Somalia: ennesimo "bel suol d'amore" rubato ad un custode imbelle

(di Gino Lanzara)
23/10/17

La Somalia, per il nostro Paese, rimane un soggetto politico “complicato”. Già dagli albori, il ritardo nell’unificazione nazionale ed il difficoltoso sviluppo capitalistico hanno creato non poche difficoltà nel perseguimento del desiderio di ritagliarsi “un posto al sole” nell’esiguo spazio lasciato dalle Nazioni espansioniste. La costituzione di una colonia avrebbe assunto la sembianza di un atto di forza, inimmaginabile per un Paese così giovane e soprattutto così privo di significativo peso politico e diplomatico. Non è un caso che al tavolo verde dei foreign offices, ancora oggi, siano seduti in larga parte gli stessi giocatori della metà del 1800, cui si sono aggiunti progressivamente altri competitors in grado di puntare e proporsi per la spartizione della posta. Mercè i buoni (ed interessati) uffici inglesi l’Italia ebbe accesso alla Somalia, di fatto colonizzata dopo la Grande Guerra, optando per soluzioni di compromesso capaci di non urtare l’equilibrio di potenza esistente. Sia l’amministrazione del ventennio fascista che quella dell’amministrazione fiduciaria, non hanno giovato alla risoluzione della fragilità statuale Somala, vittima di carenze geografiche, culturali e storiche che hanno portato a quella che è stata definita “un’anarchica democrazia pastorale” condizionata da un’insuperabile ottica “clanica”. Il Nord, il Somaliland, di stampo anglosassone è riuscito a proporsi politicamente in modo più fattivo cosa che il Sud, di matrice Italiana, non è riuscito a fare.

La storia ha visto, alla dipartita Italiana, l’affermazione del regime di Syad Barre, cui è seguita una feroce guerra civile senza soluzione di continuità che ha portato alla frammentazione del potere, detenuto nelle mani dei warlords, ed all’esautorazione degli elders. Il fallimento dello Stato si è evidenziato nell’alternativa proposta dall’unitarietà religiosa delle “Corti Islamiche” in grado di amministrare la giustizia e provvedere alla popolazione, a fronte del costante insuccesso di decine di governi succedutisi a Mogadiscio. Il settarismo clanico si è dunque scontrato con il jiahdismo militante di al Shabaab, che punta ad una soluzione militare in grado di generare una forte destabilizzazione a vasto raggio. Non deve stupire che, in una situazione di così forte precarietà, si siano manifestati da tempo episodi di pirateria connessi anche al depauperamento delle risorse ittiche ed alla vendita delle licenze di pesca a compagnie straniere, solite peraltro operare illegalmente entro le 15 miglia dalla costa.

I principali gruppi pirata in attività si trovano nella regione del Puntland, priva di effettivo controllo da parte delle forze di sicurezza; quel che più dovrebbe indurre a riflettere riguarda il possibile collegamento tra pirati e militanti somali dello Stato Islamico, dovuto alla comune appartenenza clanica. Per la comunità internazionale la collaborazione tra queste organizzazioni non è una novità, anche se ha conosciuto attriti dovuti principalmente sia alla considerazione riservata ai pirati da parte delle Corti Islamiche, restie ad accettare come comportamento etico l’armed robbery, sia ai mancati incassi delle tasse imposte al naviglio dai salafiti, problemi ovviati, come sembra, con un patto che prevedeva la concessione di armamenti da parte di al Shabaab, più la possibilità di far sostare le navi sequestrate ai pirati con una dazione del 20% del riscatto. Quando si vuole, un entente cordiale si trova sempre.

Ma al Shabaab non è solo questo; mentre la Corea del Nord ha effettuato il suo sesto test nucleare, come attestato da una nota diplomatica indirizzata all’ambasciatore Statunitense in Somalia Schwartz, sembra sempre più certo che I Ragazzi islamici abbiano assunto il controllo delle miniere di uranio del Galmudug – area monitorata già dagli anni ’80 dall’AIEA - al fine di far arrivare significativi quantitativi di triossido di uranio all’Iran. Non a caso la Somalia ha deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Teheran, accusata di aver minacciato la sicurezza e l’unità del Paese del Corno d’Africa con documentate spedizioni di armamenti e munizioni, e soprattutto perché intenzionata ad appoggiare l’Arabia Saudita dopo gli attacchi subiti alla sua sede diplomatica in Iran e presso il Consolato di Mashad, quali ritorsioni per l’esecuzione del chierico sciita Nimr al-Nimr. Ovviamente tutto ha un prezzo, anche quando e soprattutto si tratta di fede: il sostegno ricevuto da Riyadh è stato generosamente stimato in circa 50 mln di dollari in aiuti.

