Sri Lanka: ennesima vittima dello Scrooge pechinese

(di Gino Lanzara)
19/07/22

Nelle relazioni internazionali è opportuno lasciar sedimentare gli avvenimenti; il rischio dei rilanci ad effetto senza alcuna analisi, è quello di imprimere immagini e sensazioni superficiali. In momenti come quelli attuali, distolti dai lanci missilistici russi o da paradossali e dannosi singulti istituzionali di labile consistenza, il tuffo collettivo dei rivoltosi dello Sri Lanka nella piscina presidenziale non suscita alcun interesse se non un ilare sentore folcloristico.

Malgrado la lontananza geografica, compensata da globalizzazione e comunicazioni, quello che accade in quel quadrante dovrebbe attrarre l’interesse anche del nostro Paese, dove Mediterraneo allargato è diventato riempitivo da discorso a la page sostanzialmente poco compreso e capace di suscitare un interesse pari allo zero, cosa imperdonabile per un Paese che si fregia del titolo di potenza, anche se media e pure in declino.

Quel che accade a Colombo dovrebbe interessarci, visto che la recente evoluzione politico economica dello Sri Lanka presenta sintomatologie pronte a riproporsi in altri teatri con velocità virali.

Lo Sri Lanka, grande due volte il Belgio e praticamente sempre assente nell’agenda americana, è la 25^ isola mondiale per grandezza e, malgrado la presenza cinese, dista poche miglia dall’India.

La crisi economica che lo flagella è la peggiore abbattutasi dal 1948, con il peso di interessi da decine di miliardi di dollari impossibili da rimborsare; il disastro economico si combina con una situazione geopolitica altrettanto critica, che vede la sempre più prossima collisione sino indiana.

I fattori che hanno condotto all’attuale disastro sono diversi: indebitamento, pandemia, guerra in Ucraina che ha aumentato il prezzo di energia e cereali, innegabili responsabilità della dinastia Rajapaksa, presente dal 1936 sulla scena politica del Paese.

Questa volta le fiamme non sono alimentate dalle rivendicazioni etniche Tamil e da nazionalismi corrotti, ma da povertà e fame; il debito, divorando tutto, ha reso concreto un default che, da ipotesi accademica, è divenuto realtà, e a nulla sono servite le dimissioni del premier Mahinda Rajapaksa (foto apertura del 2014), fratello del presidente Gotabaya.

Lo Sri Lanka è intollerante all’interetnicismo; i singalesi, il 75% della popolazione, pur costituendo la maggioranza, sono divisi da differenze di casta, religiose, culturali: malgrado i cristiani siano appena l’1,3% detengono le leve del potere. Ci sono poi i Tamil, forza lavoro insediata dal colonialismo inglese e mai riconosciuta dai singalesi autoctoni, e la comunità musulmana, al centro dell’attenzione specialmente dopo gli attentati1 della domenica di Pasqua del 2019, causa della morte di quasi 270 persone, il cui sangue richiama alla memoria la guerra civile dei 25 anni, dimenticata dall’occidente ma non per questo meno cruenta.

I Rajapaksa passano dagli altari della liberazione dello Sri Lanka dalla minaccia Tamil, alla polvere del default, alla fuga vergognosa. Noi dovremmo saperlo: la guardia muore e (in genere) non si arrende, il monarca fugge, magari su una nave militare anche piccola, poco importa, purché sia veloce. Insomma, gli elementi del dramma ci sono sempre stati tutti, era solo questione di tempo; tanti cattivi, di buoni nemmeno l’ombra, di accuse di crimini contro l’umanità quante se ne desiderano.

Cosa potrà mai rappresentare ora un bagno collettivo in piscina?

Tutto il mondo è paese: durante il suo mandato Mahinda Rajapaksa rimuove i limiti costituzionali che impediscono reiterate nomine elettorali; eredita una situazione economica drammatica causata da un neoliberismo allergico alle raccomandazioni del FMI, ma incline a sognare una nuova Dubai, la cui realizzazione viene affidata ad una società cinese statale per appena 1,4 miliardi di dollari, più 99 anni di affitto gratuito dei due terzi del terreno, a cui aggiungere altri investimenti falliti alla nascita: l’aeroporto di Hambantota, ovvero il vuoto pneumatico degli scali mondiali, ed il sottoperformante porto di Hambantota, costato un miliardo di dollari.

