Mentre l’Occidente osserva con cauta curiosità l’evolversi della situazione in Siria dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad lo scorso 8 dicembre, una tragica realtà si consuma lontano dai riflettori dei media internazionali: quella del Rojava e del popolo curdo. Tra il silenzio complice delle potenze globali e la brutalità delle formazioni islamiste del gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), armate e sostenute senza troppi scrupoli dalla Turchia, i Curdi si trovano nuovamente al centro di una crisi che rischia di cancellare l’esperimento del Confederalismo Democratico teorizzato da Abdullah Öcalan, storico fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), a partire dagli scritti dell’anarchico Murray Bookchin.
Conosciuto anche come Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, il Rojava rappresenta un unicum per la tormentata regione mediorientale. Dopo l'inizio del conflitto siriano nel 2011, i Curdi hanno approfittato del vuoto di potere lasciato dal regime di Bashar al-Assad per costruire una società egualitaria e multietnica, promuovendo l'uguaglianza di genere, il pluralismo etnico-religioso e una gestione locale partecipativa. Tuttavia, tale esperimento – che ha attratto l’attenzione di accademici, giornalisti e politici internazionali – rimane costantemente minacciato da forze esterne. In particolare, il piano più volte annunciato del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di creare una zona cuscinetto di 30 km lungo il confine sud della Turchia è venuto opportunamente a saldarsi con le mire espansionistiche dei gruppi islamisti armati, HTS in testa, saliti al governo anche grazie al supporto economico e logistico di Ankara.
Le formazioni islamiste vedono nel Rojava un doppio nemico: una minaccia ideologica (vd. supra) e un ostacolo geopolitico da eliminare per assicurarsi il controllo del territorio siriano attualmente in mano ai Curdi, di cui fanno parte i giacimenti petroliferi di Jarnof e Qahar (a sud dello stesso) e quelli di gas naturale e petrolio compresi fra Qamshili e Tal’Ads (che si trovano nella punta nord-orientale del Rojava e rientrerebbero nella succitata buffer zone turca).
La Turchia, dal canto suo, ha ripetutamente giustificato le proprie incursioni militari e i bombardamenti nel Rojava – specie nell’area di Kobane e nella zona a nord dell’autostrada M4 fra i fiumi Eufrate e il Khabur – come “operazioni antiterrorismo”, accusando le Unità di Protezione Popolare curde (formate dall’ala maschile YPG e dall’ala femminile YPJ) di essere affiliate al PKK, formazione politica paramilitare che Turchia, UE e altri paesi occidentali (vd. posizione comune 2005/847/PESC) considerano un'organizzazione terroristica.
Le Unità di Protezione Popolare sono la principale formazione aderente alle Forze Democratiche Siriane (SDF) di cui fanno parte anche gruppi militari arabi, assiri, e di altre comunità etniche della Siria del nord. Le SDF si sono formate nel 2015 e nell’ultimo decennio, anche grazie agli aiuti statunitensi, hanno giocato un ruolo centrale nell’arretramento dell’ISIS dalle posizioni acquisite durante la guerra civile siriana iniziata nel 2011, di fatto ridimensionandolo.
Con la scusa di colpire le milizie YPG e YPJ, in questi primi giorni di gennaio l’aviazione e l’artiglieria turche hanno preso di mira postazioni dell’SDF lungo l’Eufrate a nord di Sarrin. Nello specifico, sono state ripetutamente bombardate le postazioni curde a protezione del Karakozak Bridge, con l’obiettivo di spianare l’avanzata ai reparti dell’HTS incaricati di tagliare le linee di rifornimento fra Kobane e Sarrin da sud, mentre le forze armate regolari turche sono schierate da giorni lungo il confine a nord di Kobane, già teatro di un’eroica resistenza curda nel 2014 contro le forze dello Stato Islamico (quando l'Occidente vedeva di buon occhio il sacrificio dei Curdi nel contrastare l'ISIS). Gli scontri si stanno intensificando anche a sud di Sarrin, nei pressi della diga di Tishrin e nel villaggio di Al Moylh dove sono stati registrati attacchi con UAV di fabbricazione turca, mentre i confini più a sud del Rojava rimangono per ora non interessati dagli attacchi, anche alla luce della maggiore distanza dal confine turco e dalla giuntura fra le forze di Ankara e l’HTS.
In ultima analisi, nonostante il Rojava abbia dimostrato di poter essere un fattore stabilizzante per la regione, il suo riconoscimento come attore politico e il sostegno occidentale alla richiesta di un cessate il fuoco sotto l’egida ONU sembrano ancora un miraggio. Complice anche la war fatigue (squisitamente passiva) della comunità internazionale per l’aggressione russa all’Ucraina e il ruolo di Ankara all’interno della NATO e del Migration Deal con l’UE, le potenze occidentali sembrano voler adottare per la Siria una strategia attendista in attesa di comprendere quale volto avrà la "nuova Siria".
Nel frattempo, i Curdi del Rojava combattono una battaglia per la propria sopravvivenza, nel silenzio della comunità internazionale, e si apprestano a dar vita ad un ulteriore capitolo della propria storia di resistenza.
Una nuova battaglia di Kobane (e non solo) ci aspetta, e a pagarne il prezzo più alto saranno, ancora una volta, i Curdi.
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