Requiem per la terra d'Occidente

(di Gino Lanzara)
11/09/21

Il fluire della storia è costante, a prescindere da ciclicità più o meno deterministiche o da inedite forme di evoluzione; razionalmente Samuel P. Huntington ha ipotizzato che “...la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica... ma che le grandi divisioni dell'umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura... che i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”; non a caso The Clash of Civilization1, già dal 1996 aveva previsto che i conflitti post Guerra Fredda sarebbero insorti dalle diversità tra le differenti identità culturali e religiose.

Con la fine del bipolarismo, la teoria politica aveva ritenuto che la democrazia liberale e i valori Occidentali fossero l’unica alternativa ideologica valida; secondo Fukuyama, con l’allora imminente crollo sovietico, il liberalismo non avrebbe potuto che trionfare, visto che anche la Cina comunista si stava avviando verso un ordine socioeconomico liberale. Con l’evoluzione della storia verso l’universalità delle istituzioni liberali2 si arriva alla fine della storia stessa; è una tesi che affascina, che riprende, addirittura, un barlume di pensiero Hegeliano. Ma in questa eufonia che abbraccia filosofia, politica, economia, Huntington pianta il seme del dubbio: all’armonia di Fukuyama affianca le sue tesi, che portano ad intravvedere una visione crepuscolare3, una sorta di de-occidentalizzazione globale dovuta alla crescita demografica di altre civiltà – segnatamente l’islamica –, ed alla crescita economica Indo Pacifica: l'Occidente deve rassegnarsi al fatto di essere una civiltà tra le altre, priva di speciali imprimatur che le permettano di esportare coattivamente i propri valori.

Dal 1945 ci sono state sempre poche superpotenze che hanno agito in qualità di guardiani attenti alla cura degli interessi geoeconomici e geopolitici, e che sono riuscite a fermare i gruppi più pericolosi; oggi il dispendio economico e la difficile gestione politica di un ipotetico conflitto hanno reso possibile lasciare il pianeta privo di controllori e preda di forze nate a livello locale, ma che locali non sono, dotate di ampia autonomia finanziaria che, di fatto, ha dato loro la possibilità di portare i colpi inflitti al Bataclan ed a Bruxelles.

Mancando ovunque una leadership decisa, in occidente è emersa l’impreparazione di una fase politica poco volitiva, non a caso testimoniata dalle furtive lacrime del presidente americano in conferenza stampa. Certo, se gli USA piangono, l’Europa, che attraversa uno dei peggiori momenti di debolezza politico sociale della sua storia, di certo non ride, combattuta dalla difficoltà anche solo di pronunciare il termine guerra.

Posto che la storia si fonda sulla realtà oggettiva e non sulle ipotesi, se la corsa alla Casa Bianca l’avesse spuntata il meno muscolare Al Gore anziché (per un pugno di voti) George Bush, forse gli eventi avrebbero preso un’altra piega. A neanche un anno dalla sua elezione, l’11 settembre 2001, 4 aerei di linea furono dirottati e portati a schiantarsi contro le Twin Towers di Manhattan e contro il Pentagono; il quarto, probabilmente destinato alla cupola del Campidoglio in accordo con una visione romanzesca alla Tom Clancy, precipitò in Pennsylvania.

L’attacco qaedista, che dimostrò la possibilità di portare un‘offesa pari a quella patita a Pearl Harbor, provocò migliaia di vittime, le sue conseguenze geopolitiche centinaia di migliaia di più. George W. Bush abbandonò la politica isolazionista adottando una propria dottrina basata sul concetto di guerra preventiva atta a sventare potenziali minacce future simili a quelle appena subite; fu lanciata una serie di guerre mai dichiarate verso i cosiddetti stati canaglia, si individuò mediaticamente un asse del male, si determinò l’emersione di crisi internazionali in macro aree ingestibili accomunate tra loro dal collegamento più o meno diretto con gli eventi dell’11 Settembre.

Il 26 ottobre 2001, in un lasso di tempo troppo breve per discutere e approvare atti di alta rilevanza istituzionale, fu introdotto il Patriot Act, cui seguì a breve giro il Military Order, che introdusse la figura degli enemy combatants catturati sia su suolo americano che all’estero, cui associare il caso Snowden, che sarà ancora ed a lungo oggetto di valutazione di intelligence storico politica. Lo Zio Sam mise in discussione le sue stesse libertà civili, il MO implose.

Come accaduto per ogni momento storico, non sempre è facile individuare l’evento determinante il momento di transizione; senza alcun dubbio l’11 Settembre lo è stato, perché ha segnato l’inizio della fine del primato planetario statunitense, anche perché, ad essere onesti, non si riesce ad immaginare chi aspirerebbe all’intitolazione di un secolo che, in appena vent’anni, ha generosamente profuso attentati, una crisi finanziaria globale, le rivoluzioni arabe, guerre ed una pandemia.

