Stabilità precaria nell’Indo-Pacifico

(di Renato Scarfi)
30/11/20

L’Indo-Pacifico nel suo più ampio contesto marittimo, territoriale, demografico ed economico rappresenta certamente, nella realtà mondiale odierna, la parte di mondo su cui si concentra maggiormente l’attenzione della comunità internazionale. Si tratta di una vastissima area geografica, che include migliaia di chilometri di costa asiatica e due importanti penisole (Corea e Vietnam), che comprende la moltitudine di isole che si distendono dall’Oceano Indiano fino ai grossi arcipelaghi che sorgono vicino alle coste (Giappone, Filippine, Indonesia), per arrivare alle più lontane e consistenti strutture continentali (Nuova Guinea, Australia, Nuova Zelanda), e alle minuscole isole della Micronesia o alle isole Hawaii e alla costa americana, dal Canada al Cile.

Una regione immensa che oggi sta attraversando un periodo di intenso fermento evolutivo e che è alla ricerca di nuovi equilibri, capaci di tener conto della sua complessa realtà in continuo mutamento. Un’area geopolitica caratterizzata da un elevato tasso di crescita, che ha determinato lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale, ma anche da una notevole disomogeneità, che si traduce in interessi assai diversificati e, non di rado, contrastanti. Ciò ha implicazioni sul piano della sicurezza e della stabilità internazionale perché, in un quadro di accentuata interdipendenza quale quello odierno, gli eventi che si sviluppano in questa vasta area hanno la capacità di influenzare anche il resto del mondo.

In tale contesto emerge chiaramente il ruolo dinamico e il contributo determinante della Cina che, da sola, contribuisce per il 30% circa alla crescita mondiale e si pone come potenza egemone dell’area, provocando importanti effetti anche sugli equilibri strategici globali. È pertanto intuibile come la nuova e maggiormente assertiva politica cinese, che si traduce sia nell’inflessibilità sulle questioni di Taiwan e del Tibet che nelle decise rivendicazioni territoriali e dei confini marittimi, possa suscitare inquietudine soprattutto nei vicini più esposti, dal sud-est asiatico al Giappone.

Se poi consideriamo che le relazioni internazionali in Asia generalmente si basano sul sospetto e su una diffusa mancanza di fiducia reciproca, residuo di storici conflitti irrisolti e di rivalità ataviche, comprendiamo come tutta l’area sia caratterizzata da una diffusa fragilità dei delicati equilibri di volta in volta faticosamente raggiunti1 e come appaia giustificata una tale inquietudine. A differenza del teatro europeo, infatti, una guerra maggiore fra grandi Paesi è tutt’altro che impensabile in questo continente, arena dei maggiori contenziosi del mondo contemporaneo. Basti pensare alle persistenti tensioni tra India e Pakistan, tra India e Cina, fra le due Coree e tra la Cina e Taiwan (con gli Stati Uniti sullo sfondo), la disputa sulle risorse sottomarine del Mar Cinese meridionale, che interessa otto Paesi, le rivendicazioni sulle disabitate isole Senkaku (o Diaoyu, come le chiamano i cinesi) contese con il Giappone, sulle isole Paracelso, contese con il Vietnam, e sulle isole dell’arcipelago delle Spratly, contese da Vietnam, Filippine, Cina, Malaysia, Taiwan e Brunei, ma trasformate dalla Cina in una base militare con piste aeree e missili antinave. Se consideriamo anche alcuni contenziosi “minori” si arriva a più di una ventina di potenziali cause di conflitto, che vedono quasi sempre presente la Cina, in un modo o nell’altro. D’altronde, quando si parla di Repubblica Popolare Cinese, bisogna ricordare che tra i suoi obiettivi principali dichiarati vi sono la riunificazione della Cina (con chiaro riferimento a Taiwan) e la riaffermazione dei suoi “diritti storici” su gran parte del Mar Cinese meridionale. Una chiara indicazione delle sue mire espansionistiche e un evidente avvertimento agli altri paesi rivieraschi.

