Donbass, la guerra che non c'è: "in trincea!"

(di Giorgio Bianchi)
20/03/17

La partenza è rimandata più volte a causa dei continui bombardamenti delle artiglierie ucraine: la nostra incolumità prima di ogni cosa. Dopo giorni di attesa estenuante però, arriva l’ok. Possiamo raggiungere la zona dell’aeroporto per incontrare S. in prima linea, a poche centinaia di metri dalle postazioni ucraine.
L’auto sfreccia sul vialone che conduce all’aeroporto lasciandosi alle spalle la vita normale della Donetsk centrale. Andiamo nel cuore di tenebra di questo conflitto che a quanto pare Kiev fa di tutto per tenere aperto.
Arrivati al check point, si spegne il motore alle spalle di un camion Ural. La guida si accomoda sullo schienale e posa il cellulare dinnanzi a sé. Il linguaggio del corpo può più di mille parole: ci sarà l’ennesima pausa, chissà quanto lunga.

Il sottofondo è quello solito: raffiche di pulimiot, sibili, detonazioni. Due soldati in mimetica scendono da una Lada e si fermano a parlare con altri del check point. A guardarli bene ricordano le maschere grottesche delle saghe nordiche. Peccato non si possano fare foto né riprese.
Il motore finalmente si riaccende e si fa il giro dell’isolato. Ad attenderci c’è un ufficiale del Battaglione Vostok: del capo oltre al piglio ha anche la stazza. Nel vedermi esplode in una risata fragorosa coinvolgendo gli altri in sua compagnia.

La mia guida ascolta e sorride a sua volta: a bassa voce mi sussurra che l’anno scorso mi aveva incontrato a Spartak mentre per la priva volta avevo tentato di raggiungere S. in postazione.
Allora era andata male e S., che aveva tentato assieme a me la sortita, mi aveva fatto filare alla svelta.
Questa volta però è diverso: sorride bonariamente e mi fa infilare un elmetto ed un giubbotto antiproiettile; la sua espressione muta soltanto quando scuro in volto mi fa capire che non devo toglierli per nessuna ragione.

Dove andremo l’attività delle forze regolari e dei paramilitari di Kiev è intensa: si spara e la responsabilità della nostra incolumità è sua; uno dei militari al suo fianco mima con la mano il gesto di scrivere…forse mi sta chiedendo se ho fatto testamento…

Il furgone che ci porterà a destinazione è un vecchio Mercedes verde pisello col parabrezza crivellato di colpi: un classico da queste parti.

Mentre siedo sul lato passeggero il portellone posteriore si apre e sale un militare in tenuta da battaglia.
Mi saluta  ed io contraccambio… È   S.; con la barba lunga e nero per lo sporco accumulato in due settimane di trincea non l’avevo riconosciuto; lui a sua volta non aveva riconosciuto sotto l’elmetto.

Durante il tragitto mi ragguaglia sulla situazione della sua postazione: si tratta di una trincea scavata a mano, a XXX metri dalle linee ucraine.

Di giorno è abbastanza tranquilla ma di notte c’è da rabbrividire: colpi di artiglieria e razzi Grad passano incessantemente sopra la testa. Un maledettissimo muro di cemento offusca la visuale. Sembra una tomba:
quando è nuvoloso e la luna è coperta, è come essere immersi nella pece; non è possibile neanche vedere le proprie mani.

Il rischio di incursione è elevatissimo e i visori notturni sono un lusso che nessuno può permettersi con le paghe di 12000 rubli al mese.

Tutta la zona circostante è stata minata e disseminata di trappole esplosive. Ma c’è  comunque Shchit (scudo, ndr) il cane che S. ha preso con sé quando era ancora un cucciolo che vagava smarrito in cerca di cibo tra le case abbandonate. Al minimo rumore abbaia come un forsennato: non c’è allarme antiintrusione migliore di lui.

Arrivati allo Stab di S. mi accoglie il suo comandante; anche lui è una vecchia conoscenza.
Ci eravamo visti l’anno scorso e poco aveva potuto quando il suo comandante di battaglione mi aveva cacciato via.

Mi stringe la mano con calore e mi invita ad una visita guidata della sua postazione.

Situata a XXX  ci si si alleva ogni tipo di animale da cortile: agnelli, maiali, nutrie… non fa differenza…

C’è anche un’aia affollata di galline ovaiole ed una vasca con dei pesci molto apprezzati dalla cucina locale.
Tempo di salutare e la colonna per raggiungere la trincea si compone; si passa tra canneti, un laghetto e casupole diroccate.