Insomma, mentre gli studi di fattibilità concludono che il progetto non è redditizio, nel 2010 la Cina rilascia crediti per 307 milioni di dollari, vincolando l’affidamento dei lavori alla China Harbor; due anni più tardi Colombo riceve un nuovo prestito di 757 milioni di dollari ad un tasso di interesse insostenibile; nel 2015 lo snodo strategico portuale si rivela un fiasco lasciando lo Sri Lanka con un debito monstre2.

Lo Scrooge di Pechino non si impietosisce, rifiuta la ristrutturazione del prestito, cosa che nel 2017 costringe il governo guidato dal politico 4 stagioni Wickremesinghe a cedere alla China Merchants Port Holding Company (CMPort), azioni e contratto di gestione del porto per 99 anni (una sciocchezza, il tempo vola). Per la Cina, il più grande prestatore mondiale bilaterale di crediti, lo Sri Lanka è un investimento strategico sulla Belt and Road Initiative, che necessita di uno scalo nell’Oceano Indiano.

Nel 2015 i fratelli Rajapaksa, responsabili di cinque ministeri3 controllano il 70% del bilancio nazionale; ma le accuse di corruzione piovono come i prestiti cinesi; sale brevemente al potere presidenziale Maithripala Sirisena, tuttavia costretto a nominare come premier Mahinda Rajapaksa.

A volte ritornano. Nel 2019 il delitto perfetto: viene eletto Gotabaya Rajapaksa, che si incarica di dare il maramaldo colpo di grazia ad una economia già morta e con un’inflazione4 fuori controllo. Con lui, di fatto, il debito si autofinanzia; il covid blocca il turismo, fiaccato dall’assenza forzata di russi e ucraini, in tutt’altre faccende affaccendati, mentre il governo blocca le importazioni dei fertilizzanti chimici, paralizzando anche l’agricoltura.

Cosa fare se non trovare il colpo di genio (del male) dell’emanazione di sussidi a casse vuote, con il divieto di importazione di automobili a fronte di una produzione interna mai esistita, e con la riduzione del gettito fiscale ed il taglio dell’IVA del 7%? Si è trattato di un evidente e (im)probabile tentativo di sconfiggere la povertà naufragato ancor prima di partire.

Paradossalmente, perché non c’è nulla di cui stupirsi, chi ha sostenuto l’economia dello Sri Lanka sono stati gli emigrati con le loro rimesse, andate tuttavia scemando negli ultimi mesi, determinando il ricorso alle obbligazioni estere pur sapendo che sarebbe stato impossibile onorarle.

L’ulteriore colpo di genio (del male) sta nel ricorso al monte di pietà cinese, che finisce di affossare l’affossabile. La fuga centometristica dei Rajapaksa non risolve i problemi, tutt’al più concede un bagnetto e l’assaggio di un buffet abbandonato in fretta e furia. Un po' poco per un Paese devastato.

Poteva finire bene? Assolutamente no, anche perché alle altre precipitazioni si aggiunge la pioggia di accuse di svendita della sovranità (ma tu pensa): ci si accorge che gli investimenti infrastrutturali cinesi creano dipendenze economiche sfruttabili per scopi strategici; non a caso mentre nel porto di Colombo ha sede la Marina dello Sri Lanka, Hambantota5 è isolata, priva di navi militari, e rappresenta il perfetto esempio di come i progetti infrastrutturali facciano parte di una strategia di sviluppo globale poiché integrati in una rete più estesa.

Quello che incuriosisce è che sia Colombo (che è sempre stata una carta segnata) che Pechino (che sorprende) non hanno ben inquadrato sostenibilità e gestione del debito contratto. È un gioco delicato. I più grandi progetti finanziati da Pechino hanno tre elementi comuni: utilizzano finanziamenti cinesi, appaltatori cinesi, ed i Rajapaksa; i prestiti sono tutti a tassi elevati che raggiungono il 6,3%, con contratti poco attenti ai requisiti di salvaguardia e spesso anche segretati.

