Siria e Libia: fine dei giochi

(di Gino Lanzara)
03/02/20

Nei giorni in cui una Nazione che aspira all’egemonia globale si scopre vulnerabile al suo interno, aumentando il ranking dell’inaffidabilità tecnologica e sanitaria, puntiamo nuovamente il focus su un teatro non meno rilevante, quello siriano che, per le sue collateralità, porta a ricadute che vedono anche l’Italia quale diretta interessata.

Gli incontri e le conferenze che si sono susseguiti dal momento in cui è deflagrata la crisi siriana hanno evidenziato quella che, in termini internazionalistici, può essere definita l’ennesima debacle delle teorie istituzionalistiche; congressi che, nati con il crisma del fallimento annunciato, si sono di fatto mostrati incapaci di comporre un quadro che, nonostante il tempo trascorso, ancora presenta forti elementi di criticità.

A partire dal 23 marzo 2011, giorno in cui le forze governative intervenivano a Daraa, il puzzle siriano ha vissuto continui momenti di instabilità cui le NU, in concorrenza con i vertici tenuti unilateralmente a Sochi e ad Astana in Kazakistan, la Russia, sempre più interessata a delineare un “nuovo ordine post–occidentale”, Turchia ed Iran, non sono riuscite a porre fine.

La prima asperità è proprio da ricercare nella peculiarità degli incontri tripartiti che, privi dell’imprimatur delle NU, hanno interessatamente riavvicinato soggetti politici che, all’inizio del conflitto, hanno appoggiato fazioni opposte (la Russia il regime di Assad, la Turchia i ribelli), ed in più hanno condotto al tavolo delle trattative (anche se separatamente) sia autorità governative che fazioni insorgenti più o meno moderate tranne quelle vicine a Daesh, ma senza andare oltre labili cessate il fuoco, una situazione comunque contrassegnata dalle diffidenze degli USA, con l’ONU in posizione sempre più marginale, probabilmente non inclini a favorire una sia pur fragile sopravvivenza politica del regime di Assad, e con la Turchia a sua volta poco favorevole ad agevolare una linea strategica in grado di rafforzare, in quel momento, gli outsider curdi nel nord ovest siriano ad Idlib.

Gli interessi internazionali hanno quindi ricondotto a considerare, sia pur con forti riserve e con una buona dose di appeasement, la possibilità di mantenere per Assad un ruolo politico anche dopo il conflitto, grazie anche alla presenza delle forze sciite filo iraniane di Hezbollah invise ai ribelli, ed in considerazione dell’invasiva presenza militare Turca nel Nord della Siria. In sintesi, malgrado l’opera degli intermediari ONU, ed il corollario di incontri che si sono tenuti, non è stato possibile giungere ad una pace duratura; prima Staffan de Mistura, poi Lakhdar Brahimi ed ora Geir Pedersen (foto), hanno continuato a destreggiarsi in un contesto reso peraltro ulteriormente aspro dai veti incrociati che sono stati espressi in seno al Consiglio di Sicurezza.

L’Europa, nel frattempo, privilegiando una soluzione politica piuttosto che militare, ha di volta in volta riaffermato il supporto alle attività negoziali a guida ONU, sia raccogliendo i contributi portati dagli incontri di Astana, sia intrattenendo rapporti bilaterali con gli attori regionali, ma spesso non cogliendo per tempo le evoluzioni sul campo, portatrici di mutamenti dinamicamente rapidi. Non sembra ci possano essere quindi remore nel ritenere contenuti gli obiettivi di Ginevra, con una marcata attribuzione di capacità di intervento ad Iran e Russia, a fronte degli ingenti costi di un intervento che si protrae nel tempo.

Nel 2019 l’Europa, mai così marginalizzata, ha ribadito il suo impegno per agevolare un processo politico guidato internamente dalla Siria e facilitato dall’ONU, volto a favorire la stesura di una nuova costituzione grazie ad un Comitato composto da 150 membri, graditi ad entrambe le parti, ma con l’avvertenza di non considerare il comitato stesso quale strumento risolutivo, ma piuttosto come un mezzo in grado di consentire alle parti di intraprendere un processo politico dal quale far scaturire la pace.

In un mondo perfetto tutto questo potrebbe forse portare a risultati, ma nel contesto mediorientale, sulla base di spigolose ma obiettive basi realistiche, molto probabilmente no; lo stesso Pedersen ha avvertito che “da solo, il comitato non può risolvere il conflitto, e che c’è il bisogno di "progressi tangibili" a Ginevra e di "progressi significativi” sul terreno, una linea condivisa anche dall’Italia che continua a privilegiare soluzioni politiche difficilmente perseguibili, con modalità che hanno peraltro portato a prevedibili attriti con la Turchia. Molti buoni intenti dunque, ma scarsissimi risultati pratici.

