Donbass, la guerra che non c'è: la Promzona e le donne dell’est

(di Giorgio Bianchi)
24/03/17

È ancora mattino presto quando il cellulare inizia a squillare: la chiamata che aspettavo da tempo è finalmente arrivata. Oggi finalmente avrei raggiunto la Promzona.

La Promzona è la ferita pulsante di questa guerra oramai completamente dimenticata dai media mainstream; letteralmente il termine sta ad indicare una qualsiasi area industriale ma da gennaio ad oggi, ovvero da quando l’esercito governativo di Kiev ha ripreso ad avanzare, con questa parola ci si riferisce al triangolo Yasenavataya, Avdiivka, Krutaia Balka sede di importanti stabilimenti produttivi e teatro degli scontri più cruenti degli ultimi mesi.

Per l’esercito ucraino controllare il nodo stradale che si trova da quelle parti, vorrebbe dire raggiungere Donetsk in poche mosse.
Per questo motivo in tutta l’area sono state scavate trincee e costruiti bunker; si combatte per guadagnare poche centinaia di metri come nella Prima Guerra Mondiale.

Sono pochi i giornalisti ammessi da quelle parti, men che meno quelli provenienti da paesi NATO; pertanto la mia incredulità è pari soltanto alla paura.
Paura sì perché da quelle parti, a dispetto del silenzio mediatico, il rumore è parecchio e fa tremare le gambe oltre che il terreno.

Appuntamento al solito bar; in un tavolino all’esterno siede Deki lo specnaz serbo che combatte da volontario per l’esercito separatista: mi saluta calorosamente e ridendo accenna al servizio sul primo canale russo che ci ha visti paradossalmente assieme a raccontare le nostre storie.
I capelli con la riga da una parte ed il sorriso bonario cozzano con l’alone di leggenda che lo accompagna da queste parti; da quando ha iniziato a combattere nella ex Jugoslavia con l’esercito serbo, fino ad oggi, ne ha viste molte e quelle che si possono raccontare saranno riportate su un libro che tra poco sarà nelle librerie e racconterà la sua storia.

All’interno il copione è sempre lo stesso: strette di mani, caffè ed il notiziario all news alla televisione a scandire il tempo.
Mezz’ora, un’ora, e poi il fatidico “go”.

Rispetto alla volta scorsa la macchina ha due dita di polvere in più ed un vetro laterale in meno; chiedo lumi ma un cenno della mano mi fa capire che sarebbe storia lunga da raccontare.

Il viaggio verso la Promzona non è lungo ma non passa: alla radio un improbabile rap russo fa da sottofondo musicale e per la prima volta in un mese fa caldo.

Saliti sul cavalcavia l’auto si arresta; mi viene detto di indossare casco e giubbetto antiproiettile (bronezhilet da queste parti) e di accomodarmi sul sedile posteriore.

Il fuoristrada inizia a sfrecciare sull’asfalto sbreccato da decine di colpi di mortaio e di artiglieria, serpeggiando tra crateri e detriti; sul ciglio della strada olmi e betulle ridotte a scheletri pietosi.

Lo scenario è quello di un mondo post-apocalittico in cui la razza umana è sull’orlo dell’estinzione a seguito di un olocausto nucleare…Ma qui siamo in Europa, a due passi da casa nostra ed il fatto che tutto ciò non ci riguardi, visto da qui, lascia sconcertati.

Finalmente arriviamo alla posizione; cassette di munizioni vuote riempite di sabbia, armamenti vari ed una Prinz bianca parcheggiata di fianco ad un AGS.

I sorrisi e le pacche sulle spalle delle altre postazioni visitate qui lasciano il posto agli sguardi schivi ed ai saluti accennati.
La voglia di ridere e scherzare è passata tanto tempo fa: questi uomini sono sfiniti, sfibrati, lacerati; qui la notte non si chiude occhio e l’inferno viene visto in tutto il suo orrore da una posizione privilegiata.

Le postazioni governative si trovano a circa 80/90 metri dalle trincee separatiste i cecchini sono ovunque, così come le postazione armate di pulimiot; qui non è consentito distrarsi anche perché dove non arrivano le pallottole arriva l’artiglieria.