L’intensificazione delle operazioni navali militari contro la pirateria ha inizialmente ricondotto a collaborare terroristi e pirati, costretti a “diversificare” le loro attività indirizzandole alla tratta di esseri umani ed al contrabbando di armi e stupefacenti, salvo poi giungere al 2017 che ha visto una nuova e decisa impennata della criminalità marittima. Quanto avvenuto ha reso evidente come la chiusura dell’Operazione NATO Ocean Shield sia stata prematura, e come la Missione Atalanta della UE rivesta un ruolo operativo di primo piano. Una delle principali conseguenze è stata quella di indurre uno dei “nuovi” giocatori, gli Stati Uniti, a riprendere le carte in mano dopo aver lasciato il tavolo da gioco somalo nel 1994, incrementando la propria presenza nell’area: il Corno d’Africa con il Golfo di Aden costituiscono una zona geopolitica il cui interesse strategico non può di certo essere trascurato sia per il controllo di un pivot fondamentale per la lotta al terrorismo, sia per la messa in sicurezza delle rotte marittime. A completamento del breve quadro non potevano mancare le asperità climatiche, come l’attuale siccità, capace di abbattere ulteriormente un’area già martoriata e socialmente depressa.

La geopolitica attrae comunque al capezzale somalo ancora tanti players: statunitensi a parte, i britannici continuano ad intessere la loro tela diplomatica e, con la new partnership for Somalia del 2017, insieme ad altri soggetti politici coinvolti, hanno stabilito un security pact teso a garantire stabilità e sicurezza grazie a profondi interventi strutturali, non da ultimo sulle FF.AA. Mrs. May, a tal proposito, non ha lesinato nell’assicurare un fattivo sostegno a garanzia di aiuti materiali e finanziari atti a sostenere la Banca Centrale Somala, gravata da notevoli debiti contratti negli anni. Del resto non è un mistero che il Regno Unito abbia fatto suoi i sopiti interessi geostrategici Italiani nel Corno d’Africa, cogliendo e mantenendo l’iniziativa in campo petrolifero - estrattivo ed imprenditoriale.

Un elemento di novità potrebbe essere rappresentato dal nuovo presidente, Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmaajo”, “Formaggio”, alimento di cui sembra fosse goloso da bambino. Forte di una notevole esperienza politica, maturata anche negli USA, e della sua cultura, Farmaajo già da Premier ha riscosso consensi sia per l’impegno profuso contro al Shabaab sia contro la corruzione, male endemico che pone la Somalia nelle ultime posizioni mondiali. Da buon outsider, nonostante l’impopolarità politica interna, ha raggiunto la vetta istituzionale grazie anche ad un accorto bilanciamento delle cariche distribuite secondo un sagace rispetto della rilevanza dei clan. Il versante “esteri” ha visto una sua apertura verso il Regno Saudita (sic!), mai così attivo sul palcoscenico internazionale, teso a creare un equilibrio con i principali competitors d’area, Etiopia e Kenya su tutti, con il secondo Paese impegnato nella realizzazione di una barriera difensiva tesa a contenere gli sconfinamenti dei gruppi terroristi somali.

Ma come si pone l’Italia a fronte della contingenza in cui versa la sua ex Colonia? E soprattutto: quali passi intendere compiere, o sta già compiendo, per tutelare i propri interessi alla stregua degli altri grandi “giocatori”?

Al di là delle trite enunciazioni di rito la liaison strategica appare problematica, condizionata dalla storia, ma erosa anche e soprattutto da una vision geopolitica carente e discontinua.

La Somalia si è già rivolta in passato all’antico mentore forte di un retaggio culturale e giuridico ancora avvertito, ma senza ricevere le dovute risposte. Come attestato anche da documentazione parlamentare, la cooperazione bilaterale preesistente al 1990, interrotta con il precipitare della situazione politica, si è inizialmente limitata ad attività emergenziali praticate da ONG e, solo successivamente all’agosto 1992, dopo prese di posizione internazionali, si è espressa con l’apertura di nuovi canali sia sul piano della mediazione politica sia su quello umanitario. Questo non ha evitato critiche al Governo Italiano visto come un sostenitore del presidente Barre, tanto da provocare un rapporto conflittuale tra le feluche italiche ed alcune delle fazioni coinvolte nella guerra civile.

L’Italia, nel decennio 1980 – 1990 ha stanziato per la cooperazione più di 1.400 mld di lire, indirizzandoli alla realizzazione di grandi infrastrutture, di investimenti produttivi concentrati, e solo per il 13% per investimenti dedicati a programmi di “institution building”. Una distribuzione così sbilanciata verso l’elemento fisico ha evidenziato un’ingestibilità tecnologica e normativa che ha condotto al naufragio di gran parte delle iniziative comunque finanziate.