Di fatto, l’11 settembre è finita l’era iniziata nel novembre 1989 con il crollo del Muro di Berlino, e proseguita nel 1991 con il disfacimento sovietico, ed è iniziata quella che ha visto lo spostamento del potere mondiale dall’Eurasia al Nord America, ma anche l’emergere oggettivo delle difficoltà connesse alla gestione dell’anarchia delle relazioni internazionali che hanno reso evidente come non fosse sufficiente sconfiggere la Russia per godere dei dividendi della pace.

Dal suo canto Osama bin Laden non avrebbe mai potuto immaginare né un effetto così risonante dal punto di vista delle conseguenze politiche, né la dinamica successiva degli eventi soprattutto se posta in relazione alle reazioni americane: il 7 ottobre, meno di un mese dopo gli attentati, iniziò la guerra per necessità in Afghanistan, il rifugio qaedista protetto dai Taliban, un bisogno trasformatosi col tempo in scelta ideologica che condusse Bush a chiarire che il relativo prezzo lo avrebbero pagato le libertà americane4. Oltre ad essere una tragedia, l’11 Settembre stava diventando un’opportunità: l’invasione dell’Iraq5, la guerra di scelta, altro non fu che la conseguenza di una visione imperiale utile a diffondere un modello economico-politico grazie alla forza militare.

Illuminante (ma contraddittorio in relazione all’appartenenza dem ed alla politica poi instaurata) quanto affermato da Madeleine Albright6, per cui “...imporre la democrazia con le armi è un ossimoro”. Forse Maddie aveva letto Huntington. La destabilizzazione dello stagno iraqeno con i cerchi concentrici determinati dal lancio dei ciottoli americani, aprirono in tutta la regione ad al-Qaeda spazi inimmaginabili.

La war on terror che vide paradossalmente schierate al fianco americano anche le potenze antagoniste della guerra fredda contro taliban e bin Laden, personaggi dagli americani stessi creati e messi sul copione della storia, nonché eroi della resistenza all’Armata Rossa, iniziò ad essere un rischio per lo stesso sistema americano che non comprese perché e come avrebbe dovuto destrutturare la minaccia terroristica procedendo più razionalmente alla ricerca di mandanti e fiancheggiatori.

Più che ad un declino di potenza, si è assistito al tramonto dell’unipolarismo statunitense, provocato dall’ascesa della Cina, dal parziale consolidamento europeo, dalla progressiva diminuzione dell’influenza in America Latina e dalla (lenta) ripresa della Russia putiniana.

A titolo di approfondimento, può essere utile ricordare come la leadership cinese, già nel 1999, nelle persone di Qiao Lang e Wang Xiangsui, due alti ufficiali dell’aeronautica cinese, avesse ipotizzato attività conflittuali asimmetriche accompagnate da significative conseguenze economiche; tralasciando teorie insensate, non c’è dubbio che Pechino, già da tempo, aveva cominciato a delineare scenari multilivello applicabili alle teorie relative a declino ed ascesa delle nazioni, auspicando probabilmente un indebolimento americano purché non ancora troppo pronunciato, poiché potenzialmente foriero di problematiche difficilmente affrontabili. Ancora oggi quei fatti riguardano la contemporaneità; nonostante quel che fu detto il mondo è rimasto lo stesso, anche alla luce degli altri eventi che si sono succeduti. Che ci siano state conseguenze è fuori di dubbio, ma che la loro rilevanza geopolitica sia ancora oggetto di analisi è altrettanto vero.

L’11 settembre ha inaugurato il periodo della sopravvalutazione di eventi estremizzati dai media7. La risposta americana più immediata viene indirizzata geopoliticamente contro l’Arabia Saudita8, risalita ultimamente all’onore delle cronache con la desecretazione di documenti relativi al periodo in questione, che contribuisce a svariate organizzazioni caritatevoli e che riveste quindi un ruolo indiretto finanziando anche al-Qaeda, ma che rimane tuttavia un irrinunciabile alleato regionale.

A fronte dell’ipotesi NATO di mutuo intervento, agli americani l’opzione militare non appare necessaria, tanto da respingere le proposte di aiuto, fino ad arrivare al cambio di rotta del 2003 con l’attacco contro l’Iraq, Paese antemurale tra Arabia ed Iran; un errore imperialistico, non imperiale, gravissimo che avvantaggia l’Iran ed elimina un diaframma insostituibile. Del resto, come si può anche solo pensare di invadere chi assicura i rifornimenti idrocarburici e, in più, detiene il controllo dei luoghi sacri?

