Sono gocce di petrolio

(di Gino Lanzara)
14/03/22

Non c’è scacchiera che con i suoi 32 pezzi non riporti alla mente strategia e conflitto; andando oltre la superficie, le simmetrie degli spostamenti difensivi ed offensivi come l’arrocco aggiungono la loro trama alle inattese asimmetrie volte a liberarsi da pericoli o intralci come la mossa del cavallo. La scacchiera ucraina non fa eccezione, e sulle sue caselle porta incise le domande più classiche: chi ha fatto cosa e, soprattutto, di chi è la colpa di una guerra in cui re e regine, apparentemente distanti, si nascondono dietro i pedoni. È inevitabile; e, badate, ritroveremo tutto.

Senza dubbio si può asserire che non esiste chi possa dire di non aver responsabilità: la guerra le regala a tutti. Oggetto di azioni cinetiche su cui il diritto internazionale bellico avrà a lungo da lavorare, nonché laboratorio d’elezione per il perfezionamento della guerra asimmetrica del modello Gerasimov, Kiev si è trovata al centro di una economic warfare, così violenta da impedire anche l’accordo tra alleati.

L’economia, unita alla guerra cognitiva nel campo dell’infosfera, sposta l’equilibrio di potenza dall’ambito militare per traslarlo a quello geoeconomico, il prediletto da Luttwak e dalla sua logica della guerra espressa con la grammatica di un commercio che il liberalismo non può calmierare. Dazi e sanzioni bloccano selettivamente gli scambi, l’analisi dei dati macroeconomici permette di prevederne l’effetto per poi colpire i migliori bersagli; la loro valenza è relativa al peso geoeconomico di chi li impone, come tutti gli strumenti bellici sono gravidi di rischi, come la perdita di quote di mercato o l’affievolimento di efficacia in presenza di un sistema di alleanze.

Lo ha insegnato Darwin: o si innova adattandosi o si muore

In questo momento l’energia scuote i mercati, con il prezzo del petrolio destinato a salire con oscillazioni che prevedono punte estreme di 200 USD al barile. Indiscutibile la gravità degli intenti americani, volti al blocco delle importazioni energetiche, le fondamentali fonti di reddito russe.

Chi è colpito davvero da queste sanzioni? Chi può permettersi di rinunciare alle risorse energetiche russe con i mercati sotto l’alea di ulteriori balzi in avanti dei costi? È credibile un soggetto politico che, minaccia di nazionalizzare i beni delle imprese che hanno abbandonato il suo territorio?

Ha preso corpo una geopolitica del petrolio condizionata da decisioni indotte dalla necessità di non concedere ulteriori quote di mercato ai concorrenti americani con il fracking e l’olio di scisto che, ante 2020, Daniel Yergin aveva già individuato quale potente leva politico economica che Washington non può permettersi il lusso di perdere. Vale la pena ricordare il problema dei forti ribassi che, non molto tempo fa, ha dovuto affrontare l’OPEC+, versione allargata del cartello economico petrolifero, con l’innesco di una guerra dei prezzi con Riyadh incapace di convincere la Russia a ridurre la produzione di greggio, secondo una logica votata ad affrontare il calo della domanda, in funzione del convincimento di Mosca che il contenimento della produzione avrebbe favorito gli statunitensi nella produzione dello shale oil. Come passa il tempo quando ci si diverte...

Ora Arabia Saudita ed EAU, chiamati ad incrementare la produzione, nemmeno rispondono alle telefonate di un presidente americano che, forse, si starà chiedendo dov’è che ha sbagliato con alleati che non avrebbe mai dovuto perdere.

Piccola nota ad italico ed ansioso beneficio sulla produzione libica: con quale dei governi apparentemente in carica bisognerà intrattenere rapporti energetici?

Torniamo agli USA in veste export ed alla esigua quota di greggio mediorientale (12%) da loro importata e rapportata alle mutate domanda ed offerta per l’Europa, un panorama complesso e non privo di sorprese. La mossa del cavallo di Washington, che lascia scoperto (novità?) l’oppositore Guaidò finora appoggiato, ha visto una delegazione d’alto livello ricevuta dal presidente venezuelano Maduro, sia per negoziare il rilascio di 9 cittadini statunitensi detenuti da Caracas, sia per approfondire le tematiche relative alla sicurezza energetica; a questa iniziativa non sono da considerarsi estranei i tentativi di liaison con l’Iran che, a Vienna, sta giocando le sue carte per il JCPOA, un accordo che può andare a buon fine solo con il ritiro delle sanzioni, e che è destinato a creare ulteriori problemi strategici nei confronti di Israele, impegnato a rafforzare con gli EAU i legami conseguenti agli Accordi di Abramo. L’eliminazione delle sanzioni a carico di Teheran, oltre a dare ossigeno ad un’economia asfittica, fa sorgere però il dubbio che la Russia, impegnata nelle negoziazioni 5+1, possa far saltare l'accordo per evitare la concorrenza. Sarebbe auspicabile che, sull’onda dell’emergenza, non si dimenticasse che l’Iran sta arricchendo uranio intorno al 60%, percentuale che sfiora gli usi militari.

