I flagelli del Kenya: dall'indifferenza ad al Shabaab

(di Giampiero Venturi)
07/04/15

Il Kenya, tra i tanti tratti che lo descrivono, ha tre caratteristiche che se prese insieme lo rendono unico:

1) sta in Africa

2) c’è una differenza semantica tra le parole Keniota e keniano

3) confina con la Somalia.

Sul primo punto, in barba al politically correct, potremmo parlare per giorni. Ci limitiamo a dire che oltre ad essere un tratto distintivo, è spesso anche un problema comune ad altri 54 Stati. La cosa non scalfisce la posizione privilegiata del Kenya in un’ottica continentale. Evitiamo di dire che è la Svizzera del Continente Nero solo perché il pareo di Briatore sarebbe fuori stagione a Zurigo e perché la cioccolata risulta troppo calorica per il clima dell’Equatore.

Possiamo sostenere però che per proiezioni di sviluppo, infrastrutture, livello d’istruzione e stabilità politica, il Kenya rappresenta da decenni una certezza in un contesto regionale a dir poco straziante.

Negli ultimi cento anni in molti ne hanno esaltato le suggestioni: Karen Blixen con La mia Africa; Edoardo Vianello con i Watussi e l’Alligalli; i turisti con i safari; Briatore e i suoi amici con le ville a Malindi e Watamu…

Il Kenya è tra i pochi Paesi africani a non fare del Colpo di Stato una prassi costituzionale, garantendo anche agli occhi spesso strabici degli osservatori internazionali una stabilità istituzionale quasi invidiabile. Sarà per i soldi che arrivano col turismo; sarà per lo scudo Masai che campeggia sulla bandiera e protegge la Nazione dal malocchio, ma possiamo azzardare che il Kenya di suo è messo meglio di tanti altri colleghi africani.

Sul secondo punto ricordiamo che Keniota è un sostantivo e keniano è un aggettivo. Almeno per i puristi della lingua, col primo si dovrebbero definire gli abitanti del Kenya, col secondo tutto il resto. Ogni lettore poi si regola come vuole...

Il problema vero in realtà è l’assunto geografico inoppugnabile secondo cui il Kenya confina con la Somalia. Non è un pregiudizio sull’ex colonia italiana, ma un appunto pragmatico.

Anche con sforzi grossi, troviamo gravi difficoltà a isolare un solo vantaggio per Nairobi derivato dalla contiguità territoriale con la terra amministrata da Mogadiscio. “Amministrata” per modo di dire, s’intende. Anche i bambini dell’asilo sanno che la Somalia esiste solo sulla carta.

Dalla fine della Guerra dell’Ogaden, quando il craxiano Siad Barre contendeva il Corno d’Africa all’Etiopia comunista di Menghistu, la Somalia è degradata fino a somigliare più a un poligono di tiro che a uno Stato sovrano. Dai Signori della Guerra alla deriva islamica, il passo è stato breve. Le prime insorgenze continentali in questo senso sono nate giusto in Africa Orientale: basti pensare agli attentati jihadisti alle ambasciate americane del ’98 proprio in Kenya e Tanzania.

Il processo è frutto di una gestazione antica, nata sullo scontro culturale fra matrice arabo-islamica e nera-africana in essere da secoli: da Gibuti al Sud, fino alle isole Comore, tutta la costa orientale dell’Africa è una zip fra due mondi in eterno contrasto. L’accelerazione dovuta al Black Hawk Down americano del ’93 e la forte espansione musulmana nella fascia tra l’Equatore e il Sahel, hanno fatto il resto.

Un Paese stabile si trova così a fare i conti con i resti della guerra civile somala che esporta fondamentalismo e terrore.

La strage di Cristiani a Garissa non è casuale. Le provincia nord orientale del Kenya di cui Garissa è capoluogo, è a maggioranza somala e islamica, così come fortissime presenze musulmane sono endemiche lungo tutta la costa dei villaggi turistici.

Viaggiando dall’entroterra all’Oceano, le chiese, le scuole, le case e i camion sui cui campeggiano simboli dell’insegnamento cristiano, lasciano spazio progressivamente a moschee e a scritte che inneggiano ad Allah. Basta percorrere l’autostrada tra Nairobi e Mombasa dalla cittadina di Emali in poi per rendersene conto. Più il mare si avvicina più si avverte l’odore dell’Islam. 

Stupirsi dell’attrito feroce e della follia omicida sembra un’ipocrisia: il Kenya è in trincea da anni e tutti fingono di non saperlo.

Quello che stordisce semmai è l’assordante indifferenza dell’Occidente davanti al genocidio dei Cristiani.

Anzi no. Non stupisce affatto. Agli errori commessi con arroganza nei primi anni ’90, quando la fine della Guerra Fredda sottintendeva un riassetto degli equilibri anche in Africa, bubbone demografico pronto ad esplodere, è seguito il nulla. I tour operator sono stati più solerti delle cancellerie e il Corno d’Africa è stato lasciato crescere male. Nemmeno il suo potenziale strategico è riuscito a smuovere l’Occidente dal suo accidioso masochismo.

Ora raccogliamo quello che (non) è stato fatto e i Cristiani, come ormai accade ovunque nel mondo, pagano per tutti.

Giampiero Venturi

(foto dell'autore)