Chi è il responsabile? Colombo oppure la mancata comprensione dei rischi della Belt and Road Initiative, con i suoi 115 partecipanti e fondata sugli accordi bilaterali, soprattutto quando la pandemia espone migliaia di mutuatari cinesi al pericolo di un default ad effetto domino? E se la situazione dovesse incancrenirsi al punto da non garantire alternanze istituzionali post fuga presidenziale, quale strada percorrerà Pechino per esigere i suoi rimborsi? Eppure anche quando il debito srilankése ha conciato ad apparire insostenibile, la Cina ha persistito con progetti costosi, inutili ed opachi, come il Port City di Colombo, mentre gli osservatori hanno lanciato l’allarme contro i prossimi Hambantota in Africa, nel sud-est asiatico, in Europa, lanciando di fatto dei segnali ben precisi contro pericolose forme di populismo. L’analisi economica che finanzia porto e collegamenti stradali rimane ancorata a ipotesi fumose che rallentano i lavori per il porto di Colombo, e non tengono in considerazione la riluttanza delle compagnie armatoriali a servirsi di Hambantota6.

La Cina è ora il più grande creditore estero mondiale; i crediti all'esportazione sono divenuti un potente strumento dell'arsenale economico di Pechino, che non segue le regole comuni. Mai come ora è diventato evidente che disporre dell’Indo-Pacifico non è e non sarà facile.

Mentre l’India sta valutando l’ipotesi di rilevare7 l’aeroporto di Hambantota, nei più vicini Balcani Occidentali l’UE sta pesando la situazione del Montenegro che ha accettato un insostenibile progetto autostradale, di costo pari a circa 1/5 del suo PIL, finanziato e costruito dal Dragone.

Sarebbe saggio non escludere un prossimo incremento dei progetti finanziati da Pechino ed avviati verso il crack, mentre le economie post pandemiche cercano di assestarsi. Lo Sri Lanka, che ha chiesto il greggio russo, è la dimostrazione che i progetti di Pechino8 non sostengono le economie locali ma puntano sia all’accesso alle risorse naturali sia l’apertura all’export cinese; tra l’altro la Cina spesso impone le sue imprese statali riducendo il numero di posti di lavoro locali, con prestiti non di rado erogati o in natura o sotto forma di rimborso in valuta pregiata, cosa che impone al Paese beneficiario un elevato surplus commerciale mentre le riserve valutarie si esauriscono.

Il Center for Global Development è stato chiaro: la BRI sta soffocando Mongolia, Laos, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tagikistan e Kirghizistan più il Pakistan, debitore di un collegamento da 54 miliardi di dollari tra la Cina e il porto di Gwadar.

Di fatto, a seguito del conflitto ucraino, le economie dell'Asia meridionale condividono numerose affinità, tanto che le crisi di Sri Lanka, Pakistan e Nepal portano a pensare a forme di replicazione e non di contagio; è questa dunque la prima area costretta ad affrontare problemi politico economici connessi all'aumento dei prezzi delle risorse.

Attori principali

India. New Delhi cercherà di ristabilire l’influenza nel proprio cortile; punto nodale del transito est-ovest nell’Oceano Indiano, lo Sri Lanka rimane strategico nella competizione Cina, USA e India che non può non sentirsi minacciata da un possibile insediamento militare cinese a poche miglia dalle sue coste. Non a caso l’India non solo ha offerto a Colombo 4 miliardi senza condizioni, ma ha anche appoggiato le richieste srilankési al FMI, ovvero agli Stati Uniti, cosa che ha indotto in immediata apprensione Pechino.

Stati Uniti. L’amministrazione Biden promuove una strategia9 indo-pacifica puntata alla resistenza alla pervasività cinese per consentire l’allineamento americano delle isole del Pacifico, una politica che non avrebbe dovuto trascurare lo Sri Lanka ed il suo filo di perle cinese che, ultimamente, ha avvinto anche le isole Salomone in risposta sia all’accordo AUKUS sia all’aumento delle capacità militari americane a Wake Island10.

