta un altro importante aspetto, poiché risultano ovunque guidati da due direttori: il primo espresso dall’università che ospita, l’altro direttamente dall’Hanban, cui risponde per l’operato tramite la locale ambasciata.

Con il risultato che tale “insolita” diarchia apre a possibili “interferenze" esterne in un campo, come l’insegnamento, di esclusiva competenza nazionale.

Ed anche al pericolo che una certa anche involontaria acquiescenza delle comunità accademiche ospitanti verso gli “obiettivi didattici” della controparte cinese addirittura favorisca questa indebita “invasione di campo”.

Si è recentemente posto il problema Maurizio Scarpari, sinologo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che dalle pagine de La Lettura9, ha denunciato il tradizionale “silenzio” della comunità accademica italiana verso temi non graditi da Pechino. Non è dato sapere il perché di un tale silenzio, quanto mai strano alla luce della tradizionale sensibilità del nostro corpo docente per tutte le fondamentali libertà individuali.

Il dubbio però rimane, che una possibile spiegazione risieda nei finanziamenti ricevuti da Pechino, certamente importanti per le università costantemente a corto di risorse. O nei vantaggi derivanti sotto forma di accrediti presso le università cinesi e di ulteriori possibilità di approfondimento accademico. Chissà...

Una soluzione per ridurre l’“invadenza cinese” nei nostri atenei la suggerisce lo stesso Scarpari quando propone di “rendere incompatibile la figura del condirettore con quella di professore universitario, soprattutto se di area sinologica (nel caso contrario prevederne l’esclusione da concorsi e da ruoli di governo dell’ateneo), e di riportare gli IC allo status degli altri istituti culturali, salvo poi organizzare attività congiunte nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie di entrambi”. In questo modo, spiega: l’Associazione di studi cinesi si sentirebbe finalmente più libera di dibattere e prendere posizioni in piena autonomia”.

Ma forse non basta, occorre anche una presa di coscienza collettiva, a tutti i livelli, sulla effettiva natura e le finalità di questi istituti, che usando le parole di Li Changchun, ministro della Propaganda cinese, dal 2002 al 2012, rappresentano “una parte importante della propaganda cinese all’estero” (Messa 2018).

È necessaria un’ampia consapevolezza che Pechino utilizza gli istituti e le classi "Confucio" come elementi attivi di una strategia egemonica con cui accrescere la propria influenza globale.

Nella millenaria civiltà cinese nulla è lasciato al caso, ogni azione ha un riflesso futuro.

“Se il tuo piano è di un anno, pianta il riso. Se il tuo piano è per dieci anni, pianta degli alberi. Se il tuo piano è per cento anni, educa i figli10.

Confucio dixit.

7 “L’era dello Sharp Power”, Paolo Messa (2018) - Università Bocconi editore.

8 VIDEO intervista della BBC a: https://www.bbc.com/news/world-asia-china-30567743

10https://www.politico.eu/article/china-soft-power-offensive-confucius-ins...

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / Confucius Institute Headquarters (Hanban)