Tuttavia, al-Qaeda, con il suo attacco strumentale, punta a sollecitare la risposta militare americana per pressare gli Stati arabi più moderati ed in relazione con gli USA, perché rivelino le loro ambiguità. Comincia con l’Afghanistan la fictio belli della guerra infinita al terrorismo che è elemento di tattica, non soggetto politico o ideologia.

Dopo 20 anni, Jens Stoltenberg, SG della Nato, ha dichiarato che l’Afghanistan rientra nei casi fallimentari; estremizzando si potrebbe dire lo stesso dell’Alleanza Atlantica dopo la caduta di Kabul, simbolo di un unilaterale insuccesso a stelle e strisce.

L’Afghanistan del post 11 settembre avrebbe dovuto costituire un’opportunità per ripensare un’Alleanza da adattare ad un sistema successivo alla guerra fredda con diversi obiettivi; l’impatto con la realtà si è rivelato logorante visto che la Nato si è dovuta confrontare con tre fattori innovativi: attori ibridi, spostamento del focus verso est, lunghe guerre prive di un post conflict.

I gruppi terroristi mutano forma nel tempo, ma la costellazione qaedista rimane; l’America ha inizialmente una reazione imperialistica che, successivamente, diviene imperiale, ovvero intervenendo quando si deve e non solo quando imperialisticamente si può. Anche qui, forse, peccato non aver letto per tempo Huntington. I neocon americani non sono geopolitici, e cercano di creare un vincolo innaturale che leghi l’Iraq, culturalmente avvinto all’Iran, agli USA.

L’ideologia non plasma la strategia, al limite accade il contrario: gli americani prestano un insperato assist a Teheran; nel cercare di impedire che una potenza continentale locale diventi egemone, a fronte dell’innocuità saudita, gli USA agevolano la mezzaluna sciita.

L’America si scopre stanca, riguarda ai suoi errori, comprende di non poter essere ovunque; il terrorismo decresce compensando l’ascesa cinese che finanzia le guerre yankee con l’acquisto del debito pubblico a stelle e strisce: del resto, se secondo Napoleone il nemico che sbaglia non va mai interrotto, perché disturbare Washington?

L'11 settembre, inoltre, colpisce l'economia globale in una fase già connotata da un rallentamento della crescita in atto fin dal termine del 2000. Fra le categorie più penalizzate rientrano l'industria assicurativa, il turismo e le compagnie aeree; per quanto riguarda le aziende emergono rapidamente passati errori di gestione e debolezze intrinseche; è dunque possibile che non pochi, tra politici ed imprese, tentino di sfruttare gli attacchi per realizzare mai troppo desiderati provvedimenti di razionalizzazione.

Per gli americani è arrivato il momento di tornare ad occuparsi delle minacce dirette, ovvero la competizione asimmetrica con la Cina. Mentre l’ascesa di Pechino scuote gli USA, l’uso dell’ISIS in funzione anti iraniana ed anti radicale sunnita, permette di negoziare il JCPOA con l’Iran, ma nel momento in cui l’Isis cessa di esistere, termina la tregua sul nucleare che va nuovamente trattata.

Vediamo ora la vicenda dal punto di vista orientale di Huntington; l'impressione suscitata da al-Qaeda ha creato l’immagine di una forza islamica emergente, capace di esercitare un'influenza incontrollabile sui suoi sostenitori. Per i comandanti qaedisti il successo dell’attacco ha costituito la prova che il concetto di jihad sta mutando le coscienze, e sta instillando la convinzione della possibilità di infliggere enormi perdite con un unico strike, strategia maturata e perseguita nel decennio successivo alle Twin Towers con attentati suicidi, guerra psicologica, jihad economica9, ambizioni di terrorismo non convenzionale10. Se si considera che tutti gli attacchi portati in Occidente dopo l'11 settembre sono stati in larga parte condotti da autoctoni, si è determinata la necessità di formulare politiche adeguate nei confronti dei musulmani residenti, politiche che hanno sollevato non pochi problemi etici, morali, sociali, costituzionali.

L’eliminazione di Bin Laden ha costituito il culmine della campagna antiterroristica, aspetto questo valorizzato tardivamente dal presidente dem Biden all’atto del mirabilmente caotico ritiro da Kabul; dal punto di vista qaedista si è trattato di un evento basilare, che ha innescato valutazioni, analisi e critiche circa le reali e perduranti capacità offensive dell’organizzazione. La campagna elettorale dem USA del 2012, se da un lato ha potuto asserire di aver assestato un colpo mortale al qaedismo, dall’altro ha dovuto prendere atto delle tragiche conseguenze dell'attacco alla legazione statunitense a Bengasi l'11 settembre 2012, in cui fu ucciso l'ambasciatore J. Christopher Stevens.