Conclusioni. Se è vero che Colombo è al tracollo, e se è vero che la crisi è sistemica e dunque senza possibilità di soluzione per strutture internazionali che possono intervenire solo sui singoli paesi, non si può non stigmatizzare il ripiegamento americano che, specialmente con il presidente Obama, si è rivolto più all’Asia che al Pacifico, lasciando ampi spazi ad altri attori regionali interpreti di politiche o populiste o autocratiche.

Sri Lanka, India Pakistan e Bangladesh, con gli opportuni distinguo, indicano la tendenza ad un nazionalismo poco sensibile ai richiami istituzionali e motivato dalla ricerca di una stabilità che gli esponenti liberali non sono riusciti ad assicurare. Il ricorso srilankése agli aiuti vincolati del FMI mentre si trova tra l’incudine indiana ed il martello cinese, porta ad un clima di rinnovata Guerra Fredda ma con un elemento in più, ovvero l’essere la prima tessera si un domino incontrollabile, dove paesi a basso reddito affrontano 3 emergenze: pandemia, aumento del debito, incremento dei prezzi per effetto dell’invasione ucraina.

Il default srilankése non sarà l’ultimo, è solo questione di tempo; la Sovereign Debt Vulnerability Scorecard di Bloomberg evidenzia come El Salvador, Ghana, Egitto, Tunisia e Pakistan siano ad un passo dal tuffo del lemming.

1 rivendicati dal National Thowheeth Jama’ath - gruppo islamista locale affiliato all’ISIS

2 Oltre 8 miliardi di dollari per ulteriori progetti che si sommano a quello del porto

3 Difesa, Giustizia, Sviluppo Economico, Finanza ed infrastrutture

4 La decisione della Banca Centrale di svalutare la rupia, per attrarre rimesse e investimenti, ha favorito l’inflazione che si è attestata a giugno al 54.6% su base annua.

5 La costruzione di un porto ad Hambantota rientra nei piani di sviluppo già dal 2002, quando la società canadese Lavalin, appoggiata dal governo di Ottawa, completa uno studio di fattibilità respinto dal governo dello Sri Lanka. A parte il supporto ricevuto dall’impresa locale InfoConsult, che si candida per il sostegno logistico ed informatico, Hambantota è citato già dal 1952 in uno studio della Banca Mondiale del 1952, che sponsorizza un porto nella zona meridionale dell’isola, che riprende un’idea del 1910 dell’inglese Leonard Woolf. Nel 2006 la società danese Ramboll completa un secondo studio di fattibilità, secondo una visione ottimistica del potenziale economico, fondando le sue proiezioni sulla crescita dello Sri Lanka, sulle attività dei porti di Colombo, Galle e Trincomalee, che interessano a India e Giappone.

6 La Cina è ora il più grande creditore estero mondiale. I crediti all'esportazione sono diventati lo strumento economico di Pechino. Nel 2007, la Export-Import Bank of China ha concesso il suo primo prestito per Hambantota.

7 L'India ha garantito circa 3 miliardi di dollari sotto forma di linea di credito

8 Nel 2017, la Cina si è impegnata a seguire le linee guida del G20 per il finanziamento sostenibile, sia i principi del G20 per gli investimenti infrastrutturali, relativi al rispetto delle politiche della Banca mondiale e del FMI per i paesi con elevato onere debitorio.

9 Washington intende stabilire legazioni diplomatiche a Kiribati e Tonga, ripristinando i corpi di pace USA alle Fiji, Samoa, Tonga e Vanuatu ed i patti di libera associazione con Palau, Isole Marshall, Stati Federati della Micronesia

10 atollo corallino dell'oceano Pacifico settentrionale amministrato dall’aeronautica militare; potrebbe svolgere un ruolo difensivo fondamentale nell’area in caso di conflitto, visto che la Cina ha missili in grado di colpire Guam e gli Stati Uniti continentali.

Foto: Xinhua / Twitter