Nel nome dei padri

(di Andrea Gaspardo)
15/09/21

L'11 settembre del 2001, il mondo è cambiato per sempre. Tuttavia in questi giorni nei quali la comunità internazionale è impegnata da un lato a commemorale “l'Evento” ed allo stesso tempo a constatare il fallimento senza possibilità d'appello di 20 anni di avventura militare americana ed occidentale nelle lande dell'Afghanistan, è bene ricordare anche le vite ed i destini di due uomini che hanno segnato la Storia di questo martoriato paese e i cui fantasmi aleggiano ancora oggi sopra i cieli dell'Asia Centrale dato che, sono oggi i loro figli ad aver raccolto il fardello delle loro rispettive e contrastanti “missioni storiche”; per chi non l'avesse capito, sto parlando del leader della Resistenza, il generale Ahmad Shah Massoud, e del fondatore e primo capo dei Talebani, il mullah Mohammed Omar Mujahid.

Nato nella cittadina di Bazarak, nella Valle del Panjshir, il 2 settembre del 1953, Ahmad Shah apparteneva alla minoranza tagika dell'Afghanistan.

Nel corso della Storia afghana, i tagiki, così come i membri delle altre minoranze presenti nel territorio (uzbeki, turkmeni, hazara, nuristani, ecc...) si sono sempre trovati in una posizione subalterna rispetto ai maggioritari pashtun (storicamente chiamati anche “afghani”, da cui il nome del paese); ciò nonostante, essi hanno svolto un ruolo parimenti importante nelle vicende che hanno portato alla creazione del paese.

Figlio di un colonnello del Esercito Reale Afghano, Ahmad Shah si trasferì a Kabul ancora bambino e lì poté frequentare il prestigiosissimo Lycée Esteqlal, la scuola francese che assieme alla tedesca Amani-Oberrealschule ed alla afghano-persiana Habibia, ha storicamente formato l'élite del paese.

Fluente in 5 lingue (Dari, Pashto, Urdu e Francese) egli frequentò poi con profitto il corso di ingegneria all'Università di Kabul, luogo di formazione superiore ma anche campo di battaglia tra le diverse fazioni di intellettuali (comunisti, occidentalisti, islamisti) che si sfidavano per determinare quale futuro politico avrebbe avuto il paese. A quel tempo il giovane e talentuoso ingegnere scelse gli islamisti ed aderì alla branca giovanile del partito politico Jamayat-E-Islami (la Società Islamica) fondata dal professore di teologia Burhanuddin Rabbani, anch'egli protagonista di primo piano delle successive vicende politiche e storiche afghane.

Nel 1975 l'allora ventiduenne Ahmad Shah ebbe il suo “battesimo del fuoco” quando, assieme ad altri membri della Jamayat-E-Islami, guidò un'insurrezione nella sua nativa Valle del Panjshir volta a contrastare il processo di radicali riforme inaugurate due anni prima nel paese dal presidente Mohammed Daoud Khan. Tuttavia l'insurrezione si dimostrò un fiasco totale perché, da un lato i panjshiri rigettarono completamente la chiamata alle armi di questi “avventurieri improvvisati”, dall'altro Daoud Khan fece intervenire velocemente e vigorosamente le forze per operazioni speciali dell'Esercito Afghano, in particolare l'unità Commando 444 che diede una spietata caccia ai ribelli fino quasi alla loro “estinzione”.

Datosi alla macchia, Ahmed Shah tentò nuovamente di accendere la miccia della rivolta nel Panjshir nel 1978, dopo la presa del potere da parte dei comunisti e l'inizio della Guerra in Afghanistan vera e propria, tuttavia anche questo secondo tentativo andò incontro ad un insuccesso.

La fortuna arrise finalmente al giovane leone all'indomani dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Come reazione di fronte alla presa di controllo del loro paese da parte di una forza straniera, gli afghani di tutte le etnie e le sensibilità politiche (con l'esclusione dei comunisti) si ribellarono in massa trascinando le forze di Mosca e Kabul in una logorante guerra di guerriglia. Profittando della situazione, il capo tagiko riuscì finalmente a prendere in controllo del Panjshir trasformandolo nella sua roccaforte ed iniziando a lavorare alacremente per espandere la sua forza di guerriglieri che, nonostante le inevitabili e crescenti perdite sarebbe passata da 1000 uomini scarsamente equipaggiati nel 1980 a ben 13.000 combattenti addestrati ed equipaggiati nel 1989. Nacque così la leggenda di Ahmad Shah “Massoud”, il “Leone del Panjshir”.