Va inoltre ricordato che l’Asia è l’area del mondo dove è presente la maggiore quantità di armi. Le spese per la difesa sono infatti aumentate enormemente negli ultimi vent’anni, nonostante le diffuse crisi economiche e, oggi, sanitarie. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) sei Paesi dell’area (India, Cina, Australia, Pakistan, Vietnam e Corea del Sud) rappresentano circa il 50% della crescita mondiale di importazioni di armamenti. In tale ambito, la Cina è il Paese che sta spendendo più di tutti al mondo per l’acquisizione di materiale di armamento dall’estero. Le spese militari cinesi sono complessivamente così elevate che, secondo alcuni commentatori, la Cina è al secondo posto nel mondo, dietro solo a Washington.

Lo stesso Istituto, inoltre, sottolinea la presenza in quell’area di ben sei Paesi dotati di armamenti nucleari (Cina 320, India 150, Russia 6.375, Stati Uniti 5.800, Pakistan 160 e Corea del Nord 30-40), ai quali si aggiungono le dichiarate pulsioni nella stessa direzione del Giappone e della Corea del Sud.

Le principali associazioni regionali

Ad accrescere le preoccupazioni della comunità internazionale circa la stabilità dell’area c’è il fatto che in Asia non esistono organizzazioni di sicurezza collettiva simili alla NATO, né trattati multilaterali per la riduzione delle tensioni e degli armamenti, tutti elementi che hanno alleggerito le ultime fasi della Guerra Fredda e sono stati determinanti, in parte, per il suo superamento e per la costruzione di un ambiente di confidence building. Esistono, invece, un certo numero di associazioni, organizzazioni e simposi sub-regionali prevalentemente economiche e fondamentalmente deboli, dove in sostanza finiscono quasi sempre per prevalere gli interessi nazionali, tant’é che si sono sinora rivelate sedi inadeguate per la composizione dei vari contenziosi tra Stati asiatici e che appaiono non avere gli strumenti necessari per appianare le dispute nel caso che alle parole si dovesse passare a un confronto più muscolare.

La più nota di queste è l’Association of South East Asian Nations (ASEAN), che include Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. Si tratta di un’associazione di Stati nata nel 1967 essenzialmente con funzioni politiche di contenimento delle influenze comuniste. Per quanto essa svolgesse un ruolo anche sul piano degli equilibri della regione (sicurezza comune, limitazione degli armamenti, composizione dei conflitti), la presenza di opinioni ampiamente differenti sui processi politici e di governo (comprese le pratiche in settori quali il suffragio e la rappresentanza politica), il ventaglio di tipologie di governo (che vanno dalla democrazia alla repubblica popolare), le diverse impostazioni economiche (dal capitalismo al socialismo) hanno sostanzialmente reso infruttuose le riunioni sulle questioni strategiche relative alla sicurezza. Ciò ha fatto in modo che, con il tempo, essa abbia perso l’originaria connotazione anticomunista che, per tanti anni, era stata la sua principale ragion d’essere, e sia passata a occuparsi prevalentemente di aspetti economico-commerciali, settore nel quale è risultato meno difficile giungere a un efficace compromesso tra le varie posizioni. Altri gruppi separati permettono a Cina, Giappone e Corea del Sud di interagire con l’ASEAN.

Abbiamo poi la Shanghai Cooperation Organization, che include Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, per arrivare al South Asian regional cooperation group, i cui membri sono Afghanistan, Bangladesh, Buthan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka. Cina, Stati Uniti, Giappone, Iran e Unione Europea partecipano come osservatori.

Dopo otto anni di negoziati, infine, il 15 novembre è stato formalizzato il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che include le dieci economie dell'ASEAN oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia. Un accordo raggiunto proprio per effetto di una crescente tendenza globale al protezionismo, principalmente alimentata dall’America first dell’amministrazione Trump, che ha fornito ai Paesi partecipanti le motivazioni per avviare quest’area di libero scambio.

