Il Golfo non brucerà: “All’Iran non serve una guerra col Bahrain”

(di Giampiero Venturi)
23/06/16

Il Bahrain è un piccolo regno del Golfo. Se sia più immerso nel petrolio o nelle acque calde dell’arcipelago, spetta al vento della Storia deciderlo; dipende dai corsi e dai ricorsi delle cronache.

Come propaggine dell’Arabia Saudita, condivide con la dinastia Saud il destino politico di una ricchezza recente, dannata dalla geografia che l’ha resa più strategica che antropizzata.

Il Bahrain è unito all’Arabia Saudita dalla King Fahd Causeway, la strada rialzata sul mare che funge da cordone ombelicale fra due monarchie rigide e fragili al tempo stesso. Se non bastasse il nome a dirla lunga sull’invadenza saudita, tre sono gli aspetti fondamentali che uniscono Manama a Riad:

- la forte impronta tradizionalista sunnita del potere reale;

- l’importanza del petrolio per la sopravvivenza del regno;

- il comune nemico persiano che dall’altra sponda del Golfo soffia sul fuoco.

Intorno a quest’ultimo ruota tutta la geopolitica della regione da più di 30 anni, da quando cioè con la nascita del Consiglio di Cooperazione, si è sancita una divisione netta fra le due rive del Golfo.

Già sul nome si potrebbe discutere: Golfo Arabico per gli arabi della sponda occidentale; Golfo Persico per gli iraniani del lato orientale. Oltre alle definizioni, l’acredine è più che reale: dal 1981, Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Qatar, Bahrain ed Emirati formano una cordata il cui scopo è contrapporsi all’espansionismo iraniano senza ricorrere all’aiuto dei fratelli maggiori arabi.

Proprio quest’ultimo assunto ha influenzato le scelte di politica estera delle monarchie del Golfo fino ai nostri giorni: nonostante gli aiuti copiosi all’Iraq sunnita nella guerra contro l’Iran, il “socialismo” baathista di Baghdad non dava garanzie. La scelta di fare comunella con gli USA è nata proprio in questo contesto, fino alla sublimazione avvenuta nel 1990 con l’invasione di Saddam del Kuwait.

L’espansionismo iraniano, considerato pericoloso dagli arabi innanzitutto sotto il profilo demografico, ha in realtà un substrato religioso, quindi sociale e politico. Come roccaforte dello sciismo mondiale, Teheran è la madrina di tutte i seguaci di Alì sparsi nel mondo islamico. Circa 700.000 cittadini del Bahrain (su 1.400.000 totali) è di fede musulmana sciita. Non solo: Manama dista solo 100 km da al Qatif, la città dell’Arabia cuore dello sciismo saudita. Viene sa sé che la sindrome da rivolta rovina il sonno della casa reale del piccolo Stato insulare dai tempi dell’affrancamento dal dominio britannico. 

Le tensioni fra iraniani e arabi del Consiglio di Cooperazione sono da sempre una costante delle cronache del Golfo. In particolare Manama è al centro delle invettive di Teheran per essere il cuore del Naval Support Activity, il quartier generale della Quinta Flotta USA, rinata negli anni ’90 e divenuta bastione degli interessi di Washington nella regione. 

Non a caso quando nel 2011 il Medio Oriente è stato scosso dalle cosiddette primavere arabe, la crisi nel Bahrain è arrivata ad un passo dal rovesciamento di re Bin Āl Khalīfa. Dietro la rivolta armata soffiava l’Iran e dietro il suo soffocamento agiva l’Arabia Saudita che per l’occasione ha spedito mille soldati nell’arcipelago fratello. 

Lo scenario si è ripetuto nel gennaio 2016 quando la condanna a morte dell’imam sciita al Nimr ha rinnovato gli scontri tra sciiti e sunniti, con conseguente attrito diretto tra Teheran e Riad. Il Bahrain ancora una volta si è ritrovato coinvolto.

Notizie rimbalzate nelle ultime ore dal Golfo parlano dell’arresto nel Bahrain dell’ayatollah Qassim, maggiore esponente dell’opposizione alla casa reale di Manama. Il fatto sarebbe la base delle proteste dell’Iran e della conseguente minaccia d’intervento diretto per bocca del generale Suleimani, capo delle unità Q’uods dei Pasdaran, create per la diffusione oltre confine del credo rivoluzionario khomeinista.

Il copione non è nuovo: la tensione sale, i pasdaran si agitano intorno alla discriminazione contro gli sciiti, la Quinta Flotta e l’Occidente in teoria si preparano.

Ma lo scenario è credibile? un nuovo conflitto nel Golfo è un’ipotesi realistica? Soprattutto, fino a che punto può spingersi l’Iran contro il piccolo regno del Bahrain?

Per almeno tre ragioni la guerra non conviene a nessuno.

L’Iran, dopo la firma degli accordi sul nucleare, non ha vantaggi immediati a rialzare la tensione con gli arabi oltre ad una misura gestibile. Per Teheran è più utile mettere il sale sulle ferite tra Stati Uniti e Israele, giocando il ruolo del “nemico necessario”. Tel Aviv è paradossalmente vicina agli arabi sunniti nelle politiche antiiraniane e vede come fumo negli occhi ogni accomodamento occidentale verso Teheran. In virtù di questo dato la voce grossa dell’Iran contro gli alleati arabi degli USA è solo una presa di posizione strumentale dal grande rilievo in politica interna, ma sterile sul piano di quella internazionale. All’Iran una solidificazione della già surreale intesa saudita-israeliana non conviene affatto.

In una logica di potere regionale l’Iran piuttosto preferisce marcare il territorio, ben sapendo di essere l’unica alternativa politico militare al potere geopolitico di Riad e l’unica fonte di stabilità regionale in considerazione della guerra in Siria, in Iraq e del conflitto strisciante fra sciiti e sunniti. 

Sulla sponda araba la musica non cambia. Dietro Manama ci sono le monarchie del Golfo e interessi planetari che a tutto tendono fuorché a una guerra. Il rialzo della tensione influenzerebbe il prezzo del barile, che su pressione americana viene artificialmente tenuto basso dall’Arabia Saudita e i suoi alleati più stretti. Riportare i prezzi in alto aiuterebbe l’Iran (e il rublo russo), vanificando gli sforzi di Washington degli ultimi anni.

Re Bin Āl Khalīfa per ora quindi può dormire sonni tranquilli. Il più grande nemico del mondo arabo sunnita, l’Iran, è cresciuto enormemente negli ultimi anni, sdoganandosi da una lunga quarantena. È primario interesse dell’Iran non dilapidare questo patrimonio acquisito. Non è immediato interesse di nessuno che questo stato di cose cambi.

(foto: BNA)

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