La strana coppia Obama-Erdogan. USA e Turchia combattono l’Isis?

(di Giampiero Venturi)
16/10/15

Il colloquio tra il presidente americano Barack Obama e il turco Erdogan ribadisce la comune strategia in Medio Oriente di Washington e Ankara. Le dichiarazioni battute dalle agenzie di tutto il mondo confermano la volontà di Usa e Turchia di aumentare la pressione militare sul Califfato e al tempo stesso armare l’”opposizione moderata” al governo Assad.

Il presidente Obama si sarebbe spinto fino a confermare all’alleato Erdogan il sostegno nella repressione del PKK, partito comunista curdo leader nella lotta all’indipendenza all’interno del territorio turco.

Le parole di Obama formulate sotto il brand di altre amministrazioni avrebbero fatto inorridire circoli intellettuali e cancellerie progressiste dei cinque continenti. Il presidente Nobel però gode spesso di un ampio credito e chi si sbracciò a suo tempo per il curdo Ocalan, oggi finge di non sentire.

Su questa rubrica abbiamo già analizzato il controverso ruolo svolto dalla Turchia negli attuali scenari mediorientali (v.articolo).

Vale la pena approfondire alla luce delle convergenze tra Erdogan e Obama che confermano quanto già sviscerato.

Vediamo meglio.

La Turchia è membro NATO dal ’52 e dagli inizi degli anni ’70 ha condiviso il confine sud orientale con un Assad: prima il padre, poi il figlio. Come da noi già sostenuto (v.articolola dinastia di Damasco, per quanto ostile sulla carta all’Occidente e a Israele, è stata preferita per quarant’anni al vuoto politico per ragioni di equilibrio regionale. In particolare è stata l’aperta ostilità all’OLP di Arafat, determinante per Israele, a garantire lunga vita al potere degli alauiti in Siria.

In questo specifico gioco la Turchia, soprattutto fin quando ha goduto di ottime relazioni con Tel Aviv, ha avuto il suo interesse diretto: un potere stabile in Siria ha permesso di congelare la Questione Curda, problema condiviso con Damasco. Le YPG, Unità di Difesa Popolare curde imparentate ideologicamente col PKK, sono la sponda siriana dei peshmerga e per inciso anche le milizie più affidabili e motivate nel combattere lo Stato Islamico.

L’impasse delle forniture militari ai curdi siriani con inevitabili ritardi negli esiti della guerra all’Isis nel settore nord orientale siriano si spiegano con le pressioni della Turchia. Il quadro è limpido. Molto meno chiaro capire cosa spinga la Turchia ad astenersi dal mettere in sicurezza un’area che per mezzo secolo ha voluto e dovuto mantenere stabile. Una Siria debole è il primo dei grandi problemi di Ankara, sia per la conseguente assunzione di peso politico dei curdi (già stimolati dall’autonomia in Iraq), sia per l’ineluttabile flusso di profughi già oggi difficile da gestire.

Quando Stati Uniti e Turchia parlano di "fazioni moderate" che combattono il governo di Assad, fanno riferimento essenzialmente a Jaish Al Fatah, l’Esercito della Conquista, attivo sul fronte nord ovest (non lontano dal confine turco) e ormai cartello di convergenza di diversi fronti islamisti di matrice sunnita. Tra i maggiori contatti politici di Jaish Al Fatah  ci sono i Fratelli Musulmani egiziani, che gettano un’inquietante impronta sull’esistenza di un asse sunnita islamista radicale di portata internazionale. Al di là delle divergenze ideologiche, Isis in fondo è esattamente la stessa cosa.

Ciò che risulta ormai evidente è che la Turchia ad una strategia di contenimento secolare che ha consentito di consolidare il suo ruolo di potenza regionale, preferisce oggi l’aderenza ad un fronte sunnita affatto privo di ombre. Dietro Jaish Al Fatah c’è innanzitutto l’Arabia Saudita, grande fratello dei sunniti, in particolare di quella componente ultraconservatrice che fa riferimento al wahhabismo.

Che il MIT turco (intelligence) abbia deciso di giocare col fuoco non è ancora dato saperlo. I contatti operativi tra Israele e Russia però vanno considerati anche in questo senso.

Quali che siano gli obiettivi di Ankara, il suo tornaconto nel lungo periodo è tutto da vedere. Della deriva islamica dei turchi, su questa rubrica abbiamo già parlato (v.articolo).

Difficile capire l’evoluzione degli scenari, soprattutto alla luce delle elezioni anticipate di novembre, dove Erdogan e la Turchia si giocano tutto.

Più facile invece è intuire perché gli Stati Uniti stiano al gioco turco o comunque se ne rendano complici. Messe da parte teorie aliene che leggono propaggini islamiche nelle leve del potere USA (in quelle finanziarie ci sono…), c’è da ricordare quanto gli Stati Uniti abbiano bisogno della Turchia e dei suo alleati nel Golfo Persico, Sauditi su tutti. Al controllo della produzione di greggio (e quindi del prezzo) si somma il tentativo di dare un senso ad una presenza nella regione messa in grave difficoltà dalla vittoria di Netanyahu alle elezioni di marzo in Israele. Il gravissimo errore di Obama di esporsi contro il Likud sta dando ora i suoi frutti: senza Ankara e i compari sunniti del Golfo, l’America in Medio Oriente oggi di fatto sarebbe sola.

Il fatto che lo sconfinamento di caccia russi in Turchia abbia più spazio mediatico della ricerca di una strategia comune contro il Califfato, spiega del resto molte cose. Tra queste che USA e Turchia non stanno combattendo l’Isis e comunque non lo fanno per vincere.

(foto: Türk Ordusu/web)