Venti di guerra nel mar cinese

(di Antonio Vecchio)
01/10/18

Il mese di settembre ha conosciuto un incremento delle tensioni tra Cina e Stati Uniti, come non se ne vedevano da tempo.

Nei primi giorni del mese, le attività di addestramento bilaterale1 condotte in zona dal gruppo di attacco USA (foto) della portaerei USS Ronald Reagan con le forze navali giapponesi di autodifesa, avevano sortito la ferma reazione di Pechino che le aveva definite vere e proprie provocazioni.

Dal 11 al 17 settembre scorsi, ad accrescere la tensione ha contribuito la partecipazione di Pechino, con circa 3000 soldati, alla esercitazione Vostok 2018, la più' grande esercitazione militare mai intrapresa dalla Russia dalla fine della Guerra Fredda.

È di questa settimana, infine, la notizia del rifiuto cinese alla richiesta di attracco di una nave militare statunitense, la USS Wasp2, che avrebbe dovuto far tappa a Hong Kong nel mese di ottobre, per una visita di cortesia e per fare rifornimento. Azione questa, assieme al richiamo di un ammiraglio di squadra in missione negli Stati Uniti per partecipare al 23° Simposio internazionale sulla Forza marittima, da collegare certamente alle sanzioni che Washington ha imposto a un’agenzia delle forze armate cinesi, il Dipartimento per lo sviluppo degli equipaggiamenti, per la recente acquisizione da Mosca di 10 velivoli Sukhoi Su-35 (foto) e sistemi antiaerei S-400.

Per gli USA tale acquisto ha contravvenuto alle sanzioni imposte alla Russia in relazione alla questione ucraina e alle interferenze nella politica interna USA.

La reazione di Pechino non si è fatta attendere, con la dichiarazione del vicedirettore dell'Ufficio per la cooperazione militare internazionale presso la Commissione Militare Centrale, Huang Xueping, che ha definito la misura statunitense come "irragionevole" e "una manifesta violazione delle norme basilari delle relazioni internazionali”, aggiungendo che arrecherà un "grave danno" alle relazioni militari bilaterali.

Non stupisce, quindi, il rinvio sine die del secondo incontro organizzato nell’ambito del “meccanismo di comunicazione” instaurato tra gli stati maggiori dei due paesi, programmato dal 25 al 27 settembre scorsi.

Anche in questo caso il provvedimento è coinciso con il sorvolo a inizio settimana di bombardieri strategici B-523 sulle acque del mar cinese meridionale e orientale che Pechino considera come interne, e con la notizia della vendita a Taiwan, da parte USA, di componenti di ricambio per cacciabombardieri F-16 e altri velivoli da combattimento (C-130 e F-5), per un valore stimato in 330 milioni di dollari. Tale notizia ha destato molta preoccupazione a Pechino, poiché segue di pochi mesi quella della vendita di armamenti (soprattutto missili) ed equipaggiamenti, per un importo pari a 1,4 miliardi di dollari, e rischia di precedere, come anticipato questa settimana dalla testata South China Morning Post di Hong Kong, la vendita di carri M1A1 Abrams che Taipei chiede da tempo.

Lo scorso giugno, la visita in Cina del segretario della Difesa USA (foto), James Mattis, aveva lasciato ben sperare nell’inizio di una fase di dialogo tra le due potenze, ma le sanzioni imposte da Trump il mese successivo per un importo di 34 miliardi di dollari (poi saliti a 50) di interscambio commerciale, mirate formalmente a punire l’enorme surplus cinese, ma - nella sostanza - a ostacolare il programma di sviluppo tecnologico tracciato dal piano “Made in China 2025, hanno innescato la ferma reazione di Pechino, che ha imposto a sua volta dazi a numerose prodotti provenienti dagli USA. Come se non bastasse, questa settimana Washington ha annunciato nuovi dazi per 200 miliardi di USD.

Facile intuire come la posta in gioco sia strategicamente rilevante per entrambi i contendenti, dato che dal risultato finale del confronto in atto dipenderanno gli equilibri futuri dell’area e il ruolo globale della Cina.

Per Washington, contenere Pechino è diventata “la” priorità, nel cui ambito va inserita, lo scorso agosto, la visita del Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, in Malesia, Singapore e Indonesia per stringere le alleanze e consolidare le attività bilaterali di collaborazione militare.

A tale scopo, la marina USA è da tempo impegnata ad affermare la “libertà di navigazione“ nelle acque del mar cinese: a supporto dei numerosi alleati della regione, ma soprattutto per ostacolare quella che Xi Jinping ha più volte indicato come la “rinascita” della Cina, che al “suo” mare affida la realizzazione dei progetti futuri, e al cui totale controllo non rinuncerà mai.

Il mare cinese costituisce infatti per Pechino, quello che il Mediterraneo era per i Romani: un grande mare “interno”, che oltre ad assicurare il flusso delle merci consentiva di giocare il ruolo di “potenza marittima”.

Un ruolo dal quale nessuno stato con aspirazioni “globali” ha mai potuto prescindere: fu così per Roma, per Londra, e in questa nostra epoca lo è per Washington. Ora lo pretende Pechino.

Il “pivot to Asia” inaugurato da Obama sta entrando in una fase decisiva.