Ciò nonostante, pur trattandosi di organizzazioni che si vantano di rappresentare miliardi di persone, non hanno minimamente contribuito neanche a chiarire come gestire le dispute sulle decine di isolette e le aree marittime del Mar Cinese Meridionale. Esse sembrano, infatti, strutturalmente incapaci di mediare in caso di conflitto, per esempio, tra India e Pakistan o tra Cina e Stati Uniti per Taiwan. Eccellente palcoscenico quando si tratta di cooperazione economica, comparsate mediatiche, esercizi simbolici e fugaci strette di mano, appaiono prive di qualsiasi valore reale per il mantenimento o il ristabilimento della pace nel caso i conflitti dovessero riguardare grossi e importanti Stati. Tuttavia, la loro esistenza consente alla Cina di rafforzare la sua sfera economica e politica di influenza, accrescendo la sua capacità di competere con gli Stati Uniti nell’area. L’India, unica economia che avrebbe potuto bilanciare il gigante cinese, non fa parte dell’ultimo accordo per scelta di Nuova Delhi, che si é ritirata dai negoziati nel 2019, facendo definitivamente tramontare l'idea che la Cina possa essere isolata, in un contesto di economia globale.

Le relazioni con i principali Paesi

Per quanto riguarda i principali contenziosi con gli altri Paesi asiatici, di cui ho già riferito in miei precedenti articoli, questi vedono l’area marittima che bagna le coste asiatiche più orientali al centro delle dispute, sia per questioni di sovranità nazionale che, soprattutto, per questioni di sfruttamento delle importanti risorse marine presenti.

Dopo il Mar Cinese, inoltre, anche l’Oceano Indiano si sta configurando come spazio conteso da Pechino. In tale ambito, come scrive Peter Frankopan, “…nell’estate del 2016 il Pakistan ha annunciato che avrebbe speso cinque miliardi di dollari per l’acquisto di otto sommergibili d’attacco a propulsione diesel-elettrica dalla Cina…”2.

Queste relazioni politico-economiche in tema di armamenti navali hanno causato apprensione in India, notoriamente già contrapposta sia al Pakistan che alla Cina per questioni territoriali. Non solo, la fornitura di capacità navali al Pakistan fornisce alla Cina un motivo in più per “entrare” nell’Oceano Indiano, evidenziando le sue ambizioni anche in quell’area. Non è un caso, infatti, se da qualche anno nell’area sono ormai “…sempre presenti almeno otto navi da guerra cinesi alla volta (in un’occasione ce n’erano di pattuglia addirittura quattrodici)…”, ufficialmente per operazioni antipirateria. Una presenza che preoccupa Nuova Delhi, anche per l’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato dagli equipaggi cinesi. Una crescente tensione che nel febbraio 2018 ha portato Pechino a denunciare le minacce subite da alcune navi cinesi, contro cui alcune unità indiane avrebbero indirizzato un colpo di avvertimento. La denuncia è stata immediatamente smentita dalle autorità indiane. Nel marzo 2018, inoltre, alcune esercitazioni congiunte (Milan 2018) effettuate nella parte meridionale del Golfo del Bengala (isole Andamane e Nicobare), con la partecipazione di navi provenienti da 23 Paesi, tra cui India, Australia, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Oman e Cambogia, hanno innervosito le autorità cinesi a tal punto da aver rilasciato dichiarazioni infuocate, sottolineando come tali azioni avrebbero potuto portare le potenzialità di conflitto dalla terra al mare.

Una situazione preoccupante che, come vedremo più avanti, ha convinto Nuova Delhi ad abbandonare il tradizionale “non allineamento” politico e militare, facendo schierare l’India con gli Stati Uniti. Allo scopo di monitorare l’attività dei sottomarini cinesi di passaggio l’India ha, intanto, provveduto quest’anno alla stesura di una rete di idrofoni e di rilevatori di anomalie magnetiche lunga circa 2.300 km, tra l’isola di Sumatra e l’arcipelago delle già ricordate isole Andamane-Nicobare. La catena, una versione più moderna di quella impiegata durante la Guerra Fredda per la rilevazione dei movimenti dei sottomarini russi, verrà impiegata anche dai velivoli ASW per la localizzazione tramite triangolazione.