La cooperazione italiana è fallita sia per evidenti difetti di programmazione e coordinamento con le iniziative internazionali e multilaterali, sia per l’aver dovuto subire la logica di interessi nazionali che nulla avevano a che fare con le necessità somale. Errori tecnici, costi lievitati, mancata preparazione di qualificato personale tecnico da dedicare, marchiani errori di valutazione, iniziative giudiziarie, hanno determinato insuccessi tali da giustificare fondati dubbi sulla validità delle iniziative italiane. Se il quadro politico ed imprenditoriale nazionale stenta ad ispirare fiducia, rimane però il versante della Difesa che, sia sul mare con Atalanta sia a terra con European Union Training Mission, tenta, sia pur in un assordante silenzio comunicativo, di ravvivare un’immagine altrimenti desolante mentre la diplomazia sul campo tenta una mission impossible cercando di dimostrare che l’Italia mai ha dimenticato la sua primigenia Colonia né mai, davvero, è andata via.

Unitamente al tentato miglioramento delle condizioni di sicurezza e di vita a Mogadiscio ed in altre località rilevanti, purtroppo tragicamente avversato dagli ultimi attentati, l’UE – in una più ampia cornice geopolitica, sta tentando di fornire consulenza strategica alle autorità somale anche per ciò che concerne gli aspetti istituzionali di intelligence. Dopo la tragica esperienza degli anni 90 l’Italia - alla guida della missione e con una presenza del Ministero della Difesa a livello Mentoring ed Advising - è tornata in Somalia per addestrare le unità somale alla lotta contro la minaccia asimmetrica di al Shabaab, trasferendo significativamente le attività addestrative dall’Uganda in loco.

In un contesto così ricco di incognite e dove non esiste una riconoscibile linea del fronte, il compito non è facile, ed il focus addestrativo è passato dal piano individuale a quello per unità, con l’intento di costituire dei reparti dell’(embrionale) Esercito Nazionale Somalo, in grado di operare su tutta l’estensione nazionale e capaci di consolidare il potere governativo sui territori liberati. Il “giocatore” Italiano tuttavia non può ignorare di essere seduto ad un tavolo dove anche altri competitors internazionali e d’area intendono imporre la propria influenza, non da ultimo la Turchia, pesantemente intervenuti sia sul menage politico - elettorale con forti dazioni in denaro, sia in termini materiali con ulteriori supporti militari ed addestrativi.

L’impegno italiano diretto sul campo da parte delle istituzioni che, in ambito nazionale, hanno mantenuto e coltivato competenze tecniche e continui rapporti con le realtà esterne, Esteri e Difesa, sta a testimoniare le potenzialità e le capacità “tattiche”; quel che manca è una vera e propria capacità “strategica” di ampio respiro di stampo britannico, scevra da sordine. In questa sorta di colpevole italica vacatio il Regno Unito ha occupato un proscenio che si riteneva naturalmente congeniale al Bel Paese; la prevalenza della politics sulle policies, tipica della Farnesina, l’assoluta carenza di visione di lungo periodo sul ruolo italiano nel mondo, non riflettere su quanto sia naïf non ritenere la cooperazione allo sviluppo uno dei più importanti strumenti di proiezione degli interessi strategici di un Paese, ha fatto sì che si sottovalutasse l’ennesima occasione.

Il Cane a sei zampe dell’ENI ha lasciato la sua prima impronta nel deserto egiziano nel 1954 rendendo la sua presenza eminentemente strategica ed in grado di confermarsi quale primo produttore internazionale del Continente Africano; probabilmente il primo a rimanere perplesso per la patria inanità sarebbe stato proprio Enrico Mattei, lucidamente orientato verso una politica capace di garantire un equilibrio in un contesto internazionale ostile e frammentato.

Al di là dell’impegno dell’EUTM, concentrato sulla consulenza e sulla costruzione di capacità a lungo termine e comprendente le aree delle operazioni, i piani, la logistica, l’amministrazione e gli affari legali, e messo peraltro a durissima prova in questi ultimi giorni, la situazione somala si somma alla caotica gestione dell’altra ex colonia libica. Mentre a Roma le divagazioni sono all’ordine del giorno, l’Italia sta definitivamente bruciando si suoi ultimi residui di influenza a favore di altre potenze, ben più determinate e consapevoli. Pur nella consapevolezza che i vertici militari di EUTM sono italiani, è fuori di dubbio che l’Italia si è posta fuori dai giochi geopolitici da troppo tempo perdendo terreno rispetto competitors aggressivi e ben preparati, come i Turchi, presenti anche sul teatro libico a supporto di Fayez al-Sarraj.

Che il Corno d’Africa sia rilevante sotto il profilo politico, economico e strategico sembra che se ne siano resi conto in molti; che l’antica Nazione colonialista fatichi ad avvedersene è praticamente certo. Il principe di Metternich, nel 1847, ebbe a scrivere, in una nota inviata al Conte Dietrichstein, che “...la parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle...”; tralasciando le valutazioni storiche e le interpretazioni contingenti che ne sono state date, forse questa potrebbe essere l’occasione migliore per dimostrare rinnovati peso politico e capacità. Se ne sarà capaci?

(foto: U.S. Navy / UK Government / Marina Militare / EUTM-Somalia / ENI / presidenza della Repubblica)