Su una panchina un gruppo di anziani si gode uno strano riposo dopo il duro lavoro nei campi: stanno raccogliendo le foglie secche dal terreno prima di appiccare il fuoco secondo l’usanza locale; viene fatto sempre al termine del disgelo per preparare il suolo per la fase vegetativa primaverile.
È surreale che in tanta devastazione ci sia ancora qualcuno che non abbia lasciato tutto per mettersi al riparo: le signore col volto incorniciato nel fazzoletto variopinto ci guardano col sorriso stanco di chi ormai si è rassegnato ad un futuro fatto di precarietà. Le vecchie generazioni ci sono abituate.

Hanno perso molto ma non tutto e si aggrappano a quel poco che resta con tutta la forza e l’ostinazione possibili.
Sulla strada verso la trincea i militari si soffermano ogni tanto per raccogliere frammenti di ordigni da aggiungere al “museo” che stanno allestendo presso la loro posizione.
L’adrenalina sale: sembra di essere tornati indietro di cento anni, ai racconti dei nonni; vengono in mente immagini di scarponi inzuppati nel fango, gelo e notti buie trascorse in compagnia dei propri fantasmi.
Dai fori nel muro di cemento che delimita la postazione e la separa dal campo aperto sono visibili gli scheletri di un BMP 2 e di un tank ucraini distrutti, mentre da un’altura sulla destra campeggia la bandiera rosso-nera dei Pravy Sector il gruppo paramilitare ucraino estremista.
S., seguito dall’inseparabile Shchit ,ci guida lungo la sua postazione mostrandoci tutto il camminamento, il bunker in cui dorme e gli armamenti in dotazione.

Per ovvie ragioni non aggiungiamo altro.

S. e i suoi compagni posano per una foto accanto alla bandiera cucita ad hoc dalla sua fidanzata; un fagiano si alza in volo dal canneto a fianco con un'innocenza surreale. È tutto stranissimo.

Cala la sera e i soldati s’innervosiscono. I civili visti all’andata sono già tutti nei rifugi dove passeranno un’altra lunga notte.

Per raggiungere lo stab dove passeremo la notte con S. dobbiamo percorrere un lungo tragitto attraverso il villaggio desolato. Si passa tra cortili, frutteti abbandonati e cancelli divelti, sempre accompagnati dal rumore di cocci e vetri che scricchiolano sotto gli anfibi.

Se non fosse per la paura reale sembrerebbe un videogame.
Tutto intorno risuona il sibilo dei colpi in arrivo ed il fragore delle esplosioni. Gli ucraini ci vanno giù pesante.
Ad un certo punto avvertiamo un boato più vicino e poi un bagliore all’orizzonte: probabilmente un’abitazione è stata colpita e si è incendiata. Mi soffermo a riprenderla con la videocamera: quel bagliore terribile è allo stesso tempo ipnotico e affascinante.

All’improvviso tre pulimiot posti in tre diversi punti oltre la linea dell’orizzonte iniziano a fare fuoco simultaneamente: non ci sono dubbi siamo stati avvistati.

Sparano proiettili traccianti che inizialmente passano ben al di sopra delle nostre teste, ma ben presto si fanno sempre più prossimi tanto da udirne distintamente il sibilo. Sentirli così vicini ti fa percepire in ogni fibra del corpo la loro carica di morte. È terribile.

Ci buttiamo a terra. Io inizio a strisciare verso un riparo. Ancora rumore. Ancora spari.

S. ed i suoi trovano riparo dietro l’abitazione di fronte; ci separano 20 metri ma sembrano 100.
I colpi continuano ad arrivare. Partono quelli di copertura.

L’adrenalina è alle stelle e il cuore batte forte; un’altra raffica e poi il via per una corsa frenetica per raggiungere la loro posizione.

Aspettiamo tutti insieme al riparo, anche se la paura dei colpi di artiglieria, una volta avvistati, si fa sempre più forte; sempre serpeggiando tra le villette distrutte ci dirigiamo rapidamente verso lo stab.
Gli occupanti della casa ci chiedono cosa sia successo. Gli mostriamo il girato dal visore della fotocamera: il sorriso di scherno di chi quelle cose le vive quotidianamente, la dice lunga.

Tolti elmetto e giubbetto, ci viene servita la cena: pane, carne in scatola e pesce affumicato, come si usa in prima linea.

Finito di mangiare ognuno si butta nel suo giaciglio. La luce viene spenta (le finestre sono tutte oscurate in modo da non rendere visibile il bagliore in lontananza).
A quel punto, dal silenzio della notte, ricominciano i rumori della guerra destinati a disturbarci il sonno fino alle prime luci dell’alba. 

(foto: Giorgio Bianchi)