Il Giappone, come detto, vede ancora aperto il contenzioso con la Cina in relazione alla sovranità sulle disabitate isole Senkaku (o Diaoyu, come le chiamano i cinesi) rivendicate da Pechino in base a criteri storici e geografici. Senza entrare nel merito giuridico della questione, basti ricordare che Tokyo vorrebbe che il confine delle rispettive Zone Economiche Esclusive fosse identificato con la linea mediana dei confini marittimi, mentre Pechino afferma che la sua ZEE dovrebbe arrivare fino al limite della piattaforma continentale (canale di Okinawa). Si tratta, in estrema sintesi, di una sovrapposizione di circa 81.000 miglia nautiche quadrate di mare pescoso e con discrete riserve di idrocarburi. All’interno di tale area si trovano le isole Senkaku. Nel novembre del 2013 la Cina ha unilateralmente deciso di istituire una zona di identificazione di difesa aerea (ADIZ) sopra le isole contese, ribadendo così la propria posizione in merito alla sovranità sull'arcipelago. Detta zona si sovrappone completamente ad analogo spazio aereo istituito dal Giappone nel 1968 a protezione delle isole da possibili incursioni aeree. Allo scopo di rendere evidente l’asserito abbandono di quelle isole da parte giapponese, inoltre, la Cina ha ultimamente innalzato il livello di presenza navale attorno all’area contestata e all’interno delle sue acque contigue. In un’occasione un’unità cinese stava perseguendo un peschereccio giapponese, e un’unità della Guardia Costiera è stata costretta a intervenire a difesa dei connazionali. Le ansie nipponiche sono quindi tutt’altro che irragionevoli e infondate.

Il Giappone sembra avere, comunque, le risorse economiche e tecnologiche per cercare di rispondere a queste sfide, sviluppando capacità missilistica a lungo raggio e capacità di proiezione navale, completate da una credibile difesa antimissile.

Tuttavia, non manca chi teme che un Giappone politicamente più attivo e nuovamente militarmente significativo possa costituire una minaccia per gli equilibri dell’area. In particolare, la crescita della flotta nipponica è ancora vista con un certo sospetto. Che sia un retaggio delle note vicende dello scorso secolo o meno, l’ostilità antinipponica in Asia è ancora profonda e molto radicata, anche se la profonda mutazione operata da quel Paese nel secondo dopoguerra, e l’enorme lavoro diplomatico sviluppato per la completa riabilitazione della propria identità storica e geopolitica, sembra abbiano dimostrato che il Paese dovrebbe aver compreso come controllare la propria sensibilità sui temi che riguardano la sua specificità. Un tema che in passato l’ha indotto a scelte rovinose.

Dopo essere stato logorato per lungo tempo dal dilemma se puntare alla regionalizzazione, coltivando più profonde relazioni con la Cina (fino ai primi anni novanta definite come l’unica architrave della diplomazia nipponica) o se seguire la “ruota” americana, assumendosi maggiori responsabilità politiche nell’area, sembra quindi che l’aggressivo atteggiamento cinese abbia fatto definitivamente pendere la bilancia di Tokyo a favore della seconda ipotesi. Ciò ha portato ad aumentare il proprio arsenale complessivo, con un conseguente sensibile aumento delle spese per la difesa. Dopo aver da qualche tempo esteso la sua già citata area di autodifesa il Giappone è quindi passato alla costruzione di una moderna flotta d’alto mare, che comporta la necessità di copertura aeronavale. Le portaerei non ci sono ancora, ma non è detto che tarderanno molto ad arrivare.

