La svolta dell’Egitto in Medio Oriente. Nasce l’asse con Russia, Iran e Siria?

(di Giampiero Venturi)
02/11/16

Di poche ore fa la notizia dell’arrivo a Tartous, in Siria, di ufficiali egiziani. I militari arabi, sarebbero accompagnati da colleghi russi per attività di addestramento congiunta a ridosso dei territori controllati dagli islamisti.

La notizia fa il botto e può essere il preludio di un riassetto importante per tutti gli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Impossibile capire cosa stia succedendo senza un rapido recupero della storia delle relazioni fra Egitto e Iran, alla base delle evoluzioni siriano-egiziane degli ultimi giorni.

Diciamo subito che Il Cairo e Teheran per mezzo secolo non si sono parlate. Dal secondo dopoguerra in poi, la Persia dello scià Reza Palhavi era il bastione americano del vicino oriente e l’Egitto scorbutico di Nasser, rappresentava i bollori nazionalisti arabi, e l’officina ideologica, demografica e militare di tutti gli attriti con Israele. Il mondo occidentale, dalla crisi di Suez in poi, avrebbe guardato all’Egitto come una bomba da disinnescare, piazzata tra l’altro in uno dei nodi più strategici del mondo, in virtù del nascente peso del petrolio.

Alla fine degli anni ’70 le posizioni di Iran ed Egitto si ribaltano. Con la rivoluzione islamica di Khomeini, Teheran inaugura un quarantennio di isolamento e duro scontro con gli USA e il mondo occidentale.  Gli accordi di Camp David e il nuovo corso di Sadat al Cairo, producono viceversa proprio l’effetto opposto: l’Egitto rinnova l’amicizia con l’Occidente e scatenando l’ira dei fratelli arabi più oltranzisti (la mano tesa a Israele gli costerà l’esclusione dalla Lega Araba che cambierà sede dal Cairo a Tunisi), si mette sotto l’ombrello degli Stati Uniti. In sostanza i due Paesi si cambiano di posto, mantenendo inalterata la distanza siderale che li divide: l’aver concesso esilio (e sepoltura) allo scià, verrà “vendicato” dall’Iran addirittura con una strada in memoria dell’assassino di Sadat…

Le armi iraniane, per decenni fornite dagli USA, diventano sovietiche, cinesi e nordcoreane; i T-62 egiziani al contrario, lasciano sempre più posto agli Abrams, che difenderanno per tutto il trentennio Mubarak la nuova fortezza filoccidentale.

Questo stato di cose è durato fino alle cosiddette primavere arabe, caldeggiate dall’Occidente ma evidentemente sfuggite di mano. La caduta di Mubarak, seguita dal corto circuito di un anno dei Fratelli Musulmani di Morsi (tra l’altro primo presidente egiziano a visitare Teheran nel 2012), ha introdotto dei riassetti politici non previsti in tutta la regione mediorientale. Perno di questo cambiamento è la figura di Al Sisi, nuovo uomo forte del Cairo, scelto con un golpe programmato proprio per mettere fine alla possibile deriva islamica in Egitto. 

Scelto per dare continuità alla politica stabilizzatrice di Mubarak sul piano della fermezza interna, il nuovo presidente egiziano ha inaugurato una stagione di iniziative politiche internazionali che fanno oggi dell’Egitto il laboratorio più interessante dei futuri assetti della regione.

Per dirla in breve, Al Sisi non è Mubarak e dopo un periodo enigmatico di rodaggio, lo fa capire senza mezze misure. Alcune sue scelte risultano in evidente contrasto con le linee guide degli Stati Uniti (ed Europa a traino):