Nel periodo compreso tra l'aprile del 1980 ed il giugno del 1985, i sovietici e i loro alleati afghani portarono a termine ben 9 grandi offensive (denominate da Panjshir I a Panjshir IX) oltre ad un numero ancora maggiore di operazioni minori atte a prendere il controllo della strategica valle, distruggere le forze della guerriglia e catturare o uccidere l'elusivo comandante dell'opposizione. Nonostante in più di un'occasione le forze nemiche riuscissero a fare breccia attraverso le sue difese e occupassero il fondo della valle, Massoud rispose sempre secondo i dettami della guerra asimmetrica imparati dai manuali scritti da Mao Tse-tung ed Ernesto “Che” Guevara ed adattati alla particolare situazione afghana, ritirando i suoi uomini sulle montagne per poi ridiscendere a valle in un secondo momento tagliando le linee di rifornimento delle forze comuniste che quindi erano obbligate a battere nuovamente in ritirata.

Al di là della sua valenza come capo militare, Massoud si dimostrò una risorsa preziosa per la Resistenza afghana anche grazie alle sue doti di politico e di comunicatore, sia nei confronti della popolazione afghana stessa che dell'opinione pubblica internazionale contribuendo alla creazione del mito della “resistenza di un piccolo popolo fiero ed indipendente contro la forza dell'oppressione comunista”.

Non bisogna affetto credere però che il percorso militare di Massoud nel corso della Guerra Sovietica in Afghanistan sia stato una strada in discesa perché, al di là delle inevitabili perdite e dei rovesci tattici, le forze del Panjshir dovettero fare i conti anche con la penuria di aiuti da parte degli sponsor internazionali. La cosa potrebbe fare arricciare le sopracciglia a più di qualcuno, ma è necessario ricordare ai lettori più distratti che, sebbene i Mujahiddeen afghani ricevessero ingenti quantitativi di aiuti economici, umanitari e militari letteralmente da mezzo mondo attraverso la cosiddetta “Operazione Ciclone”, tale “linfa vitale” arrivava a loro esclusivamente per tramite del Pakistan, in particolare della più potente delle sue agenzie d'intelligence, l'ISI (Inter-Services Intelligence) che si adoperò alacremente per canalizzare tali aiuti verso i gruppi della Resistenza afghana che potessero essere più facilmente manipolati ad uso e consumo degli obiettivi di politica estera di lungo periodo del “Paese dei Puri”, ed essendo sempre stato Ahmed Shah Massoud considerato troppo indipendente, la sua forza di gueriglia ricevette sempre un quantitativo di aiuti insufficiente rispetto alle sue reali necessità.

Qui è giunto il momento di introdurre l'altro protagonista della nostra narrazione perché, oltre a segnare l'ascesa della stella di Ahmad Shah Massoud, la Guerra Sovietica in Afghanistan rappresentò anche il palcoscenico nel quale mosse i primi passi anche colui che divenne il fondatore ed il primo leader dei Talebani, il mullah Mohammed Omar Mujahid.

Contrariamente al caso di Massoud, la gioventù del mullah Omar non è ben documentata ed in parte affonda nella leggenda. Secondo la biografia ufficiale divulgata dai Talebani solo nell'aprile del 2015 (due anni dopo la morte del loro leader), Mohammed Omar nacque nel 1960 (7 anni dopo Massoud) nel villaggio di Chah-i-Immat, nel distretto di Khakrez situato nella provincia di Kandahar, quindi nel cuore del “Pashtunistan” profondo.

L'educazione che Omar ricevette fu lontana anni luce da quella élitaria della quale poté godere Massoud nella capitale e si svolse unicamente all'interno delle madrasse (scuole coraniche) della sua area di provenienza fino al 1979, quando l'aitante diciannovenne si spostò in Pakistan per sfuggire alla repressione che i comunisti avevano scatenato nel paese per studiare alla prestigiosa Jamia Uloom-e-Islamia di Karachi, da sempre uno dei templi mondiali dell'Islam Sunnita più ortodosso e culla del “Movimento Deobandi” che, nel corso del tempo, ha posto le basi filosofico-politico-religioso-giuridiche per la nascita di “pestilenze” quali: il Wahhabismo, i Talebani, l'ISIS e altri ancora.

