Dalle Primavere arabe al Sinai: la vera partita del Medio Oriente si gioca in Egitto

(di Giampiero Venturi)
22/03/16

Nella mediocre commedia del 1984 La miglior difesa è la fuga, gli USA combattevano contro un Iraq inventato che aveva invaso un Kuwait inventato. Il plot era politicamente corretto perché l’Iraq reale di quegli anni era coccolato dagli USA e il film non offendeva nessuno.

Ma la Storia è ironica e nel ’90 Saddam Hussein invase il Kuwait sul serio, creando le basi per una guerra vera. In un attimo il raìs si trasformò da amico dell’Occidente in criminale, al punto, che quando nel 2003 gli americani entrarono a Baghdad con la Seconda guerra del Golfo, si fece festa. I dibattiti e le divisioni sulla legittimità dell’invasione cessarono. Storditi da un’overdose di coscienza democratica, liberal e conservatori del pianeta gioirono insieme per la fine di una dittatura crudele. Lo stesso sdegno umanitario per l’impiccagione di Saddam fu sacrificato sull’altare della democrazia a tutti i costi.

Quello che sarebbe stato l’Iraq nel decennio successivo lo abbiamo visto tutti. Il compiacimento generale ha finito per stemperarsi, fino a diventare dubbio e rimorso: ammettere che l’Iraq di Saddam non fosse peggiore di quello attuale, col tempo è diventato quasi normale.

Le cosiddette Primavere arabe del 2011 hanno però fatto rullare di nuovo il tamburo del buonismo. La caduta in sequenza di Bel Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia, in barba ad analisi e a considerazioni caso per caso, ha generato altra euforia preventiva. Se un occhio comprensivo poteva guardare alle realtà sociali dei Paesi in rivolta, molto diverso doveva essere il discorso in termini di equilibri geopolitici.

Emblematico l’esempio dell’Egitto.

Il plauso dell’opinione pubblica occidentale alla rivolta di piazza Tahrir nel 2011 non teneva conto degli scenari oscuri su cui si affacciava il Paese. Pur nella corruzione e nel malcostume diffuso, Mubarak era stato pur sempre il continuatore della politica di Sadat, che sulla scia di Camp David aveva dato al mondo un’alternativa al ritornello delle guerre arabo-israeliane. Almeno questo credito al presidente egiziano, soprattutto dal pensiero liberal, poteva starci.

Invece no. Il risentimento per i presidenzialismi forti è così radicato nella società occidentale che in molti hanno addirittura finito per ammiccare a Mohamed Morsi, eletto nel 2012. Nemmeno il laicismo febbrile di casa nostra riusciva a vederne lo sfondo: per la prima volta in un Paese arabo, la Fratellanza Musulmana concretizzava un ponte fra Islam radicale e istituzioni e in quanto alter ego egiziano di Hamas, diventava potenzialmente la continuità territoriale ed ideologica fra la Striscia di Gaza e il Cairo, perno di un ribaltamento di equilibri regionali, con obiettivo finale Israele.

La coscienza occidentale, scossa dai timori di Tel Aviv e vinta dal pragmatismo, alla fine ha invertito la marcia, ricacciandosi in gola l’entusiasmo per la caduta di Mubarak e salutando il colpo di Stato militare di Al Sisi come benvenuto.

Alla fine anche i puristi del diritto, intuendo cosa bollisse nella pentola Egitto e cosa poteva significare la permanenza al potere di Morsi, hanno accettato lo status quo, nonostante l’autoritarismo di Al Sisi non invidi nulla a quello di Mubarak (uniche differenze, Mubarak veniva dall’Aeronautica ed era più telegenico…). 

Ecco allora che sull’attuale sistema di potere al Cairo è calata una cortina di silenzio. Non è difficile capire perché.

L’Egitto, con 82 milioni di anime, è il Paese del Medio Oriente (non solo arabo) più popoloso. Insieme alla Giordania è l’unico ad avere relazioni ufficiali con Israele ed è il solo negli ultimi 30 anni ad aver sempre preso posizione al fianco dell’Occidente. Il raddoppio nell’estate 2015 del Canale di Suez ne ha fatto, se possibile, un Paese ancora più strategico, ponendolo in mezzo a ogni dinamica economica e geopolitica planetaria.

L’Egitto è anche il punto di congiunzione di due emisferi, quello atlantico e quello russo. Erede delle posizioni antagoniste nasseriane precedenti a Camp David e rilanciato lungo direttrici filo americane a partire dagli anni ‘80, con Mubarak prima e soprattutto con Al Sisi poi, Il Cairo è diventato il salotto d’incontro di Washington e Mosca con cui mantiene e eccellenti rapporti economici e politici.

Il rischio Morsi, ampiamente sottovalutato all’inizio, ha permesso di fare luce sul disegno delle primavere arabe, dietro cui USA e Arabia Saudita hanno soffiato con malizia e superficialità. L’arco di destabilizzazione politica che dal Maghreb puntava a chiudersi al confine turco-siriano, disegnava una grande mezzaluna sunnita, probabilmente più facile da creare che da controllare in seguito. Il progetto è fallito proprio in Egitto, per assurdo la culla stessa della prima jihad e di buona parte del risentimento antioccidentale già negli anni ’70.

Esportatore non solo di miliziani ma anche di pensiero integralista, dall’attentato a Sadat in poi, il Paese è stato testimone della convergenza di gruppi fondamentalisti autoctoni garantendo una base sociale numericamente impressionante. Su questo hanno lavorato molto i Fratelli Musulmani, capaci di costruire un serbatoio umano senza precedenti e di orientare il malcontento verso lidi confessionali. Le elezioni vinte nel 2012 ne sono state la prova più evidente.

La storia dell’islamismo ha un percorso lungo ed è proprio in Egitto che ha giocato e giocherà le sue carte decisive. Oggi il capo della galassia qaedista è l’egiziano Al-Zawahiri e dal 2014 il gruppo integralista Ansar Bayt al-Maqdis attivo in Sinai, è affiliato ufficialmente allo Stato Islamico. Il terrorismo islamista che colpiva il turismo (fonte del 12% della ricchezza del Paese) già negli anni ’90, continua a seminare morte e a minacciare l’integrità del Paese, in un clima di sottovalutazione generale.

Se l’attentato a Luxor del ’97 provocò 60 morti, il disastro dell’A321 russo del 2015 ne ha fatti quasi 250. La guerriglia in atto nel Sinai, proclamato provincia dall’ISIS, tra il 2011 e il 2015 ha causato 1100 morti tra soldati e poliziotti. La sequenza di attentati è impressionante raggiungendo una cadenza se non quotidiana, almeno settimanale.

Mentre Morsi sconta una condanna a morte con rinvio sine die della decisione finale, le Forze Armate di Al Sisi continuano la pressione ai confini con la Libia, dando prova del grande nervosismo che si respira al Cairo. L’Egitto appoggia la fazione di Tobruk preoccupato della degenerazione della lotta jihadista in Nord Africa di cui è ancora il principale obiettivo.

Probabile che le lancette della democrazia in Egitto, già in ritardo considerevole, abbiano fatto altri scatti indietro negli ultimi anni. Potrebbe essere il prezzo che un Paese costantemente sull’orlo del baratro debba pagare affinché gli errori delle primavere arabe, scongiurati sul proprio territorio non finiscano per travolgerlo dall’esterno.

A pagarne un prezzo ancora maggiore saremmo noi occidentali in fondo. La geopolitica, come la diplomazia, non coincide col diritto. Questo forse, può ancora salvarci.

(foto:  القوات المسلحة المصرية/web)