Al nostro arrivo la situazione è piuttosto tranquilla: solo ogni tanto è possibile udire qualche raffica seguita da detonazioni… Apparentemente nessuno sembra fare molto caso a nulla, anche se a domanda precisa ti rispondono prontamente: questo è RPG, questo è mortaio, questo è AGS.
Ogni suono ha il suo corrispondente, che l’orecchio allenato alla guerra riconosce all’istante.

Ogni uomo è intento a fare qualcosa: c’è chi pulisce il pulimiot, chi spala il carbone, chi rifornisce di gasolio il generatore e chi in tenuta da guerra si avvia a raggiungere la trincea.

Viktor ci accompagna sulla postazione elevata: da li è possibile vedere tutto. Davanti a noi c’è Avdiivka, a destra Yasenavataya con la sua area industriale che si staglia sullo sfondo come un miraggio ed alle nostre spalle il vallone di Krutaia Balka. I governativi sono lì a pochi metri da noi: siamo di fatto sulla linea di faglia di questa nazione martoriata.

Giorno dopo giorno le due placche si allontanano come continenti alla deriva, colpo dopo colpo, ferito dopo ferito, morto dopo morto; si perché, anche se la tv non lo dice, da queste parti si muore o si rimane invalidi quotidianamente e questo non fa altro che stratificare l’odio reciproco delle due parti. Vista da qui la frattura sembra oramai insanabile.

È proprio mentre mi trovo su quell’altura, al ripario dietro i sacchi di sabbia godendo di un minuto di totale silenzio che mi viene in mente la polemica del minuto in Italia: quella sulle donne dell’est.

Il tema del giorno sul primo canale nazionale era “perché scegliere una donna dell’est”.

Sul perché scegliere una donna dell’est in linea generale non saprei rispondere ma avrei sicuramente da dire qualcosa sul perché scegliere una donna di queste parti.

La sceglierei perché da tre anni, nonostante una guerra di cui noi tutti siamo colpevoli, tirano avanti la carretta con i loro uomini al fronte o fuggiti chissà dove; perché la mattina portano i loro bambini a scuola ed il pomeriggio alla casa della cultura per svolgere attività fisiche o ricreative (che da queste parte sono gratuite e si svolgono in strutture da far impallidire i nostri edifici pubblici mezzi diroccati). Perché effettivamente non “frignano” anche se il mondo gli è crollato addosso, ma si rimboccano ogni giorno le maniche per guadagnare quel poco che gli consenta di sopravvivere dignitosamente.

Le sceglierei perché sono lì a curare il frutteto tra le macerie della casa bombardata, perché piegate in due e con i piedi nel fango preparano le rose nelle aiuole per la prossima fioritura, perché giovani ed innocenti trovano il modo di perdersi giocando con una lumaca in un barattolo di vetro o cantano con voce da angelo per un pubblico che le ascolta rapito.

Le vedo danzare con grazia infinita in quel teatro dell’opera che non ha mai smesso di funzionare nonostante le bombe, perché da queste parti la cura dello spirito ha ancora un valore.

Ecco solo alcuni dei motivi per i quali sceglierei una donna “di queste parti”; sicuramente tra le donne “delle nostre parti non sceglierei” quelle che tra una visita dal chirurgo plastico ed un’ospitata televisiva in qualche talent, cianciano di cose che non sanno affibbiando etichette precostituite dagli spin doctor di regime.

Un'esplosione in lontananza mi ridesta e mi riconduce alla realtà; un fumo denso e nero si innalza all’orizzonte. Poi un nuovo colpo, e poi un altro… quindi una lunga serie di raffiche. La sera si avvicina e con essa la ripresa dei combattimenti.

La mia guida mi fa cenno che ora di andare, muoversi di sera con le luci dell’auto accese sarebbe un suicidio.

Un saluto fugace e via di nuovo sfrecciando a tutta velocità su quella strada martoriata dai colpi di artiglieria mentre il fumo denso dell’ennesima esplosione si allarga dinnanzi al parabrezza della macchina.

(immagini dell'autore)