Reportage Somalia: la “lead” italiana, intervista al nuovo comandante dell'EUTM-S

(di Giusy Federici)
06/08/18

Per me è la prima volta sia in Somalia che in un contesto europeo. Precedentemente, le missioni che ho svolto erano sotto il “cappello” della NATO. Quindi per me è un’esperienza nuova nell’ambito di quello che è l’approccio del Security Force Assistance, il concetto di provvedere attraverso i pilastri di mentoring, advisoring e training alla ricostruzione e ad potenziamento della struttura della Difesa del Paese”.

Il generale dell’Esercito Matteo Spreafico è dal 16 luglio il nuovo comandante della European Union Training Mission Somalia, EUTM-S. Ha sostituito il generale Pietro Addis. Alpino, 49 anni, Spreafico è laureato in Scienze dell’Informazione e Scienze Politiche ed ha partecipato a molte operazioni sia nazionali (Riace, Vespri Siciliani, Strade Sicure) che internazionali (Bosnia Erzegovina, Iraq, Afghanistan).

EUTM-Somalia è una missione europea che dal quarto mandato, nel 2014, ha nell’Italia la lead, il comando, essendo anche il maggior contributore in numero di uomini, donne e mezzi impegnati in loco. La base è all’interno dell’International Campus (IC), un compound abitativo nel quale convivono le varie nazioni, tra militari e organizzazioni governative, inserito a sua volta nella “bolla di sicurezza” del Mogadiscio International Airport (MIA), un’area enorme, una città nella città la cui sicurezza è garantita dall’African Union Mission in Somalia (AMISOM). La situazione in Somalia è molto fragile e volatile anche in termini di sicurezza e Mogadiscio non fa eccezione. Nonostante la “bolla” in cui siamo, non è infrequente udire colpi di kalashnikov il cui tipico suono ci raggiunge anche qui. E se i colpi dovessero essere di mortaio e contro il contingente, c’è il piano di sicurezza e il bunker...

Ma i somali vogliono tornare ad avere una nazione e hanno chiesto un aiuto, anche per ricostituire quell’Esercito che poi dovrà garantire la loro stessa sicurezza. C’è tanto da fare e niente qui è facile, ma è per questo che esiste EUTM-Somalia.

Generale Spreafico, come ci si sente a comandare EUTM-S, una missione internazionale a guida italiana, che vede l’Italia al primo posto per numero di militari impegnati e anche per il rapporto che ci lega con i somali?

L’Italia, nell’ambito dell’Unione europea, crede molto a questa missione. E ci crede a tal punto che ne ha chiesto e poi ottenuto il comando, quando la missione ha iniziato a concretizzarsi sul territorio somalo. Ci crede tanto da fornire più della metà del personale impegnato, ricoprendo particolari posizioni-chiave, non solo quella del comandante, ma anche quella del responsabile delle attività di advising, che sono la parte strategica di supporto e formazione che forniamo alle autorità governative e al personale, compresi alti comandanti dello Stato Maggiore dell’Esercito somalo. Né va dimenticata la parte riguardante la Force Protection: qui è in mano a soldati italiani, tramite quello che è il Security Support Element, tutto quello che riguarda l’attività di scorta del personale che esce in attività all’esterno di questa area-bolla di sicurezza che è il Mogadiscio International Airport. Quindi è una responsabilità, anche, garantire la sicurezza del personale in uscita. Siamo molti ma non siamo solo italiani, ci sono nove nazioni che hanno deciso di contribuire (Spagna, Serbia, Finlandia, Gran Bretagna, Svezia, Portogallo, Romania, Ungheria). Il tutto nel contesto di dover garantire quella che è la missione assegnata dall’Unione europea. È una realtà dove l’Italia è presente con grande impegno.

Sembra una cosa difficile…

Più che dirle che è difficile, dico che è sicuramente non semplice: richiede molta attenzione il fatto di doverla gestire. Siamo di fronte a un popolo, quello somalo, che ha vissuto decenni di guerra e che adesso, pian piano, sta affrontando la ricostruzione che deve essere intesa come una stabilizzazione della situazione e una ricostituzione di tutta la struttura sociale.

I decenni di guerra hanno fatto sì che non ci fosse solo una diminuzione dell’attività sociale, è stata distrutta tutta la struttura governativa. Ne è un esempio la fragilità delle istituzioni che spesso subiscono dei completi rinnovamenti nell’ambito di tutta la struttura di comando e controllo. Devo anche dire, però, che in questa mia pur piccola esperienza, ho già l’impressione - che spero si concretizzi nel tempo - del fatto che la nostra controparte ha davvero voglia di tornare alla normalità. Spetta a noi aiutarli, supportarli, consigliarli tramite la nostra esperienza, tramite quella che è una struttura più consolidata di gestione nel campo militare, per promuovere la loro crescita.