Ma è la politica a farla ancora da padrona, anche se non sempre così capace. Il successo mediatico riscosso dal presidente Obama nel 2009 con la sua prolusione all’Università del Cairo, non è seguito dai fatti: le successive primavere arabe portano ad instabilità regionale ed al crollo di diversi regimi identificati da al-Qaeda come infedeli, tanto da farli rivendicare da parte dell’organizzazione come un proprio successo, cui far seguire una sorta di mobilitazione popolare permanente (sotto slogan liberali) a la Trockij fino al rovesciamento di tutti i regimi corrotti. Ne sarebbe stato certamente felice Sayyid Qutb, profondo credente, intellettuale e nazionalista egiziano, capo dei Fratelli Musulmani, per questo imprigionato e poi giustiziato da Nasser.

Il ritorno di esecutivi pragmatici e non orientati verso ispirazioni dettate dalla Fratellanza Islamica come in Egitto, marca l’ennesimo fallimento della politica americana. Alla scomparsa di Bin Laden, propugnatore della guerra contro l’Occidente, secondo un’organizzazione chiara ed ordinata, succede al-Zawahiri, ideatore della nozione di jihad interna, privo del carisma guerriero di Bin Laden ma dotato di ampie capacità di strutturazione ideologica; come scrive Lawrence Wright ne Le altissime Torri “... la Fede è più forte delle armi e delle nazioni, e il biglietto d’ingresso nella zona sacra in cui avvengono i miracoli è l’essere pronti a morire.”; che poi la superficialità dei servizi segreti statunitensi sia stata senza alcun dubbio determinante, è solo un ulteriore elemento che connota un egemone evidentemente ancora immaturo dal punto di vista del sistema politico internazionale in trasformazione.

Dal momento degli attacchi al-Qaeda e poi Isis hanno conseguito notevoli successi: sono riusciti ad aprire tre fronti con gli USA (interno, Afghanistan, Iraq); hanno acuito i contrasti tra Islam e Occidente; hanno dato nuova linfa al conflitto israelo-palestinese; hanno incrinato l’unità occidentale; hanno fatto ulteriori proseliti sfuggendo alla caccia scatenata su di loro. Gli USA, dal momento delle stragi, quale lesson learned, hanno imparato sulla pelle del loro popolo, che l’America non è più al sicuro, soprattutto di fronte ad un nemico quasi incurante della sicura rappresaglia.

Da parte americana, rimane forte la sensazione che la lotta al terrorismo, iniziata l’11 settembre e terminata con l’eliminazione di Bin Laden, altro non sia stato che tempo perduto tra Baghdad e Kabul, crogiolandosi nell’illusione che tutti, prima o poi, avrebbero seguito Washington sulla via di una democrazia esportata e consegnata a domicilio dalla clintoniana nazione indispensabile. L’America, di fatto, si è trovata sola, e non in grado di cogliere il senso del quesito posto da Henry Kissinger: Does America Need a Foreign Policy? E l’ex Segretario di Stato aggiunge: “la preminenza del paese corre il serio rischio di diventare irrilevante rispetto a molte delle correnti che attraversano e trasformano l’ordine mondiale. La scena internazionale esibisce una strana mescolanza di rispetto e di sottomissione nei confronti del potere americano, accompagnati da occasionale esasperazione per le sue ricette e confusione circa i suoi obiettivi di lungo termine.”

A sostegno del pensiero di Kissinger, visto quanto accaduto tra Iraq e Afghanistan, si potrebbe ritenere che molti policy maker americani non avessero né cultura né conoscenza idonee a comprendere la minaccia jihadista; sta di fatto che il ricordo della guerra più lunga, sta sfumando in un lento ed altrettanto lungo requiem per l’occidente.

1 espressione comparsa all’interno di un articolo del 1991 dell’orientalista britannico Bernard Lewis, pubblicato su The Atlantic Monthly ed intitolato The Roots of Muslim Rage; in forma di teoria ha visto la luce nel 1993 su Foreign Affair quale risposta a The End of History and the Last Man del 1992 a cura di Francis Fukyama

2 governo rappresentativo, libero mercato e consumismo capitalista

3 Vd. Oswald Spengler, Il Tramonto dell’Occidente

4 La nascita del dipartimento della Homeland Secutiry avrebbe garantito al sistema la forza di un ministero.

5 Votarono a favore anche Joe Biden e Hillary Clinton

6 segretaria di Stato della seconda amministrazione Clinton.

7 Vd. Stato Islamico

8 15 attentatori su 19 avevano passaporto saudita

9 Attacchi a centri 'industriali, a commercio ed energia, ed esaurendo le forze armate nemiche attraverso guerre in molte arene diverse e lontane.

10 Al Qaeda ha implementato un unico progetto per la produzione di spore di antrace, che era direttamente supervisionato prima da Ayman al-Zawahiri e poi da Khaled Sheikh Muhammad. Non sono da escludere tentativi di implementazione delle capacità offensive nel cyberspazio