Gli attori che si sono avvicendati al capezzale siriano sono stati diversi; una delegazione di OLP e Fatah ha fatto visita alle autorità Siriane, nel tentativo di contrastare qualsiasi riconciliazione tra Hamas1 e Siria e per ribadire il dissenso al piano del secolo americano volto alla definizione dello status di Gerusalemme ed al delineamento dello stato palestinese; una visita che, peraltro, non sembra né minare le relazioni dell’autorità palestinese con Egitto ed Arabia Saudita, né l’avversione nutrita da Damasco, Riyadh ed il Cairo per le rivoluzioni arabe.

Un altro attore di peso è la Turchia, che priva di interesse per le blandizie politiche occidentali, ha già avviato i rimpatri sia dei combattenti Isis verso i Paesi d’origine sia di alcuni dei 3,6 milioni di profughi siriani ospitati da Ankara. La Turchia con la sua proattività ed il potenziale appoggio alle opposizioni contrarie ad Assad, ha guadagnato il proscenio, anche se scossa da significative dinamiche interne: l’andamento economico, gli eventi sismici cui il Paese non sembra adeguatamente preparato, la pressione fiscale, gli impegni di carattere militare, le apparenti fronde che, recentemente, hanno portato a nuove epurazioni tra i ranghi dell’AM, il problema Kurdo, gli attriti sempre più forti con la Grecia per la definizione della ZEE con la Libia di Serraj.

Mentre gli USA adottano una politica apparentemente più defilata, che non sembra attenta al contenimento iraniano ed è fortemente discutibile dal punto di vista Kurdo, Mosca punta a mantenere un ruolo di peso nell’area, con la Turchia presente sia ad ovest che ad est dell’Eufrate e con i Kurdi in apparente sintonia con Assad in funzione anti Ankara; in sintesi, un forte sommovimento in cui Turchia, Russia ed Iran puntano a definire il futuro assetto Siriano in relazione alle possibili aree d’influenza. Rimane tuttavia un equilibrio precario che potrebbe portare all’instaurazione di inedite alleanze tattiche tra Paesi una volta apertamente nemici2.

Torniamo ad Ankara; il peso della questione siriana per ciò che concerne i profughi è di particolare importanza, visto anche il risultato elettorale di Istanbul, dove proprio nel quartiere che ospita una forte percentuale di rifugiati, Fatih, sono venuti meno i consensi utili al successo dell’AKP di Erdogan. Le braccia aperte del regime non solo si sono chiuse, ma anche le opposizioni hanno trovato terreno fertile per sostenere l’espulsione dei rifugiati siriani, pesantemente presenti anche nel vicino Libano che sempre più apertamente mal li tollera. Come potranno milioni di profughi siriani tornare produttivamente nel loro Paese?

La Turchia intanto, coinvolta nella vicenda dei rimpatri forzati, punta alla creazione di una zona sicura al confine con la Siria, dove trasferire i profughi siriani. L’aggressione alla popolazione curda del Rojava potrebbe quindi essere solo uno dei passi di Erdogan che, contro i governi occidentali che avevano criticato l’invasione turca, ha usato l’arma del ricatto, minacciando di far entrare in Europa gli oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani, di cui si sono apprezzate le avanguardie che hanno alimentato l’affluenza negli hotspot delle isole greche, ed alla luce del veto di Russia e Cina sulla risoluzione che prevedeva la consegna di aiuti transfrontalieri per un anno dalla Turchia e dall'Iraq.

Erdogan, nel frattempo, secondo il Guardian, ha inviato mercenari siriani in Libia per sostenere il governo di Serraj, con la promessa della concessione del passaporto turco.

Non è possibile procedere a stime certe circa la consistenza numerica dei combattenti, tuttavia rimane la sostanzialità della politica turca che, pur a fronte della partecipazione alla conferenza di Berlino, non nutre scrupoli nel prendere decisioni che, di fatto, riversano su altri Paesi ulteriori ed incontenibili elementi di instabilità.

La Libia si sta dunque trasformando in una nuova Siria, in un nuovo hub terroristico con la Francia criticata da Le Monde per la sua ambiguità verso Haftar? Da un lato la Turchia agita le già turbolente acque regionali acuendo crisi per le quali non sembrano esserci adeguate risorse politiche, dall’altro si evidenzia un assioma che non sempre sembra comprensibile specie in Paesi dove politica e guerra vengono valutate quali attività contrapposte, e dove non si considera il fatto che al tavolo delle trattative non basta esserci fisicamente, ma è necessario palesare tutti i propri punti di forza effettiva. Purché la si possegga.

1 Hamas nel 2011 ha rifiutato di appoggiare Assad

2 Israele ed Arabia Saudita

Foto: Cremlino / UN / web / Twitter