Se il Qatar punta a raddoppiare la propria produzione di LNG non prima del 2027, non si deve trascurare la possibile cooperazione tra Cina e Iran sul gas naturale, che porterebbe ad un surplus di LNG iraniano. Quante chance di successo possano avere i tentativi di riavvicinamento in chiave anti russa non è facile prevederlo, viste sia le politiche ultimamente intrattenute da Maduro e Raisi verso il Cremlino, sia l’astensione di entrambi paesi nel condannare Mosca, e risoluti nell’individuare nella Nato la principale causa della crisi. È tuttavia molto probabile che sia Iran che Venezuela, alleato russo, incontreranno difficoltà nel respingere a lungo il corteggiamento americano, dato il peso economico dell’export energetico. Quale artificio dialettico impiegheranno gli americani per giustificare la nuova politica fa parte, invece, dei divertissement che, ormai da qualche anno, la politica statunitense propone, insieme con provette, pistole fumanti e punti di faglia tra USA e UE.

Il ban ora invocato dagli USA contro i prodotti petroliferi russi non potrà non tenere conto delle scarsissime quantità di idrocarburi russi consumati in America, a fronte del 41% di gas e del 25% di petrolio importati in Europa; quel che è certo è che l’attuale leadership a stelle e strisce non sembra rendersi pienamente conto di quanto sta accadendo ed accadrà sul suolo europeo, a cominciare dalla tempesta inflazionistica1 che sta già per abbattersi, con i mercati già condizionati dall’assalto al bene rifugio per eccellenza, l’oro. Ma anche questa non è purtroppo una novità, come del resto Libia docet.

Mentre l’India non ha nessuna intenzione di diversificare il paniere energetico condiviso con Mosca, la Russia si riserva il diritto di rappresaglia nei confronti del blocco tedesco di Nord Stream 2 al fine di ampliare la frattura che separa l’Eurasia dagli americani, sperando di riversare l’invenduto sui mercati asiatici, controllati da un imprevedibile Dragone, a fronte di un’Europa colpevolmente impreparata per l’ennesima volta ed alle prese con politiche superficiali e à la page.

Quanto è utile alla Cina una Russia stremata ed avviata alla stagflazione? Quale valore aggiunto può avere un Paese dall’economia scarsamente diversificata? Quanto può e vuole farsi coinvolgere ora la Cina?

La risposta è poco, il che non significa mai; tra l’altro non dovrebbe nemmeno suscitare stupore l’ipotesi, di là ovviamente da venire, di una reprise del Nord Stream, con però due condizioni; la prima riguardante l’inappagata fame europea di energia, la seconda le mutate e più favorevoli condizioni di vendita da parte di un Paese toccato duro. Il mercato azionario russo è di fatto chiuso, le spedizioni commerciali interrotte, i pagamenti in rubli delle cedole bloccati per il divieto di trasferimento di liquidità all’estero, le risorse bancarie congelate, il greggio offerto a prezzo ribassato invenduto: è il quadro di un default.

È mancato ovunque l’arrocco, è mancata la difesa, è mancata la lungimiranza del buon governo; è mancata una visione europea ad ampio spettro che prevedesse l’uso geopolitico del gas da parte russa con la sponda offerta dalla Germania al Cremlino per implementare una strategia volta a fiaccare la già debole coesione sul versante energetico dell’UE, ancora troppo distratta dalle future gelate politically and ecologically correct per considerare quelle attuali.

Per il momento le idee sono come i sogni dei topolini di Cenerentola: desideri. Il prezzo del brent, raggiungendo i valori più alti mai registrati dal 2014, potrebbe forse indurre alcuni Paesi del Golfo ad impegnarsi nel mantenimento di un difficile equilibrio, vista anche la frammentata situazione diplomatica che vede le capitali d’area non intenzionate a compromettere il mantenimento dei rapporti con Mosca, a fronte dell’arretramento americano in MO, altro flop diplomatico bipartisan di lunga data.