  1. Appoggia Haftar in Libia, facendo della Cirenaica uno protettorato de facto. Benché i media minimizzino, il governo di Al Serraj, riconosciuto dall’ONU e voluto dall’Occidente, trova nel generale libico il suo nemico più fermo, allo stato attuale capace di occupare gli hub petroliferi più importanti e di impedire una riunificazione della Libia sotto la bandiera di Tripoli.
  2. Stringe con la Russia di Putin, al punto da prevedere manovre militari congiunte e trattare l’uso di basi militari nel Mediterraneo. 
  3. Nonostante l’iniziativa nel 2015 a fianco dell’Arabia Saudita per arginare l’insorgenza houthi nello Yemen, fredda i rapporti con Riad fino ad avviare un ritiro delle forze aeree dalla Coalizione arabo-sunnita e ad alimentare indiscrezioni che parlano di collaborazione fra la Marina egiziana e le stesse forze ribelli houthi attive nel Mar Rosso (armate proprio dall’Iran…).
  4. Riallaccia relazioni diplomatiche con l’Iran, colosso sciita che getta ombra da decenni si tutto il mondo sunnita arabo, di cui l’Egitto è paladino secolare. Il riavvicinamento a Teheran, giunge proprio in concomitanza agli attriti con l’Arabia Saudita, fornitore di petrolio privilegiato del Cairo e si suggella con la visita del presidente iraniano Ahmadinejad al Cairo nel 2013.
  5. Riallaccia le relazioni diplomatiche con la Siria di Assad, interrotte da Morsi nel 2012.
  6. Blocca la risoluzione francese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU tesa a condannare i raid russo-siriani su Aleppo e con grande sconcerto dell’Occidente, per bocca del Ministro degli Esteri Shukry dichiara benvenuto l’intervento russo in Siria. L’Iran, quarto produttore di petrolio al mondo e coinvolto fino al collo nella guerra siriana, non perde l’occasione e propone l’Egitto come mediatore per i colloqui di pace a Ginevra per la crisi siriana.

Le coccole fra Egitto ed Iran sono legate a doppio filo alla guerra in Siria, dove gli alleati storici del Cairo, hanno assunto una posizione ostile a Damasco (e alla Russia) fin da subito. Se la notizia di advisor egiziani in Siria fosse confermata ufficialmente, si potrebbe parlare di addirittura di asse Russia-Iran-Siria-Egitto.

Per la verità, come accennato sopra, le buone relazioni Iran-Russia ed Egitto-Russia non sono una novità. A fasi invertite e per mero interesse bilaterale, i due colossi mediorientali hanno già guardato a Mosca, quanto meno per riequilibrare l’alleanza ontologica fra Israele e Occidente. Gli stretti contatti oggi però assumono un valore diverso, non più inquadrato nella logica della compensazione. Soprattutto capitano in contemporanea, aggiungendo al tradizionale asse sciita Teheran-Damasco, un anello non previsto.

Se il flirt fra Iran e Russia ha un valore strategico sul piano politico-militare (vedi articolo) la convergenza dell’Egitto verso l’Iran, può aprire infatti scenari inediti. La dipendenza energetica del Cairo dall’Arabia Saudita potrebbe finire presto e con essa verrebbe meno il conflitto di facciata tra sunniti e sciiti, dietro cui si nasconde il confronto geopolitico fra Riad e Teheran.

Nonostante l’apertura d’orizzonte, l’Egitto rimane però fondamentale anche per le politiche contro il terrorismo internazionale, care a USA ed Europa. A questo proposito è centrale il ruolo del Cairo per i contatti con Israele, consolidati da più di trent’anni e necessari allo Stato ebraico per tenere alta la guardia contro Hamas. Proprio con riguardo al terrorismo, Al Sisi rompe le relazioni diplomatiche con la Turchia nel 2014: lo stretto rapporto tra l’amministrazione Erdogan e la Fratellanza Musulmana, strettamente connessa a sua volta ad Hamas, mette un accento sull’indipendenza politica dell’Egitto che diventa interlocutore ancora più importante per Tel Aviv. 

Mentre Israele osserva con attenzione le evoluzioni cercando garanzie nei nuovi (e buoni) rapporti con Mosca, gli scossoni arrivano oltre oceano. La nuova amministrazione americana, dovrà cercare di fare fronte all’emorragia di amicizie, ormai conclamata in tutto il Medio Oriente. Se venisse meno la corsia preferenziale con l’Egitto il cataclisma diplomatico sarebbe difficile da gestire.

Egitto e Iran sono i due serbatoi demografici della regione (160 milioni di anime) e rappresentano dopo Israele, le maggiori potenze militari del Medio Oriente.  Se Assad dovesse rimanere in sella (almeno fino al 2021, come dichiarato in un’intervista al New York Times), la mappa geopolitica dei prossimi anni sarebbe molto diversa da quella immaginata solo qualche anno fa.

Chi non si adeguerà con un sano realismo, rischia di rimanere fuori dai giochi.

(foto:  القوات المسلحة المصرية‎‎)