Disastro Obama. Tutti gli errori del presidente

(di Giampiero Venturi)
24/11/15

Mentre Hollande vola a Washington per organizzare un cartello internazionale per  la guerra al terrorismo, le prime dichiarazioni di Obama già lo anticipano.

“Guerra all’ISIS, la Russia può avere un ruolo…”

Ça va sans dire. Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: la Russia il ruolo ce l’ha già e se lo è ritagliata da sola. Il nonsense del presidente americano è sintesi di un fallimento decennale in politica estera le cui conseguenze graveranno sul ruolo futuro degli Stati Uniti e sulle politiche strategiche della prossima amministrazione.

Andiamo per gradi.

Nell’agosto del 2013 si giocava a “nascondino” nel Mediterraneo orientale. L’attacco americano alla Siria di Assad, accusato di usare armi chimiche contro i ribelli, era imminente. Sarebbe stato l’atto finale dell’appoggio alle primavere arabe, leggerezza strategica con cui sono stati rimossi regimi discutibili ma stabili tra Maghreb e Medio Oriente.

Tra aprile e maggio del 2013, mentre l’esercito regolare siriano era in piena offensiva contro i ribelli, un aiuto indiretto agli insorti veniva da Israele, preoccupato che Hezbollah, alleato sul campo delle forze siriane, non acquisisse equipaggiamenti oltre il limite tollerabile. Ufficialmente le azioni degli F-16 di Tel Aviv miravano in particolare all’eliminazione dei missili iraniani Fateh-110.

Come già scritto su questa rubrica, obiettivo di Israele non era la defenestrazione di Assad, nemico tollerabile, quanto lo scongiuramento dell’anarchia ai suoi confini nord.

A seguito (o in concomitanza) dell’intervento diretto israeliano ci fu la ripresa ufficiale delle forniture militari russe a Damasco, in realtà mai cessate, ma salite di qualità per ordine di Putin con la consegna dei temutissimi sistemi di difesa aerea S-300.

Gli effetti di questa mossa, imbarazzo per la stessa Heyl Ha'Avir,  hanno avuto una ricaduta sul piano geopolitico globale?

La risposta è complessa, ma il dato inoppugnabile è che il ventilato attacco alla Siria da parte USA è saltato. È stata la prima volta in tempi recenti in cui ad un ultimatum americano è conseguito un nulla di fatto: la guerra non c’è stata e la “minaccia” (in questo caso Assad) è rimasta al potere.

Anche se il dietro front della flotta americana fosse dipeso solo dal rischio militare, il dato politico emerso è notevole. Benché la consegna degli S-300 avesse reso il cielo della Siria praticabile solo con alti rischi (il sistema è micidiale contro F-18, F-15, F-16 e contro missili da crociera lanciati da navi), la titubanza di Obama nell’agire, comunque era già stata fatale.

Non solo. La conclamata supremazia della Sesta Flotta americana nel Mediterraneo di lì a poco avrebbe fatto i conti col ritorno della Marina russa a largo delle coste siriane, aiutata da due fattori strategici: il potenziamento della base in Crimea sottratta alla Marina ucraina nel 2014 e la rinnovata ospitalità iraniana nel porto di Bandar Abbas nel Golfo Persico.

L’offensiva russa contro l’ISIS in Siria e l’iniziativa francese seguita ai fatti di Parigi (con contatti diretti fra comandi russo e francese) hanno fatto precipitare la situazione, mostrando l’effettivo stato dell’arte: quello che poteva sembrare uno stallo decisionale degli USA si è trasformato in impotenza. Assad non può più essere un obiettivo militare e l’efficacia delle operazioni americane contro l’ISIS deve tener conto di altri testimoni sul terreno.

In un’area vitale per gli interessi americani lo smacco è enorme, soprattutto alla luce dello smarcamento di Israele, rapido ad accordarsi con i russi per tenere a bada Hezbollah e Iran, implicati nelle operazioni al fianco di Damasco.

Gli USA tagliati fuori dai giochi in Medio Oriente per colpa di Obama?

Possiamo dire che la sufficienza con cui gli USA delineano il profilo degli altri è spesso politicamente trasversale. Se questo non assolve il presidente dalle sue colpe, sicuramente può spiegare alcune sue scelte.

Edward Luttwack, politologo americano vicino ad ambienti conservatori, a marzo 2015 dava per spacciato Putin, paventando scenari di rivolte interne alla Federazione Russa.

Perfino autorevoli riviste di analisi geopolitica di orientamento atlantico (Limes, n.d.a) a dicembre 2014 dichiaravano Putin un leader sconfitto, costretto ad agitare acque fuori per nascondere magagne interne.

Che il Cremlino fosse capace di infilarsi con tempismo nel vuoto geopolitico lasciato dai tentennamenti americani, lo avevano previsto in pochi. La crisi ucraina del 2014 e la guerra in Georgia del 2008 rientravano nel cosiddetto “giardino di casa russo” ed ogni azione americana andava pesata come un metro guadagnato nella corsa della NATO verso Est. I risvolti della crisi siriana aprono invece scenari molto diversi.

L’attuale imbarazzo degli USA costretti a scendere a compromesso militare con Mosca, è paragonabile solo all’interregno dell’amministrazione Carter di fine anni ‘70, sulle cui decisioni gravava però la sindrome Vietnam.

Cosa succederà dal gennaio 2017 a Washington per certi versi è facile immaginarlo. Chiunque sia il nuovo inquilino della Casa Bianca in termini di politica estera (in Medio Oriente soprattutto) si andrà in direzione sicuramente molto diversa da quella di Barak Obama. Se questo corrisponda a un interventismo globale o a uno “splendido isolamento” non potrà dircelo invece nemmeno l’appartenenza politica del futuro presidente. Bisognerà avere pazienza e aspettare.

Il debito accumulato dagli USA anche in termini di credibilità presso l’opinione pubblica mondiale è diventato alto. Il prossimo leader americano potrebbe avere il compito più difficile tra i suoi omologhi dell’ultimo mezzo secolo.

(foto:  القوات المسلحه السورية/Tass)