Personalmente, sento una grande responsabilità nell’essere stato designato come comandante della missione. Ne sono fiero e orgoglioso. Sono consapevole del grande impegno dovuto, come europeo nello svolgere e assicurare la riuscita della missione e anche, come italiano, quella di continuare l’opera fatta da qualche anno dall’Italia nei confronti del popolo somalo. Sento una grossissima responsabilità nei confronti degli uomini e delle donne che comando. Questo, per me, significa fare il comandante ed essere nelle condizioni di poter gestire la missione secondo i canoni previsti, dall’addestramento ai compiti assegnati, ma tenendo presente che dobbiamo essere una squadra. Io sono al comando, ma da solo il comandante non fa niente. Deve esserci un team, ognuno deve sapere cosa fare e deve farlo bene.

Quello per cui mi impegno e che mi aspetto è condurre la missione come comandante avendo un team che lavora con un unico scopo: aiutare e supportare le autorità governative, militari e, in generale, il popolo somalo a ricostruire la loro nazione.

EUTM-S è una missione a termine. Ma vista la situazione, forse bisognerà rimanere ancora a lungo?

Io adesso non so definire quanto potremo restare. La situazione è in completa evoluzione. Quello che le posso assicurare è che, fino a quando sarà richiesto all’Unione Europea e nello specifico all’Italia di rimanere, la nostra volontà di contribuire sarà sempre ai massimi livelli, dando il massimo impegno nel compiere la missione assegnata. Un termine temporale, qui, è difficile perché, come dicevo, tutto è in continua evoluzione. È certo, anche, che ci sia una grossa volontà, da parte di tutta la comunità internazionale, di aiutare il popolo somalo. Non ultime, le dichiarazioni nella conferenza di metà luglio a Bruxelles, dove da parte somala erano presenti sia rappresentanti governativi che regionali e dove il risultato finale è stato un comune intento di supportare la ristrutturazione della Somalia, non solo in termini economici, ma anche in quello di ricostruire tutta una struttura, una rete governativa, sociale, culturale del Paese, attraverso attività di advising a livello strategico e attività tattica nell’addestramento dell’esercito. La nostra attività di advising e mentoring si rivolge ai funzionari chiave dal ministero della Difesa al capo di Stato Maggiore della Difesa, dai comandanti ai responsabili dei vari settori, per ricostruire e definire una struttura di comando e controllo ma anche, dall’altra parte, attraverso l’attività di training, per creare quelle che sono le unità base, quindi le compagnie che poi dovranno assicurare la difesa della Somalia. Non dobbiamo dimenticarci che la Somalia è dei somali, che sono loro i primi che vogliono essere partecipi nel difendere la loro Patria e la cosa è molto sentita. Per noi, aiutarli a ricostruire il loro Paese vuol dire anche far loro acquisire di nuovo e concretamente un'identità: “Io sono somalo, voglio difendere la mia terra”.

Tra i giovani soldati che si addestrano, sembra esserci la consapevolezza di poter morire per la loro Patria e contro Al Shabaab. Ed esserne fieri!

Sì, questa consapevolezza c’è. E la si trova in tutte le generazioni, in quelle che ora sono incaricate di gestire la situazione ma anche nei più giovani. Il che fa sperare che questa identità sia costituita sulla base di un legame tra generazioni. È un sentimento comune che non è così facile da capire, perché qui c’è stata una guerra e una spaccatura della continuità della tradizione.

Tornando all’addestramento dei militari, anche qui si parte dall’abc ed è proprio un italiano l’advisor di EUTM-S che li sta aiutando a redigere un nuovo codice di comportamento militare

È proprio questo il valore aggiunto che si può dare a questo nostro contributo, nel senso di partire proprio da questo, definire e costituire questa nuova struttura militare non solo in senso gerarchico di comando e controllo, ma rivedere insieme a loro quelle che sono tutte le basi che regolano questa organizzazione di comando e controllo.

Partendo dalla disciplina?

Nel senso della disciplina, ma non vista solo come l’attività del regolamento. È un codice di condotta dove vengono segnalati, evidenziati e approfonditi quelli che sono i valori che devono stare alla base della disciplina. Quindi, lo spirito di corpo, il rispetto reciproco e, anche, il senso della disciplina, perché questa è alla base dell’organizzazione di una struttura militare, il senso di appartenenza alla Somalia secondo i concetti di cui abbiamo parlato prima. Raccogliamo e mettiamo insieme in un unico documento, che non è solo un pezzo di carta, l’essenza di quello che per noi vuol dire essere un militare, i valori dell’essere un soldato, nel senso più ampio, per noi e per loro. Ma non facciamo le cose da soli. Il nostro operato, giustamente, è sempre condiviso con loro. Perché sono loro che, dopo, continueranno nella ricostruzione. Ed è giusto che si tratti di concetti, iniziative, attività accettate e condivise dai somali.

