Presidenziali Usa 2016: la catastrofica eredità lasciata da Obama in politica estera

(di Giampiero Venturi)
09/11/16

Tramonta l’era Obama; finisce una fase e ne inizia un’altra, su cui incombono proiezioni di orientamento diverso. qualunque sia la statura politica del nuovo Presidente degli Stati Uniti sarà il suo nome a monopolizzare gli spazi sui media di tutto il mondo per i prossimi quattro anni.

Per Trump, 45° Presidente USA, saranno molti i nodi da sciogliere nel futuro ma l'eredità più complessa da gestire sarà sicuramente sul piano delle relazioni internazionali. Il dato non è ignoto: per la prima volta da almeno due decenni una parte consistente del dibattito elettorale si è incentrato sulla politica estera, polarizzata su posizioni antitetiche.

Il tema è tornato d’attualità per due ordini di ragioni: gli USA tornano a interrogarsi sul loro ruolo dopo un quarto di secolo vissuto da superpoliziotto del mondo; gli equilibri geopolitici del pianeta sono sostanzialmente cambiati.

In merito alla prima considerazione è in ballo il problema dell’egemonia globale, incastrato tra una questione etica e una economica. Tra principi soggettivi e oggettivi, il dibattito però è più che altro interno agli States e il mondo non può far altro che prenderne atto.

In merito ai cambiamenti degli equilibri geopolitici nel mondo, l’America si trova invece a fare i conti con quanto concretizzato durante gli anni del doppio mandato di Barack Obama. Da soggetto attivo diventa passivo e lo stato delle cose non è confortante.

Stretta tra il metodo impositivo che per forza di cose è connaturato alla logica imperiale di una superpotenza e la necessità ideologica di essere politicamente corretta, l’amministrazione Obama ha portato a casa imbarazzanti risultati sul piano della politica estera.

Andiamo per ordine, cercando di schematizzare per area geografica i prodotti di 8 anni di gestione.

Iniziamo dall’alleato per eccellenza, Israele. Alle elezioni politiche del marzo 2015 Obama si schiera pubblicamente con Isaac Herzog, leader della sinistra laburista che sondaggi davano in vantaggio sicuro sul Likud di Netanyahu. Il sorpasso però non avviene e i rapporti fra il nuovo governo israeliano e gli USA si gelano.

Il freddo per la verità era cominciato già prima, quando la posizione dell’amministrazione DEM sulla questione palestinese era ormai chiaro non fosse in linea con la destra di Tel Aviv. I cattivi rapporti fra Democratici e Likud portano USA e Israele alla più grande distanza politica dalla fondazione dello Stato ebraico. Netanyahu ingoia anche l’accordo sul nucleare con l’Iran; si chiude a riccio e si gode la fine del mandato Obama.

Nel 2010 s’incrinano i rapporti diplomatici fra Turchia e Israele. È l’inizio dell’era Erdogan, allora Primo ministro ad Ankara. L’appoggio dato ai Fratelli Musulmani, vicinissimi ad Hamas e quindi nemici inconciliabili di Tel Aviv, aveva spostato sensibilmente la Turchia sul fronte pro Palestina (abbiamo approfondito molte volte la questione su queste pagine). L’alleanza storica fra Tel Aviv e Ankara si rompe ma Obama riesce nell’incredibile impresa di peggiorare i rapporti con entrambe.

Il processo è lento ma la svolta definitiva c’è nel luglio 2016, quando Erdogan (ormai Presidente) sventa il golpe e accusa apertamente gli USA di averlo organizzato. La politica indipendente della Turchia continua in Siria, dove mette in imbarazzo gli USA con l’operazione Scudo dell’Eufrate volta a contenere i curdi oltre confine. Washington appoggia i curdi contro l’ISIS per avere un piede in Siria, ma davanti all’alleato NATO turco, si appresta a  sacrificare proprio i tanto caldeggiati curdi del Rojava.

La Turchia nel frattempo si riavvicina alla Russia con cui rivitalizza l'accordo per il sepolto Turkish Stream. In considerazione che Erdogan ha il controllo delle seconde forze armate dell'Alleanza Atlantica, le domande da porsi sul futuro non sono poche.

Parlando di Siria, siamo davanti al più grande disastro politico confezionato da Obama. Nel 2013 echeggiano le parole

"Assad ha i giorni contati…”.

Siamo a fine 2016 e stiamo ancora contando. Dopo aver armato le fila dei ribelli (tra cui molti gruppi islamisti) anti Assad, gli USA si chiudono in un angolo rifiutando ogni compromesso con Damasco e la sua alleata Mosca. L’intervento militare russo congela la situazione militare e argina il tentativo di dirigere dall’esterno l’ultimo tassello di una Primavera araba, riconosciuta come eterodiretta ormai anche agli occhi dell'opinione pubblica.

Il disastro politico in Siria smaschera nel frattempo agli occhi dell’opinione pubblica mondiale la curiosa condotta della guerra al terrorismo. Chi e cosa c’è dietro l’ISIS? Chi continua ad aiutare le bande islamiste che imperversano nel Paese? In ogni caso Assad e i suoi stanno vincendo la guerra. Questo basta e avanza.

