De-escalation e guerra a basso profilo: ecco il futuro prossimo della Siria

(di Giampiero Venturi)
12/05/17

Ai colloqui di pace di Astana in Kazakistan (aggiornati al 16 maggio prossimo), sono stati finora raggiunti alcuni importanti risultati.

Il memorandum firmato il 4 maggio da Russia, Iran e Turchia prevede la creazione di zone cosiddette di “de-escalation”, simili alle più note “no fly zone”. Le aree individuate sono quattro:

- la regione di Idlib allargata a Latakia, Aleppo e Hama;

- i territori a nord di Homs;

- Est Ghouta (area metropolitana a est di Damasco);

- l’area di Dar’a e Al Quneitra a ridosso del Golan.

L’idea è di Mosca e permette innanzitutto di abbassare il volume del conflitto in tutto il Paese, ma al tempo stesso di raggiungere un obiettivo strategico: dagli accordi sono esclusi l’ISIS, i gruppi terroristi legati ad Al Qaeda (ex Al Nusra) e Hayat Tahrir al-Sham ; la guerra quindi si concentrerà contro le fazioni estremiste trovando un punto di convergenza tra tutti i Paesi coinvolti.

Tra i protagonisti dei lavori di Astana non è un caso che ci sia la Turchia, grande sorella degli islamisti del nord, ma finita in un cul de sac per due ragioni:

1) Trump ha deciso di continuare ad armare i curdi che combattono sul fronte di Raqqa;

2) la nascita di Hayat Tahrir al-Sham (Movimento di Liberazione del Levante) nel nord della Siria, sta alimentato una guerra civile tra islamisti che mette in difficoltà Jaysh al Islam e il Free Syrian Army appoggiati dai turchi.

Interesse della Turchia è spegnere rapidamente il fuoco e arrivare ad un guadagno minimo lungo tutta la linea di confine con la Siria. Le speranze di Ankara non sono in contrasto con l’idea di creare aree cuscinetto come una sorta di cornice intorno al Paese arabo. 

Cosa succederà allora in Siria?

Il rafforzamento militare di Assad continuerà e permetterà nei prossimi mesi di eliminare progressivamente tutte le sacche di resistenza jihadista nella regioni più importanti del Paese. La partita si gioca su due piani.

Da una parte Damasco continua a siglare accordi di resa con i gruppi ribelli che consegnano le armi pesanti in cambio del trasferimento nel Governatorato di Idlib, diventato il punto di raccolta di tutti i ribelli islamisti. Gli accordi consentono ai siriani di dislocare altrove migliaia di soldati e di rafforzare tutti i territori liberati: attualmente le cinque città più importanti della Siria (Damasco, Aleppo, Hama, Homs, Latakia) sono saldamente nelle mani del governo.

Dall’altra ci sono i combattimenti contro gli jihadisti esclusi dal memorandum di Astana che in queste ore continuano in tutta la Siria. Partita l’offensiva tra Palmira e Deir Ezzor (mentre scriviamo elicotteri Mi-8 russi atterrano a Deir Ezzor con centinaia di siriani di rinforzo), i governativi contano di allungare anche a sud, lungo l’autostrada Damasco-Baghdad, verso il confine iracheno. 

Si verranno comunque a formare dei cuscinetti di territorio dove, almeno per il momento, Damasco non avrà giurisdizione.

Il primo è a nord est e coincide con il Kurdistan siriano (Rojava). I curdo-arabi delle SDF, appoggiati dagli USA, hanno liberato in queste ore la diga di Tabqa sul Lago Assad e sono a pochi chilometri da Raqqa, sedicente capitale dello Stato Islamico. La scelta di Trump di continuare ad armare i curdi non piace affatto ad Ankara che intanto consolida le sue posizioni nella fascia di confine di Jarablus, da dove partì Scudo dell’Eufrate nel 2016.

In contrasto con i disegni turchi c’è però il concentramento nel Governatorato di Idlib di tutti i transfughi jihadisti espulsi dal resto della Siria. Fino a tutto il 2016, l’area era terreno esclusivo dei miliziani turcomanni legati ad Al Nusra, armati proprio dalla Turchia. Il papocchio in corso nella Siria del nordovest, sta ridisegnando i rapporti di forza. Da gennaio 2017 circa 20.000 terroristi della ex Al Nusra si sono integrati nel cartello ridenominato Hayat Tahrir al-Sham, capeggiato da Abu Jaber Hashim al-Shaykh. Il nuovo gruppo si prefigge di continuare la lotta contro gli sciiti (praticamente governo siriano, iraniani ed Hezbollah…) ma per questioni di leadership è ai ferri corti con Ahrar al-Sham altro gruppo di galantuomini fondamentalisti, storicamente appoggiato da Turchia, Qatar e Arabia Saudita.

In altre parole, il famoso cuscinetto a nord sul confine turco-siriano rischia di saltare nella misura in cui i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham (circa 40.000 unità, secondo fonti d’intelligence) chiuderanno le porte ad Ankara. Di fatto sta già avvenendo: il memorandum di Astana prevede che la Turchia possa accedere al Governatorato di Idlib per difendere i suoi confini; gli integralisti di Tahrir al-Sham però si stanno opponendo creando fortificazioni.

Terzo anello è il fronte sud, dove Giordania e Stati Uniti stanno mettendo le basi per un’operazione di terra (leggi articolo). Con la supervisione di Israele, intenzionato a impedire accessi diretti al Golan di gruppi sciiti filosiriani (Hezbollah su tutti), è previsto il controllo militare della fascia che dal Mediterraneo arriva all’Eufrate. In sostanza i miliziani del Free Syrian Army saranno appoggiati per contrastare il ripristino della sovranità siriana lungo il confine giordano e iracheno. Damasco per il momento invia truppe e continua a marciare verso sud…

Sono ore decisive queste per la Siria. L’ISIS sta per perdere Raqqa, simbolo da tre anni della follia islamista. Damasco sta vincendo la guerra; le scelte degli USA nella delicata partita tra curdi e Turchia, stabiliranno gli equilibri finali.   

Il tentativo di smembramento della Siria disegnato prima della guerra da Arabia Saudita, Qatar e amministrazione Obama (con l’ok indiretto di Israele) è stato strozzato. Anche se niente tornerà come prima del 2011, probabilmente la Siria esisterà ancora.

(foto: SAA)