Qui nell’IC si cerca di garantire un minimo di comfort, nei limiti del possibile, per i ragazzi che tornano dopo uscite sempre piene di tensione, vista la situazione esplosiva di Mogadiscio…

Assolutamente sì. È comunque una missione delicata. Come ha potuto vedere di persona, la situazione qui è abbastanza fragile. La possibilità e la minaccia di attacchi, sia durante i nostri trasferimenti verso le aree dove svolgiamo le attività, piuttosto che qui nel compound è non trascurabile. Siamo tutti consapevoli di stare in un ambiente dove la minaccia è presente. E poter creare, in qualche modo, quell’ambiente dove da una parte si lavora bene e dall’altra si riesce a creare quel momento di riposo, è una di quelle cose che ho in mente quale comandante della missione. Sono consapevole che se una persona ha un momento, nella giornata, che gli permetta - non di "rilassarsi" perché qui non ci si rilassa mai - di riuscire a pensare ai propri cari e a sé stesso, sono sicuro che il giorno dopo sarà più carico per compiere la sua missione. Le faccio l’esempio dei ragazzi del Security Support Element, i famosi “Guardian Angels” che lavorano in un contesto davvero stressante: quando sono in attività, sono soggetti a una pressione continua e ad una minaccia costante. Deve esserci il momento necessario per ricaricarsi.

Ovviamente prima di partire è stato istruito sulla missione. A volte, per la lontananza geografica, la realtà operativa può essere percepita in modo diverso. Arrivando in teatro, ha riscontrato delle discordanze con le linee-guida ricevute a Roma?

Sicuramente ognuno di noi, comprese le altre nazioni, prima di essere impiegati nei teatri operativi, in questo caso per la Somalia, riceve uno specifico addestramento che non riguarda solo le attività in loco ma si cerca di dare anche un contesto a quello che è l’ambiente operativo e l’ambiente sociale. Poi, quando si arriva in teatro, nei primi giorni, si cerca di ottimizzare al meglio le informazioni e l’addestramento ricevuti in Patria, fornendo ad ogni persona che arriva, nell’ambito di quello che è l’“in-processing”, la contestualizzazione di quella che è la realtà qui in teatro, attraverso ulteriori attività addestrative e operative fatte sul posto, attraverso lezioni che riguardano anche il gender perspective, gli human rights e la cultural awareness. In Italia, per fare l’esempio del nostro Paese, si raggiunge un ottimo livello di consapevolezza sulla missione, però è quando si arriva qui che si mette realmente in pratica il tutto. L’addestramento in Patria funziona, come anche l’approntamento. Quando si arriva qui lo si completa mettendo i piedi sul terreno somalo ed acquisendo informazioni più dettagliate. Per fare un esempio: la parte riguardante la cultural awareness la fa Safìa, la nostra interprete con noi da tanti anni, cioè gente che effettivamente vive qui. E questo è un ulteriore valore aggiunto. È la stessa cosa di quanto studi, ti laurei e poi vai a lavorare in un ufficio, dove applichi sul terreno quello che hai imparato a scuola.

Altra cosa importante da tenere in considerazione è che ormai l’Esercito italiano, con decenni di attività operativa, ha una notevole esperienza nell’impiego all’estero. Quindi, questo addestramento non è solo il momento in cui il militare si forma, ma è piuttosto un affinare ulteriormente la capacità di impiego. Quello che poi succede è che la tua esperienza, fatta nei teatri operativi diversi da quello somalo, deve essere trasportata e contestualizzata qui. Hai già uno strumento, lo devi solo meglio dirottare e settare nell’ambito del teatro operativo in cui vieni impiegato.

Il giornalista "embedded", per la natura delle regole di ingaggio, talvolta rischia di non raccontare pienamente la realtà dei luoghi come anche delle Forze Armate, verso le quali si può avere o malafede a prescindere, o un’esaltazione che è forse più deleteria della prima. Secondo la sua esperienza, che cosa non raccontiamo e invece dovremmo?

Guardi, forse è lei che può aiutarmi a dare questa risposta, lei che, come giornalista, viene e vede quello che noi stiamo facendo, che può toccare con mano quello che è l’impegno dell’Italia e l’impegno di ognuno di noi nello svolgere questa missione. Non è che ci sia qualcosa da nascondere o da dover segnalare. Lei è la testimonianza di quello che abbiamo fatto e che facciamo. Rispetto a quello che è la realtà che viene letta sui giornali, come vede, c’è “solo” il passaggio da quel che è scritto a quel che lei ha visto.

La cosa che penso sempre è che ogni militare è qui per fare il suo lavoro. Il sacrificio che ognuno di noi compie, anche restando lontano dalle famiglie, vivendo sei mesi in un ambiente di instabilità e con un livello di minaccia che è considerato comunque "alto", è ripagato dai risultati che riusciamo a conseguire. Quei risultati che aiutano il popolo somalo, le autorità governative e quindi la struttura militare a crescere di nuovo e, soprattutto, quel senso di riconoscenza che ogni volta, dalla parte somala, riscontriamo con un: “Grazie di essere qui!”.

(foto dell'autore / Difesa)