Turchia “candidata” a ospitare una “primavera democratica” entro il 2020?

(di David Rossi)
21/04/18

Le grandi rivoluzioni, nel XXI secolo, non avvengono mai nei Paesi meno sviluppati e con un PIL perennemente depresso: al contrario, esplodono dopo un lungo periodo di crescita economica e industriale, con alti e bassi, quando la ricchezza della nazione in apparenza cresce, ma cresce anche l’indice di Gini, che certifica le disuguaglianze nella distribuzione.

È il caso dell’Ucraina, nel 2004 e nel 2014, quando il presidente Viktor Janukovic diventa il parafulmine di un sistema dominato da pochi, sfrontati e avidissimi oligarchi. Il leader del Partito delle Regioni altro non è che la pietra dello scandalo: muovere migliaia di persone col sogno di un’integrazione europea capace di distribuire il censo in modo più equo non richiede neppure troppo sforzo. La Russia diventa il modello negativo, con il suo perfetto equilibrio tra gli apparati statali e gli oligarchi “amici”. Proprio in Ucraina il PIL cresce in modo spettacolare tra il 2000 e la crisi bancaria del 2009 (+483%), e poi di nuovo tra il 2010 e il 2013 (+56%). Ritmi di crescita cinesi per un Paese con meno abitanti di Spagna e Polonia. Ma anche una situazione sociale non sostenibile: basti dire che tra il 2000 e il 2010 il numero di ucraini in Europa cresce a due e anche a tre cifre: in Italia passano da 13.000 a oltre 220.000, in Germania da 85.000 a 250.000, in Spagna da 2.000 a 80.000.

In Egitto, l’economia vivacchia per decenni tra la pace di Camp David e la seconda guerra nel Golfo: appena 1,3% di crescita annua, come media statistica. Poi, nel lustro che termina alla vigilia della così detta Primavera Araba inanella un ciclo virtuoso che porta il PIL a crescere quasi del 180%. Roba che nemmeno la Cina in quegli anni… Alla vigilia della sua caduta, Mubarak parla di 15, anche 20 milioni di turisti ogni anno in Egitto, come obiettivo a portata di mano. Parla facendo finta di non vedere il livello altissimo della disoccupazione giovanile, l’aumento della disuguaglianza sociale percepita e la contemporanea diffusione di Internet: in pratica, i tre tarli che stanno divorando da dentro il suo potere.

In Tunisia, il potere di Ben Ali sembra saldissimo da quando gli italiani, guidati dal leader socialista Bettino Craxi, hanno favorito il suo colpo di stato. Giovane, rampante, con i giusti rapporti internazionali: in effetti, tra il 1990 e il 2009, Tunisi registra una crescita continua: 14% di media annua. Ma anche un flusso migratorio senza sosta: la gioventù tunisina cerca fortuna in Francia e in Italia, tanto che un quarto delle famiglie si formano all’estero. Una persistente corruttela, poi, esacerba gli animi di chi rimane, bloccato in Tunisia non per scelta perché privo delle skill richieste dai Paesi europei.

Che sia stata una rivoluzione colorata o una “primavera”, ognuno di questi tre Paesi è stato oggetto di un processo analogo agli altri: proteste di piazza contro la corruzione, arrivo di manifestanti “indottrinati” dalle ONG “liberal” (o anche finanziati dalle petrol-monarchie del Golfo), reazione poliziesca del governo in carica, proteste delle cancellerie occidentali, aumento delle aspettative delle piazze, aumento degli scontri e delle violenze e infine attacco finale al “regime”. Dalla caduta di Milosevic in Serbia fino alla Primavera Araba, tutto è andato secondo questo schema semplice.

Da alcuni anni, la “macchina delle rivoluzioni”, che segue il percorso indicato poco fa, pare però essersi inceppata: in Siria, Libia e in Yemen il fallimento delle rivoluzioni ha portato a una situazione paragonabile alla guerra civile spagnola, con le grandi potenze a sfidarsi per interposta persona (ma mai direttamente: USA, Francia e Regno Unito guardano dal cogliere il guanto della sfida lanciato da Putin nell’aprile 2018). In Egitto, la macchina si è scontrata contro il blocco imbattibile delle Forze Armate, vero dominus dello Stato e del Paese. In Siria il partito Baath e la presenza russa si sono dimostrati un osso troppo duro. In Bahrain e in Marocco le case regnanti hanno reagito prontamente e con efficacia.

Ora, non manca, secondo chi scrive, un Paese candidato a un nuovo esperimento della “macchina delle rivoluzioni”. Ha un “presidente forte” che non si è fatto scrupoli ad arrestare 16.000 tra militari e civili, a sospendere quasi 50.000 dipendenti pubblici dalle funzioni e dallo stipendio e, last but not least, a chiudere forzatamente quasi 100 tra giornali e riviste. Ha un potere consolidato: da 15 anni Recep Tayyip Erdoğan - parliamo ancora di lui! - gestisce la Turchia come un padre padrone. Lo fa alternando la fedeltà formale all’Alleanza Atlantica con flirt sempre più spinti con la Russia, ma soprattutto attuando una politica di conquiste militari come non si vedeva - prima di lui - nel mondo da decenni. Gestisce un Paese che in tre lustri di potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ha portato il Paese a raddoppiare il PIL. Questo fino a che nel 2015 comincia la fuga degli investitori americani ed asiatici. Questo finché il quadro economico e politico si fa opaco: “Quando si ha un grosso deficit del commercio estero come la Turchia e si continua a insistere con la Banca centrale su tassi di interesse più bassi, i capitali stranieri prima o poi scappano in cerca di rendimenti più alti e la valuta locale, la lira turca in questo caso, precipita. Inoltre tutte le imprese turche che si sono indebitate in prestiti in valuta straniera vanno in crisi perché non hanno più i mezzi per far fronte ai debiti in valuta forte”.

Nessuno - a torto o a ragione - prende sul serio i dati ufficiali della crescita del 2017 (7,4% annuo: più forte della Cina!), in quanto “tutto questo è fumo negli occhi per gli investitori internazionali visto che Moody's ha ridotto il rating sovrano a livello di junk (spazzatura)”1. Le critiche dei quotidiani finanziari non sono stoppate dalle cancellerie.

Prima di detti scricchiolii, chi scrive annota anche un episodio significativo: il fallimento dei moti di Gezi Park nel 2013, il quale è ben noto agli “ingegneri della macchina della rivoluzione”: tra le 4 e le 7 milioni di persone attivamente impegnate a protestare contro il governo non innescano alcun cambiamento di regime. A ben vedere, il silenzio delle cancellerie internazionali e l’attenzione non eccezionale dei media, fanno pensare più a un test, che a un vero tentativo. Forse, sarà il caso di sperimentare una versione 2.0 di detta macchina, dato che nel 2013 la miccia della vecchia non si innesca.

Ora che Erdogan si appresta a diventare ufficialmente il Putin della Turchia, diventa interessante capire fino a che punto sia arrivata la tolleranza. E soprattutto quanto durerà: tra oggi e il 2020 Ankara avrà aperte tante di quelle questioni che anche con un’economia in pieno boom e con l’indice Gini prossimo allo zero sarebbero difficili da affrontare.

A chi pensa che detta pazienza durerà all’infinito, ricordiamo che Muhammad Gheddafi e i coniugi Asma e Bashar El-Assad nel 2010 venivano ancora ricevuti dai leader occidentali come persone rispettabilissime.

  

1http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-04-07/turchia-perche-erdogan-r...

(immagini: presidency of the republic of Turkey / web)