La ventennale guerra in Afghanistan terminata con la riconquista del Paese da parte dei talebani è stata il fallimento politico dell’occidente euro-americano. Su questo, a pochi giorni dall’ingresso degli “studenti coranici” a Kabul e mentre nell’aeroporto della capitale si consuma la tragedia di chi tenta di scappare dalla violenza islamista, ci sono ben pochi dubbi. Le dure critiche cui è sottoposto il Presidente statunitense Joe Biden circa la sua politica afghana, così come le pallide ammissioni dei due ministri italiani Guerini e Di Maio (per fare un esempio più vicino all’opinione pubblica italiana) circa le difficoltà incontrate nel corso dell’ultima fase del conflitto, confermano in buona sostanza l’approccio strategico sbagliato adottato dalla Coalizione per la ricostruzione del tessuto istituzionale e, di riflesso, delle forze armate afghane.
L’opera di “state building” in Afghanistan si è basata tutta sull’ideale utopistico e dannoso legato al concetto di “esportazione della democrazia” di marca neoconservatrice, rivelandosi un tentativo di copiare ed incollare la liberaldemocrazia occidentale in un territorio nel quale – per quanto possa essere stato evoluto e moderno prima della vittoria talebana del 1996 – la democrazia non aveva mai attecchito.
Quella compresa sotto il nome di Afghanistan è una terra complessa con tribù in lotta tra loro, divise da radicali differenze etniche, in cui il conflitto religioso è particolarmente sentito e dove, come già spiegato (v.articolo), il potere si esercita in spazi ristretti e con le logiche proprie dell’isolazionismo. Va da sé che, animati da furore ideologico “positivista” gli occidentali abbiano voluto costruire uno Stato afghano ad immagine e somiglianza dei bisogni percepiti dalla popolazione e non di quelli reali, uno Stato cioè privo del consenso popolare di base necessario a sorreggere l’intera impalcatura politico-istituzionale di un Paese ancora in guerra.
Alla prova dei fatti, cioè al momento del ritiro effettivo delle forze della Coalizione, la Repubblica Islamica dell’Afghanistan (i cui problemi erano sorti in nuce già nel 2002-2004 con l’Autorità di Transizione Afghana) si è sciolta come neve al sole e l’Emirato talebano ricostituito – solo de facto e non ancora de iure – in poco più di venti giorni.
Allo “state building” gli occidentali hanno affiancato un fallimentare “army building”, cioè la costruzione, praticamente partendo da zero, di forze armate regolari in Afghanistan che rispondessero al Governo di Kabul e che, una volta che la Coalizione avesse abbandonato il terreno, avessero combattuto autonomamente contro i talebani. Ancora una volta si è optato per inseguire le percezioni e non la realtà dei fatti: gli Afghani hanno sconfitto a partire dall’800 gli Inglesi, i Sovietici ed ora gli Statunitensi ed i loro alleati combattendo una guerra di guerriglia senza sconti. Gli Afghani sono un popolo guerriero certamente ma, anzitutto, “guerrigliero” e difficilmente inquadrabile in reggimenti, brigate, divisioni e corpi d’armata come i soldati occidentali.
La stessa suddivisione etnica delle Forze Armate ha causato problemi non indifferenti nel momento in cui l’Afghan National Army ha dovuto sostenere gli scontri finali con i talebani, tanto che interi battaglioni – e persino i due corpi d’armata di Kandahar e Mazar-i-Sharif – composti da soldati pashtun (la stessa dei talebani) e guidati da ufficiali della stessa etnia o si sono arresi senza combattere o sono passati armi e bagagli al nemico. Il “problema etnico” sorto in seno al meccanismo organizzativo dello Stato si è riproposto, con tutta la gravità del caso, nelle Forze Armate.
Come il giornalista pakistano Ahmed Rashid ha scritto nelle prime pagine del suo saggio “Talebani: Islam, il petrolio e il Grande scontro in Asia centrale” (Feltrinelli, 2001, ed. or. 2000) i pashtun avevano dominato l’Afghanistan per trecento anni, ma poi erano stati soppiantati da altri gruppi etnici minoritari. Le vittorie dei talebani avevano ravvivato la speranza che i pashtun riconquistassero il dominio del paese. I talebani, provenienti dal gruppo etnico maggioritario pashtun (che costituisce circa il quaranta per cento dei venti milioni di abitanti dell’Afghanistan), avevano anche galvanizzato il nazionalismo della loro etnia. Un’opera iniziata fin dal conflitto contro l’Armata Rossa e dunque ben prima della guerra civile 1992-1996, proseguita poi anche oltre il 2001 e che oggi ha dato i suoi frutti sul campo.
Dal punto di vista della catena di comando, della gestione del combattimento, dei servizi logistici, l’esercito afghano non aveva raggiunto l’efficienza necessaria a portare avanti operazioni autonome contro i talebani incontrando difficoltà crescenti financo nel semplice controllo del territorio. Nel 2013 i soldati afghani non erano in grado di completare autonomamente i compiti più banali come la logistica, garantire che i soldati ottengano i loro stipendi, procurarsi cibo, aggiudicare contratti per il carburante ed altro ancora (D. Wasserbly, Pentagon: ANSF will still require 'substantial' help after 2014, in “Jane's Defence Weekly”, 30 luglio 2013) e nel 2020-2021, il biennio decisivo nel quale a Washington D.C. ha preso corpo l’ipotesi della ritirata, la situazione non era affatto cambiata, anzi, all’aumento degli effettivi e dei compiti assegnati all’ANA, è addirittura peggiorata.
Pur tuttavia è bene evidenziare i risultati altamente positivi raggiunti dagli addestratori occidentali per il miglioramento delle conoscenze militari individuali dei soldati afghani; risultati positivi che poi hanno un rovescio della medaglia pericoloso: il bagaglio di conoscenze acquisito è stato letteralmente trasferito ai talebani così come parte dell’armamento e dell’equipaggiamento della Coalizione, la cui distruzione resta una questione all’ordine del giorno per il personale militare ed i vertici politici che si stanno occupando del ritiro e dell’evacuazione degli occidentali dall’Afghanistan.
Queste sono solo alcune delle questioni sulle quali riflettere e trarre alcune conclusioni circa il fallimento della politica militare della Coalizione occidentale in Afghanistan. Al netto di commenti, pareri e cronache quotidiane sulla sconfitta occidentale e la vittoria talebana, fin da questi giorni diventa opportuno – e necessario – attraverso il dibattito prima tecnico-militare e poi politico “storicizzare” l’esperienza ventennale del conflitto afghano per non ripetere gli errori che hanno portato alcuni degli eserciti più importanti e preparati del mondo ad aggiungersi alla triste lista degli sconfitti nella “tomba degli imperi”.
Foto: U.S. DoD