Privilegiare gli interessi economici rispetto alle implicazioni politiche, astenendosi dal sostenere gli USA, non significa schierarsi dalla parte del Cremlino, vuol dire solo tenere presente che gli affari sono affari, e che dare giudizi taglienti può pretendere dazio nel peggior momento possibile, visto quanto accaduto con il caso Khashoggi e con il mancato supporto nel riconoscere i ribelli Houthi come terroristi. Non rimane dunque che una celere ed imbarazzante visita riparatoria a Riyadh accettando, ob torto collo, di parlare direttamente con Mohamed Bin Salman, regista dei tentativi di diversificazione economica sauditi.

Visti i proclami che si susseguono da ogni dove, quel che è mancata è stata una ruvida e sincera previsione economico energetica con Washington, che inizia ad essere alle prese con l’ascesa dei prezzi e con un non improbabile stop del settore dei trasporti. Ma pesano le contingenze politico-elettorali: vaccini, inflazione, Afghanistan, elezioni del midterm, rapporti con la Cina, perdita del consenso, fanno sentire la loro voce. E la faranno sentire anche i Paesi a corto di greggio, con l’amministrazione Biden pronta a scaricare responsabilità sui produttori yankee di shale oil, colpevoli di non aumentare la produzione a sufficienza. Il problema è che le società non vogliono essere coinvolte, come già accaduto, in un altro ciclo boom and bust, con una fase espansiva della domanda seguita da un’altra di contrazione. In sintesi la colpa è sempre di qualcun altro, anche quando il presidente ha ordinato di fermare l’oleodotto Keystone XL2 imponendo forti limiti all’estrazione con un mercato poco fornito e con poche scorte; non a caso diversi produttori ritengono che la lenta ripresa produttiva sia da attribuire a politiche ecologico restrittive difficilmente attuabili, oltre che alla Russia.

Ma se gli USA sono i primi produttori di greggio dal 2018, non ne sono però i primi esportatori, primato ineguagliabile che spetta ad Arabia Saudita e Russia, con un mercato ristretto in quanto a domanda e offerta già prima della guerra. A questo si ricollegano (Hasta Maduro Siempre?) i tentativi di contatto con Venezuela, peraltro in forte difficoltà tecnico produttiva dopo anni di incuria, e Stati del Golfo, con sovrapproduzioni insufficienti e troppo di là da venire. Il problema risiede in buona parte proprio negli USA, dove l’iniziativa privata condiziona una volontà politica che prima ha puntato sulla transizione energetica, ed ora chiede un surplus per il quale occorrono ovvie garanzie di lungo termine che tutelino domani gli investimenti di oggi, senza peraltro assicurare tutele fiscali e dividendi.

Siamo onesti: alle attuali condizioni un cambio di passo è improponibile. Come già detto le responsabilità, ovviamente in misura diversa, sono comunque suddivise tra i diversi attori. Per quanto riguarda l’energia, si deve prendere atto che (l’Europa lo vorrebbe-lo chiederebbe) l’UE ha di fatto aperto il dossier tassonomico, relativo agli investimenti green, sull’uso dell’energia nucleare che, con il gas naturale, è considerata come un mezzo per facilitare la transizione verso un (caldo?) futuro basato sulle rinnovabili. È un fatto, come è un fatto che l’essere privi di alternative valide, a fronte di un evento ormai demodée come la guerra, sta contribuendo a portarci verso la recessione. Beninteso, neanche al Cremlino possono sbellicarsi: il collasso economico che sta per colpire il sistema russo sarà qualcosa di peggiore di quello patito nel 1998.

Cosa aspettarsi? Prezzi petroliferi sopra i 100 USD al barile, almeno fino a quando la guerra contiunuerà; per il 2022 aumento del prezzo del gas di almeno il 50%; aumento del prezzo dei metalli base3; aumento del prezzo delle materie prime agricole4; interruzione delle rotte commerciali; aumento dell’inflazione.

Inevitabile pensare che, anche nelle più materialiste e segrete stanze del potere moscovita, qualcuno stia pensando ad un cavaliere bianco che, tratti orientali o no, non importa, cavi l’orso dalla trappola in cui è andato a cacciarsi. Oh, i pedoni sarebbe il caso di risparmiarli: potrebbero tornare utili...

1 L'inflazione italiana è destinata a crescere per arrivare a giugno all'8,4% (Centro studi Unimpresa). La previsione si basa sull`inflazione con il prezzo del greggio fino a 150 dollari al barile entro giugno; col petrolio a 120 dollari il caro-vita potrebbe attestarsi al 7,5%.

2 Keystone Pipeline System, sistema di oleodotti in Canada e USA, dal 31 marzo 2020, del governo dell'Alberta.

3 alluminio, titanio, palladio e nichel

4 grano, mais, orzo