Damasco e il vicolo cieco americano

(di Giampiero Venturi)
12/09/15

Quando prese il potere il Leone di Damasco Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano, il suo futuro sembrava già scritto. Appena sconfitta nella Guerra dei sei giorni, la Siria appariva destinata a continuare la striscia d’instabilità che la distingueva dai tempi dell’indipendenza.

In realtà gli equilibri politici in Medio Oriente hanno tempi bizzarri, spesso sganciati dalle cronache militari. Benché inserito tra i cattivi, il pragmatismo di Assad padre divenne paradossalmente una certezza per Israele, con cui riuscì perfino a congelare gli esiti della Guerra del Kippur nel 1973 senza ulteriori tragedie.

Due sostanzialmente i fattori che hanno garantito lunga vita ad Assad e la continuità di potere col figlio:

- La garanzia di stabilità unica alternativa al caos, intollerabile in uno Stato chiave dello scacchiere mediorientale;

- La linea fredda e addirittura conflittuale nei confronti dell’OLP, con conseguente scarso seguito tra la popolazione palestinese.

Il primo punto, comune a molti governi arabi dell’area e auspicato in sordina dalle diplomazie più lungimiranti, è stato contraddetto in parte dalla sciagurata euforia per le primavere arabe. Il senno e il senso della realtà hanno però riportato le cose al loro posto. È così che una Siria stabile è convenuta a tutti per almeno quaranta anni.

Il gelo con Arafat ha permesso invece a Damasco di rimanere sull’Aventino della politica mediorientale, senza rinunciare alle sue posizioni radicali.

Pur non riconoscendo Israele e coinvolta in pieno in tutti gli attriti arabo-israeliani, compresa la Guerra del Libano del 1982, la Siria si è ritagliata per anni un ruolo cruciale ma al tempo stesso defilato. Il mancato sostegno organico alla Questione Palestinese ha permesso a Israele di isolare il fenomeno, relegandolo ad una generica istanza anti-sionista cavalcata da questo o quel Paese mediorientale senza un progetto concreto.

Non è azzardato sostenere quindi che nonostante la conflittualità a 360° tra Siria e Israele, una linea di potere continua a Damasco, abbia giovato a Tel Aviv più di quanto s’immagini.

Se è vero che non si muove foglia che il Mossad non voglia, si spiegano così tutta una serie di realtà consolidate negli anni.

Non a caso la Siria fin dagli anni ’70 è riuscita a mantenere l’apparato militare più potente del Medio Oriente dopo quello israeliano. Prima fra i Paesi arabi (più dell’Egitto, disorientato dalla staffetta tra le forniture sovietiche e quelle occidentali negli anni ’80, e più dell’Iraq indebolito dalle sanzioni successive alla Prima Guerra del Golfo), ha potuto primeggiare a lungo anche rispetto all’Iran, per vent’anni vittima dell’isolamento americano seguito alla rivoluzione del ’79.

Ancora una volta ha prevalso lo spirito concreto e cinico israeliano secondo cui fra due mali va scelto il minore: la Siria ha potuto stringere così con Teheran, sorella sciita (benché esterna al mondo arabo) e addirittura  continuare ad armare Hezbollah, a patto che  l’Iran rimanesse costretto in un’ottica regionale senza atomica e che Hezbollah operasse confinato in Libano.

L’astuzia degli Assad è sempre stata quella di rimanere all’interno di margini tollerabili, senza strafare, appoggiando indirettamente interessi esterni secondo la logica “il nemico del mio nemico è mio amico”, tanto amata in Medio Oriente.

Ecco allora che il triangolo sciita Siria-Iran-Hezbollah, da trittico del demonio è diventato strategico in chiave anti sunnita e come elemento di zizzania interno al mondo islamico. Basti pensare che Hezbollah combatte l’Isis forte della sua esperienza nella guerriglia e che l’Iran invia aerei in Siria da quasi un anno senza che nessuno (Israele...) abbia da obiettare.

Se non fosse per lo sconquasso determinato dal raffreddamento dei rapporti israelo-americani, tutto rientrerebbe negli schemi di una Realpolitik cinica ma utile a tutti. La presa di posizione USA del marzo del 2013 ai limiti della guerra aperta contro il governo di Bassar al-Assad ne è la prova lampante. Contraria alle indicazioni di Israele, l’amministrazione Obama si è incagliata in un radicalismo democratico facendo prevalere principi demagogici sulla razionalità politica. La dinastia di Damasco, per decenni nella lista dei colpevoli ma capace comunque di sopravvivere e autoalimentarsi, si è trovata così di colpo nel mirino.

Se la scia emotiva dell’11 settembre poteva valere in parte come attenuante per la sconsiderata invasione dell’Iraq da parte di Bush, trovare una ragione per la crociata spuntata anti Assad di Obama è logicamente difficile. Non vale il ritornello ritrito del rais sacrificato sull’altare della libertà e dei diritti umani, ma non trova spazio nemmeno la logica del calcolo politico. Più semplicemente non si riescono a identificare gli obiettivi di un’ostilità che premia un dedalo di organizzazioni islamiche inquietanti o nel migliore dei casi fluide e poco affidabili. Capire quale vantaggio strategico comporti per gli USA l’eventuale cambio della guardia a Damasco, risulta tra i nodi più complessi dell’attuale teatro mediorientale.

L’ulteriore instabilità in cui l’ostinazione americana rischia di far cadere l’intera regione, premia anzi l’intraprendenza della Russia che con forniture e presenza militare diretta a favore di Assad riempie un grande vuoto politico.

In realtà, niente di nuovo a Damasco. L’ombra di Mosca era già dietro i T-55 di Assad padre. Gli interessi russi in Siria, siano essi in chiave geopolitica pura o da leggere in termini di pura opposizione agli USA, sono palesi da decenni.

Chi in America s’indigna oggi, ripete l’errore del post Crimea: ritenere che il mondo sia gestibile con un’ottica unipolare.

Intanto Israele che pur all’inizio della crisi siriana aveva cinguettato con al-Nusra ventilando un cambio della guardia a Damasco, rimane sulla linea pragmatica e sta a guardare. Non tanto le evoluzioni in Siria, quanto quelle a Washington dove il cambio d’inquilino alla Casa Bianca è atteso spasmodicamente.

Che sia democratico o repubblicano poco importa. Con una scusa o l’altra c’è da attendersi un cambio di rotta sulle politiche mediorientali, fallimentari su tutta la linea da almeno 15 anni. Nel frattempo continuiamo a mettere in fila i giorni di Bassar Assad, a cui tre anni fa Barak Obama li aveva dati contati.