La Russia, potenza che sta lentamente riorganizzando e ammodernando la propria flotta (si parla di circa 20 navi impostate nel solo 2020) dopo la grave crisi patita alla fine dello scorso secolo, ha visto un graduale miglioramento dei suoi complessi rapporti con la Cina. Favorito dalla fine della gara per il primato nel mondo comunista, tale miglioramento delle relazioni ha permesso a Pechino di accedere alla tecnologia necessaria per iniziare lo sviluppo di una flotta moderna e competitiva e a Mosca di raccogliere oltre nove miliardi di euro di vendite di armamento navale. La sua transizione ancora in corso, comunque, si riflette sul coinvolgimento complessivo in Asia e sulla proiezione della sua flotta nel Pacifico.

Ciò nondimeno, pur nel ridimensionamento del suo impegno e al temporaneo abbandono forzato dei primitivi obiettivi di espansione della propria influenza, Mosca non intende rinunciare al proprio ruolo di importante Paese anche asiatico e affacciato sul Pacifico.

Forte di complessivamente circa 60 unità navali di superficie e di 20 sottomarini (una componente, quella subacquea, ancora oggi potente e temibile) la Russia continua, quindi, a curare con assiduità le relazioni internazionali su quello scacchiere, sforzandosi di mantenere quelle tradizionali e di migliorare quelle eventualmente deteriorate. In tale ambito il presidente Putin, nel corso del recente incontro annuale del Valdai discussion club (Mosca 20-22 ottobre 2020), una sorta di Davos russo inaugurato nel 2004, si è dichiarato possibilista riguardo un’eventuale partenariato militare tra Russia e Cina, la cui cooperazione nel settore navale potrebbe servire a bilanciare la potenza navale degli Stati Uniti e alleati nell’area.

Per quanto attiene agli Stati Uniti, nessuna amministrazione mette in discussione l’interesse all’Asia e al Pacifico, generalmente condiviso dall’opinione pubblica. In tale ambito, nonostante Washington stia attraversando un periodo di generale tendenza alla riduzione del coinvolgimento internazionale, il livello dell’impegno (anche militare) nell’area non ha subito alcun tipo di ridimensionamento, anzi. A dispetto dei recenti afflati isolazionistici, Washington è cosciente della propria supremazia militare, schiacciante e continuamente aggiornata, e intende continuare a influire ovunque si manifestino pericoli di conflitti e rivolgimenti, Indo-Pacifico in primis. Ma il mantenimento di una credibile e competitiva (anche sotto il profilo numerico) presenza navale ha un prezzo che gli USA non possono sostenere a lungo da soli.

Ecco quindi che in attesa di cooperazione, per esempio, da parte degli alleati della NATO (Italia? Francia? Regno Unito? Germania?) cui è stata chiesta la disponibilità ad essere presenti anche i quelle lontane acque, si è formato un asse che cerca di arginare il crescente presenzialismo marittimo cinese nell’area Indo-Pacifico, il “Quad”. Stati Uniti, Australia, India e Giappone hanno, infatti, avviato una collaborazione navale che, per alcuni osservatori, potrebbe rappresentare il nucleo di una NATO asiatica. Lanciata diversi anni fa dal primo ministro giapponese Shinzo Abe, questa iniziativa di dialogo sulla sicurezza non era mai effettivamente decollata, per non intaccare i rapporti con Pechino. Solo il recente acuirsi delle tensioni marittime regionali, e la postura più aggressiva dei cinesi, ha permesso di imprimere una determinante spinta alla sua realizzazione. Un quadrilatero che si propone, quindi, come collaborazione per il contenimento strategico della Cina sulle migliaia di miglia marine rappresentate dal teatro Indo-Pacifico. Un’iniziativa che ha esordito con un’esercitazione navale in comune, un chiaro messaggio sussurrato direttamente all’orecchio cinese.

