Il ruolo della Turchia in Siria, tra America e Kurdistan

(di Giampiero Venturi)
26/09/15

Le sponde armate del Royava, il Kurdistan siriano, sono a tutti gli effetti le YPG, le Unità di Difesa Popolare. Nel marasma Siria, rappresentano una delle presenze più affidabili sul piano della continuità operativa, soprattutto in virtù del radicamento sul territorio. Il lato nordest della Siria è il settore ovest del grande Kurdistan che si estende virtualmente poi in Iraq, Iran e a nord in Turchia per 400.000 kmq (Italia e Portogallo messi insieme). 50 milioni di anime che si dividono sotto quattro Stati diversi.

Il fronte delle YPG teoricamente correrebbe tra la città curda di Al Hasakah a nord e l’Eufrate a sud, fino alla città araba di Raqqa, “capitale” del cosiddetto Stato Islamico. Per forza di cose si estende però a tutta la fascia lungo il confine turco, arrivando alla ormai celebre città di Kobane, più araba che curda in realtà.

Com’è logico, il settore interessato dalle YPG è strategicamente decisivo per misurare l’avanzamento delle milizie Isis. Il controllo del confine turco garantirebbe al Califfato una continuità territoriale enorme, con linee di rifornimento infinite.

A fianco dei Curdi, a seconda del momento, combattono sia i disertori dell’ESL (Esercito Siriano Libero), principale forza di opposizione al governo di Assad, sia le truppe regolari di Damasco. Il nemico comune Isis accomuna tutti, compresi gli aerei della coalizione a guida americana che non di rado si trovano nella grottesca situazione di aiutare indirettamente le truppe di Assad, come successo nel luglio 2015 durante la riconquista di Al Hasakah.

Risulta pertanto logico che gli Stati Uniti considerino da tempo le YPG come l’alleato più adatto per affrontare le forze del Califfato. Oltre alle capacità e alla conoscenza del territorio, sono quelle che apparentemente rappresentano un minor costo ideologico. A questo proposito va ricordato che fanno parte della coalizione anti Isis in Siria anche aerei di Arabia Saudita, Emirati, Bahrein e Giordania, tutti Paesi arabi a guida sunnita, nemici storici degli sciiti di Damasco (e dei loro alleati iraniani).

Un aiuto incondizionato degli Stati Uniti ai Curdi delle YPG sarebbe quindi lo sviluppo più naturale della crisi siriana, almeno sul delicato fronte nord.

Il problema strutturale dell’YPG però è la Turchia. Ankara non può permettersi debolezze sulla Questione Curda e considera i miliziani armati oltre il confine sudorientale una minaccia concreta alla sua sovranità, soprattutto alla luce dei malcelati legami tra YPG e PKK. In virtù del peso che ha all’interno dell’Alleanza Atlantica, la Turchia finisce per influenzare direttamente l’appoggio occidentale ai Curdi siriani, di fatto rallentandolo.

Esistono anzi episodi che la dicono lunga sull’atteggiamento di Ankara nel contesto siriano, al punto da metterne a nudo l’effettivo schieramento a fianco delle milizie islamiste. La cattura di soldati turchi al seguito dei jihadisti a Kobane e il passaggio di miliziani Isis all’interno del territorio turco per facilitare l’assedio alla città sono stati i casi più eclatanti nel giugno scorso. Le stesse forze schierate a sud est per iniziare fantomatiche operazioni contro gli islamisti sono in realtà mobilitate contro la recrudescenza del PKK, particolarmente attivo per tutta l’estate 2015.

L’ambivalenza di Ankara riguardo l’Isis in realtà va ben oltre. Il trittico sunnita con Arabia Saudita e Qatar è un sodalizio collaudato ormai non solo sul piano teorico e ideologico, ma assume forme operative in diversi teatri internazionali. In Libia la Turchia finanzia il fronte islamista di Derna, nello Yemen è al fianco dei Sauditi nel tentativo di raffreddare l’insorgenza sciita degli Houti. Se pensiamo che le relazioni con Israele, amico tradizionale dei Turchi, sono al minimo storico, il dado è tratto.

Il nuovo dinamismo di Ankara imbarazza non poco gli alleati NATO ed è sintomatico di due fattori per alcuni aspetti inquietanti:

  1. Una sensibile rotazione su posizioni confessionali della Turchia che contraddice l’occidentalismo laico imboccato da Ataturk negli anni ’20. https://www.difesaonline.it/geopolitica/tempi-venturi/lepanto-ieri-e-oggi-la-turchia-si-muove
  2. Una maggiore polarizzazione del mondo islamico su due fronti: l’uno patrocinato dall’Iran sciita; l’altro dalle monarchie sunnite del Golfo, che nonostante facciamo parte della coalizione anti Isis, da più parti si dice ne siano le finanziatrici.

L’America di Obama non può permettersi strappi col fronte sunnita in cui la Turchia ricopre un ruolo sempre maggiore. Al di là delle alleanze tradizionali, sul piano geopolitico più recente Turchia e Arabia Saudita sono fondamentali anche in funzione anti russa: la Turchia è l’ultimo tassello strategico del semicerchio Crimea-Caucaso-Siria, teatri in cui la presenza militare di Mosca è tutt’altro che simbolica.

Ryad dal canto suo è necessaria per tenere alta la produzione di petrolio e svalutare di conseguenza il rublo. Non sono pochi quelli che sospettano che la nomina del saudita Faisal bin Hassan alla presidenza del Gruppo consultivo del Consiglio dei diritti umani all’ONU (una barzelletta per tutti…), rientri nel sistema di lubrificazione degli alleati indispensabili agli Stati Uniti.

Non irritare Sauditi e soprattutto Turchi, per l’America oggi è un dogma. Ecco spiegato, come segnala il Washington Post, che rifornimenti americani destinati ad essere paracadutati alle YPG lungo la direttrice di Raqqa, attendono da settimane solo l’ordine della Casa Bianca. 

Gli aiuti sarebbero determinanti per portare a termine la controffensiva curda e addirittura il recupero della città, altamente simbolica per il califfato. Tutto tace e i rifornimenti languono, con buona pace della guerra all’Isis.

Salvare almeno le apparenze o alimentare gli ottimi rapporti con la Turchia? Quale di queste due necessità del Pentagono prevarrà è piuttosto facile intuirlo. I Curdi da guerriglieri peshmerga sfilacciati del passato sono passati a un vero e proprio esercito organizzato che sul teatro siriano si è già fatto onore verso la comunità internazionale. Quando andranno a chiedere il conto, la prospettiva più concreta è che nessuno risponda. Finché la Turchia sarà nella NATO la nascita del Kurdistan dovrà aspettare ancora.