Inizia l'era Trump, l'occasione storica dell'Europa

(di Giampiero Venturi)
20/01/17

L’insediamento di Trump apre la strada al gossip. Come se non ci fosse niente di meglio da pensare in queste ore, sembra far notizia più il passaggio di consegne in quanto tale, che la cornice storico-politica in cui s’inserisce.

Senza perdere tempo a discutere se sarà bene o male, quel che bisognerebbe mettere in rilievo è che l’arrivo di Trump segna un indiscutibile momento di rottura rispetto alla politica tradizionale e il fatto capita forse nel momento storico più propizio. Più che di politica parliamo di geopolitica.

La ragione è semplice. Noi tutti (intesi come comunità organizzate e come liberi cittadini) viviamo con schemi legati agli equilibri nati alla fine della Seconda guerra mondiale.

Quegli equilibri, sigillati a Yalta, hanno generato due grandi fattori, elementi di distinzione di un’intera epoca:

- prosperità e pace nei Paesi dell’Europa occidentale, per secoli abituati a darsele di santa ragione;

- trasferimento delle chiavi del potere dal Vecchio Continente agli USA.

Così, mentre l’Europa cresceva nel benessere, l’America diventava il grande fratello dell’Occidente, cappello di tutti i valori incarnati dall’uomo riconosciuto essenzialmente come bianco e cristiano.

Il passaggio di consegne tra le due sponde dell’Atlantico ha messo in soffitta Parigi e Londra, centro del mondo per secoli, avviandole a un declino politico sublimato poi dalla fine degli imperi coloniali.

Quel sistema è stato essenziale per permettere all’Europa di sopravvivere e ha avuto ragione di esistere essenzialmente sulla base della paura, in virtù cioè di una minaccia. L’espressione di Ronald Reagan che delineava l’URSS come male assoluto ancora negli anni ’80, era la sintesi di mezzo secolo di equilibri in cui le ultime due generazioni dell’umanità si sono ragionevolmente riconosciute. 

Il problema attuale è che le regole sono ancora le stesse, ma gli equilibri su cui sono state costruite, oggi non esistono più.  Nella sostanza c’è un totale scollamento tra il mondo in cui viviamo e quello che appariva nel 1945.

Il processo è iniziato con la fine della Guerra fredda, ma per pigrizia e per interesse, la cosa è stata sottaciuta. Non è difficile capirne il perché: ogni cambiamento ha un costo e soprattutto e spesso comporta l'assunzione di grande rischi per tutti. La semplice deduzione vale sia per gli americani che per gli europei.

Gli americani sanno benissimo che una volta chiuse le basi di Ramstein o di Aviano, per poterle riaprire ci sarebbe bisogno di un’altra guerra mondiale. Il problema non è mai sbattere una porta; semmai riaprirla dopo averla chiusa. Nell’ultimo quarto di secolo quindi, niente è stato più comprensibile del costante lavoro degli Stati Uniti affinché il proprio ruolo di potenza egemone rimanesse tale. Caso mai avrebbe sorpreso il contrario.  

Allo stesso modo risulta difficile l’adattamento a nuovi equilibri per noi europei. Come un vitello grasso, appesantito dalla propria inerzia, l’Europa occidentale per decenni (e per la prima volta nella sua storia) non si è preoccupata di nulla, se non di mantenere il suo benessere. La delega in bianco firmata agli USA nel ’45 (nel ‘49 in realtà, con la nascita della NATO), in fondo ha garantito due risultati accettabili: all’Europa ricchezza; all’America ricchezza e potere.

Il tempo passa però e con esso molti di quei fattori che rendono stabili i quadri politici e sociali. Oggi il mondo appare sostanzialmente diverso da quello del 1945, lo abbiamo già detto, ma rottamare il mondo vecchio per accettare una realtà profondamente cambiata non è affatto automatico. Mettersi davanti allo specchio può essere traumatico, soprattutto se costringe le leadership attuali a considerare due fattori:

- la nascita di nuovi equilibri comporta la fine di certezze consolidate;

- l’adattamento ai nuovi equilibri significa assumere responsabilità e le responsabilità costano.

Il primo punto più che un invito è un dato storico difficilmente contestabile. Senza affondare l’analisi nella storia italiana preunitaria, basta scorrere quanto successo dal 1861 al 1945 per capire che le relazioni fra Stati di solito sono fluide e che convergenze e divergenze tra Paesi ruotano con frequenze più alte di quelle a cui siamo abituati.

Se i concetti stessi di sovranità e nazione vanno considerati come principi non assoluti, come pensare che lo stato dell’arte nato a Yalta nel 1945 possa rimanere eterno?

Più che un discorso politico è uno spunto antropologico: gli uomini si organizzano secondo regole e forme sempre nuove; i nati nel secondo dopoguerra sono forse gli unici nella storia dell’Europa a non averlo sperimentato.

Anche il secondo punto si fonda su dati oggettivi. In altri termini, fare l’orecchio da mercante per noi europei conviene ancora perché significa innanzitutto non prendersi rogne. Che questo comporti un compromesso con la libertà e l’orgoglio identitario, così come successo per 70 anni, ovviamente non c’è nemmeno da dirlo…

Se Trump, che da oggi è Presidente degli Stati Uniti d’America, sia effettivamente il punto di rottura fra vecchio e nuovo, lo capiremo presto. A prescindere da come sarà e da quanto sarà coerente, i presupposti ci sono.

Prima o poi l‘Europa dovrà capire che il XX° secolo è finito. Il cappello dello zio Sam non sarà sempre così largo da garantire riparo a tutti. Sono i corsi della Storia e Trump, nel bene e nel male, potrebbe essere lo strumento attraverso cui si accelerano.

Per noi europei rimane l’enorme e drammatico interrogativo sul come mettere in soffitta decenni d’inerzia politica. La cultura dell’identità e della sua difesa sono state cancellate dal nostro prisma ottico come un veleno pericoloso. Quando arriverà il conto di un nuovo e inevitabile svezzamento, per il Vecchio Continente saranno dolori. Forse, paradossalmente, questo non sarà un male.

(foto: web)