Conclusioni

La sola creazione di una rete di alleanze non sembra, tuttavia, sufficiente per formare una difesa contro le crescenti ambizioni e presenza cinesi nell’area dell’Indo-Pacifico. Di conseguenza le spese nel settore della Difesa, specialmente riguardo alle capacità marittime, negli ultimi anni sta gradualmente aumentando in tutta l’Asia sud-orientale e in Oceania. Dietro alla Cina, quindi, i Paesi asiatici che più temono la sua aggressività, o che hanno dei contenziosi in corso, si sono ingaggiati in una corsa alla crescita navale, con Giappone e India che emergono su tutti per impegno economico e qualità dell’armamento. L’Australia, inoltre, nel febbraio 2019 ha approvato la spesa di circa 36 miliardi di dollari per l’acquisto di 12 nuovi sottomarini d’attacco, che verranno costruiti dalla Francia e assemblati ad Adelaide. Si tratta del più grande appalto australiano per la difesa in tempo di pace e la consegna dovrebbe avvenire nel 2030. Tuttavia, a onor del vero, nel gennaio di quest’anno, sono sorti dei problemi in merito alla partecipazione australiana al progetto, con l’Amministratore delegato dell’azienda francese che ha messo in dubbio la capacità australiana di fare efficacemente fronte agli impegni assunti. Ciò nonostante, la volontà politica è chiara e il percorso ben determinato, tant’è che lo scorso 27 ottobre il Governo Federale, in seguito alla crescente incertezza strategica nell’area di casa, ha annunciato che dal 2021 interromperà la sua trentennale presenza navale nelle acque mediorientali.

I Paesi rivieraschi dell’Indo-Pacifico, enormemente differenziati per struttura politica, istituzionale, sociale, economica e capacità militari si stanno muovendo in un contesto di sicurezza internazionale sempre più complesso e dinamico, dove è ormai estremizzata la competizione per lo sfruttamento delle risorse marine. Una differenziazione che si manifesta anche nell’eterogeneità delle percezioni che essi hanno circa il senso di sicurezza complessivamente prodotto nell’area dalla permanenza della flotta statunitense. Alcuni Paesi, infatti, ritengono che la presenza americana abbia il doppio valore di deterrente ma anche di potenziale motivo di escalation con la Cina. Ciò comporta una corsa al posizionamento strategico che coinvolge tutti. L’Indonesia, per esempio, il 22 ottobre ha negato l’autorizzazione all’atterraggio sul suo territorio degli aerei spia statunitensi, in modo da non urtare la suscettibilità cinese e rimanere equidistante tra i due contendenti.

L’avvenire a medio termine del mondo dipende da ciò che succederà nel prossimo decennio in questo immenso scacchiere, che ha diretta influenza su circa due terzi della popolazione mondiale e su oltre la metà della produzione globale.

Tuttavia, anche se al momento la Cina, potenza egemone nell’area, per propri motivi non appare intenzionata allo scontro ma, al contrario, al mantenimento della pace, altri governi della regione potrebbero essere animati da intenzioni differenti, ed essere indotti a compiere prima o poi azioni aggressive, magari proprio nell’area che si trova al centro degli interessi cinesi, il Mar Cinese Meridionale.

Si tratta quindi di una realtà instabile e pericolosa. Non ci vuole molto a comprendere come una qualunque provocazione, reale o percepita, intenzionale o meno, possa facilmente causare una rovinosa escalation dagli effetti virtualmente devastanti, visto che in quell’area più di un potenziale giocatore, da una parte e dall’altra, è dotato di armamento nucleare e che l’incendio potrebbe propagarsi anche in altre aree del mondo.

È pertanto diventato di importanza globale scongiurare il pericolo di eventuali decisioni unilaterali introducendo efficaci meccanismi di prevenzione, sul tipo di quelli efficacemente sperimentati durante la Guerra Fredda, per evitare che in quell’area del mondo si inaspriscano le rivalità e per evitare che eventuali confronti armati aggiungano gravi problemi in un continente e in un mondo che non ne hanno affatto bisogno.

1Peace looks fragile in Asia”, di Paul Dibb, uno dei massimi esperti militari del Pacific Rim e direttore del Centro per gli Studi Strategici di Camberra, sull’International Herald Tribune 19 giugno 2002 (articolo ripreso anche dal New York Times)

2 Peter Frankopan, Le nuove vie della seta, Mondadori, 2019, pag. 104

Foto: MoD People's Republic of China / ASEAN / DFAT / Indian Navy / JMSDF / Valdai Club Foundation / web / U.S. Navy