Nel 1982 Omar tornò in Afghanistan per unirsi alle fila dei Mujahiddeen e partecipare ai combattimenti per i successivi 5 anni, venendo ferito almeno quattro volte, fino alla battaglia di Arghandab, una delle più importanti di tutto il conflitto, nel corso della quale migliaia di combattenti afghani opposero un'accanita resistenza, questa volta in maniera convenzionale e non asimmetrica, per oltre un mese allo strapotere delle forze sovietiche e dei loro alleati comunisti afghani. Nel corso della battaglia, un proiettile d'artiglieria colpì in pieno la posizione presidiata da Omar, uccidendo gran parte dei suoi “commilitoni” ed inondandolo di schegge che, tra le altre cose, gli causarono la perdita totale dell'occhio destro che rimase sfracellato.

Nonostante le gravi ferite e la perenne menomazione, Omar venne trasportato nuovamente in Pakistan e non tornò più in Afghanistan fino al 1994 dedicando invece gli anni successivi alla riabilitazione fisica, alla continuazione degli studi coranici, ad imparare la lingua araba e a porre le basi per la creazione del suo “Movimento degli Studenti Coranici”, meglio noti come Talebani, sempre agendo sotto l'ala protettrice dell'ISI pakistano.

Viceversa, nella zona nord-occidentale del paese Massoud continuò a rimanere attivo e, negli anni successivi svolse un ruolo fondamentale nell'obbligare i sovietici al ritiro dal paese (1989), nel provocare la caduta del regime comunista afghano (1992), e nella successiva guerra civile esplosa tra le varie fazioni dei Mujahiddeen vittoriosi.

Nel 1996 la Guerra Civile Afghana aveva ormai raggiunto il suo apice, con Massoud che, in qualità di Ministro della Difesa dello “Stato Islamico dell'Afghansitan”, avente come suo presidente il suo vecchio professore, Burhanuddin Rabbani, aveva difeso Kabul dagli assalti delle milizie di Gulbuddin Hekmatyar, Abdul Rashid Dostum ed altri signori della guerra al prezzo però di aver trasformato la capitale in un campo di battaglia che aveva reclamato le vite di non meno di 60.000 civili.

Fu in quel momento che le vite del “Leone del Panjshir” e del “mullah di Kandahar” entrarono irrimediabilmente in rotta di collisione. Due anni prima infatti, i Talebani avevano iniziato ad infiltrare pesantemente l'Afghanistan a partire dal vicino Pakistan.

La loro prima “vittima” fu la città di Kandahar (o per meglio dire, “ciò che ne restava”) da sempre cuore pulsante delle terre dei Pashtun e ivi, dopo la sua caduta, proclamarono la nascita dell'Emirato Islamico dell'Afghanistan con Mohammed Omar ricoprente la carica di “mullah supremo” di quella che, a tutti gli effetti era una sorta di teocrazia monarchico/oligarchico/tribale.

Dopo una serie di fulminee offensive che li portarono ad occupare gran parte dell'Afghanistan meridionale, centrale ed occidentale, le forze degli “Studenti Coranici” investirono in pieno Kabul, ancora una volta strenuamente difesa da Massoud.

Nel settembre del 1996, a conclusione di una delle battaglie urbane più lunghe della Storia contemporanea (1 anno e 7 mesi di combattimenti praticamente ininterrotti) i Talebani riuscirono infine a sloggiare i loro nemici dalla capitale.

Con un'abile ritirata strategica, Massoud riuscì a portare in salvo le sue forze in quel 20% del territorio nazionale afghano ancora nelle mani del governo ufficiale del paese, rallentando l'avanzata talebana facendo saltare in aria lo strategico “Tunnel di Salang” e bloccando l'avanzata delle forze talebane all'imboccatura della Valle del Panjshir.

Nei successivi 5 anni, l'elusivo comandante tagiko continuò ad opporsi ai Talebani guidando una composita alleanza di forze denominata “Fronte Nazionale Islamico Unito per la Salvezza dell'Afghanistan” (anche nota come “Alleanza del Nord”) composta principalmente da membri delle minoranze etniche del paese e da quelle tribù pashtun che si opponevano ideologicamente ai Talebani.

Sebbene l'Alleanza del Nord controllasse solamente il 20% del territorio ed il 30% della popolazione dell'Afghanistan, questo fu comunque sufficiente ad impedire ai Talebani ed ai loro alleati pakistani e jihadisti di al-Qaeda di riuscire a giungere ad una vittoria totale tale da trasformare il paese in un vero e proprio “buco nero” della politica mondiale.