Libia. Il Premio Nobel per la Pace Barack Obama, spinto dal Segretario di Stato Hillary Clinton e aiutato dalla Francia, nel 2011 fa guerra a Gheddafi. Il disastro libico, visto dal punto di vista di Washington, sulle prime è una vittoria: un Paese prima ostile, diventa terreno d’accesso per la gestione di un immenso tesoro energetico. La questione libica però si complica. Allo stato attuale il Governo di Unità Nazionale di Tripoli controlla meno di un terzo del territorio e soprattutto non gestisce i principali giacimenti petroliferi. Di mezzo c’è il generale Haftar, amico di Egitto e Russia, scaricato dalla CIA qualche anno prima.

A proposito di Egitto. Il Cairo dopo la svolta di Camp David di Sadat, era passato dalla tradizione socialista nasseriana ad un’aperta collaborazione con l’Occidente. Gli USA di allora erano riusciti a impossessarsi della tessera più grossa del mosaico arabo, facendo un grande regalo a Israele e all’Occidente. Mubarak aveva vigilato per 30 anni su questa posizione.

Negli anni di Obama abbiamo il privilegio di assistere alla già menzionata Primavera araba. Cade Mubarak e al Cairo per un anno governano i Fratelli Musulmani di Morsi. È un momento critico, ma se ne parla pochissimo.  In barba al politicamente corretto, stavolta Obama appoggia il golpe del generale Al Sisi, riprendendo l’Egitto per i capelli e rimettendolo in carreggiata. Al Sisi, pur essendo della stessa estrazione di Mubarak, ha però una visione della politica estera egiziana più sfumata: appoggia Haftar in Libia con grave imbarazzo dell’Occidente e soprattutto stringe con Putin, mettendo sul tavolo addirittura l’affitto di basi e manovre militari congiunte. Non solo: il Cairo cinguetta col nemico storico Iran e si defila dall'alleato tradizionale Arabia Saudita. Egitto con Russia, Iran e Siria? Alla faccia delle divisioni sunniti-sciiti, lo scenario è nuovo e lo sconquasso strategico per gli USA è totale. 

Con riferimento a Putin e ai rapporti con la Russia, potremmo scrivere ore. Ci limitiamo a dire che dal 1991 ad oggi i rapporti fra Washington e Mosca non erano mai erano stati così brutti. La pessima gestione della crisi in Ucraina, le sanzioni economiche e il riarmo nell’Europa dell’Est non erano avvenuti nemmeno ai tempi del secondo mandato del pistolero Bush, quando l’allargamento della NATO a Oriente era già compiuto e Putin era già consolidato al potere. Chapeau!

Abbiamo detto di Bush; viene da sé che ogni decisione politica sia influenzata da quelle avvenute in precedenza. Se questo in parte assolve la politica di Obama, a sua volta erede di un decennio di guerre combattute dagli USA in giro per il mondo, non lo mette al riparo da critiche nella gestione della situazione in Afghanistan e in Iraq. La guerra in Afghanistan continua in sordina da 15 anni. Nel 2010, 10 anni dopo l'inizio del conflitto, si contavano circa 4 morti al giorno nella coalizione anti Talebani. Siamo lontani dai 10 morti quotidiani  del Vietnam, ma per essere una vittoria ci sarebbe da dire. Obama ha ridotto il contingente USA (arrivato a quasi 3000 caduti totali), ma una via d’uscita non è riuscito a trovarla. Il prossimo Presidente dovrà porre fine alla guerra e con ogni probabilità accettare un ritorno dei Talebani al potere.

Anche in Iraq, 13 anni dopo Iraqi Freedom, la situazione è rimasta nel limbo. Il ritiro di fatto non è stato mai attuato, anzi, gli americani sono dovuti tornare. Proprio in queste ore si combatte a Mosul, con un coinvolgimento USA diretto. Dando per scontati gli errori tra il 2003 e il 2008, viene da chiedersi se negli anni dopo si poteva fare di più.

Dell’ISIS e del terrorismo internazionale abbiamo già parlato fra le righe. Aggiungiamo solo che il Medio Oriente, endemicamente instabile, offre oggi pochissimi porti sicuri per Washington. Il futuro Presidente dovrà ricucire i rapporti con tutti i soggetti, uno ad uno. Non per ultimo con l’enigmatica Arabia Saudita, con cui gli USA dovranno risolvere anche la rogna Yemen, ormai alla deriva.

Mentre all’orizzonte si consolidano nuove potenze asiatiche ed altre certezze svaniscono (con Obama gli Stati Uniti hanno accettato l’espansionismo cinese in Estremo Oriente e perso anche l’appoggio secolare delle Filippine) vedremo cosa accadrà dal 2017 in poi. Ridimensionamento o guerra totale? gli USA sono davanti a un bivio importante. Molto della nostra vita futura, dipende proprio da questo.

 (foto: US gov - US Army)