Lo stesso Massoud non cessò mai, nel corso di quegli anni, di denunciare tanto la deriva estremista dei Talebani quanto la presenza sempre più invasiva di al-Qaeda sul suolo afghano e le azioni destabilizzanti che lo “sceicco del terrore” saudita Osama bin Mohammed bin Awad bin Laden stava progettando di compiere in diverse parti del mondo; avvertimenti che, uno dopo l'altro si sono tutti tramutati in realtà. Invero, Massoud era diventato a tal punto una spina nel fianco per l'alleanza talebano-pakistano-qaedista che la sua eliminazione divenne una priorità per la leadership nemica, in particolare per Osama bin Laden, che si incaricò personalmente di liquidare il “Leone del Panjshir” (cosa che avvenne puntualmente il 9 di settembre del 2001) mediante l'azione di un commando suicida costituito a terroristi della sua organizzazione che si erano infiltrati nell'area libera dell'Afghanistan travestiti da giornalisti con il pretesto di intervistate il leader tagiko.

Molto astutamente, bin Laden e l'alto comando della sua organizzazione non informarono nemmeno i loro alleati del piano che stava per essere messo in atto dato che, giustamente, temevano che presso la leadership dei Talebani vi fossero degli elementi ostili che segretamente erano in combutta con Massoud e gli altri leader della Resistenza. Ecco perché, quando l'attentato terroristico venne portato a termine, il risultato finale scioccò i Talebani almeno tanto quanto l'opinione pubblica mondiale. Ma tale shock fu di breve durata dato che, due giorni dopo, venne letteralmente eclissato dagli eventi dell'11 settembre.

Quella che, per Osama bin Laden e per il mullah Omar avrebbe dovuto essere una vittoria decisiva fu invece un successo effimero perché gli eventi successivi portarono gli Stati Uniti d'America e dei loro partner della Coalizione Internazionale ad intervenire direttamente in Afghanistan, sradicando in un solo colpo tanto il regime talebano quanto le basi di al-Qaeda. Per l'occasione, le forze dell'Alleanza del Nord, pur orfane di Massoud, svolsero un ruolo fondamentale per garantire la vittoria finale della Coalizione, fungendone da “fanteria” ed “occhi sul terreno”.

Nonostante la fine del suo regime, Omar riuscì comunque a salvarsi, assieme a buona parte della leadership dei Talebani, e a riparare in Pakistan. Qui si rimise alacremente al lavoro per riorganizzare il suo movimento e preparare il “contrattacco”. Tuttavia egli non riuscì più a tornare al potere dato che, il 23 di aprile del 2013 anch'egli morì, ma non in occasione di un evento eclatante come era avvenuto per il suo rivale Massoud, bensì stroncato dalla tubercolosi.

Con le morti del generale Ahmad Shah Massoud, nel 2001, e del mullah Mohammed Omar Mujahid, nel 2013, scomparvero i due uomini che più di tutti gli altri, avevano retto le sorti dell'Afghanistan nel corso degli anni '90 del XX secolo (e nel caso di Massoud, anche negli anni '80). Tuttavia, la dipartita dei “duellanti” non ha affatto pacificato l'Afghanistan che tutt'oggi fatica a tornare ad una parvenza di normalità. In molti pensavano infatti che, con la nuova presa del potere da parte dei Talebani, nell'agosto 2021, a seguito del collasso del governo e delle strutture statuali della Repubblica Islamica dell'Afghanistan ed alla fuga dei contingenti militari degli Stati Uniti e dei loro alleati a coronamento di una inutile guerra durata 20 anni, ogni resistenza si sarebbe spenta e gli “Studenti Coranici” avrebbero infine imposto il loro volere alla società afghana tutta, ormai sfiancata da oltre 43 anni di ininterrotte guerre. E invece proprio nella Valle del Panjshir, le forze locali, coadiuvate dai resti delle Forze Armate e di Sicurezza Afghane, hanno dato vita al Fronte Nazionale di Resistenza dell'Afghanistan, anche noto come “la Seconda Resistenza” (in memoria della “Prima Resistenza” che si era opposta ai Talebani nel corso degli anni '90) e colonna portante di tale movimento è nientepopodimeno che Ahmad Massoud, unico figlio maschio e più anziano dei figli di Ahmad Shah Massoud.

Quando, nel 2001, gli attentatori di al-Qaeda ghermirono la vita di suo padre, il piccolo Ahmad aveva solo 12 anni; tuttavia già allora fu lui a pronunciare l'orazione funebre del defunto padre-eroe, raccogliendone simbolicamente l'eredità che divenne poi effettiva nel settembre del 2019 quando, di ritorno dai suoi studi militari in Francia e Regno Unito, venne acclamato leader delle forze dei panjshiri.

Nella sua missione, il “Giovane Leone” non è solo, potendo avvalesi di uomini esperti come gli zii Ahmad Zia Massoud e Ahmad Wali Massoud, i generali Bismillah Khan Mohammadi e Mohammad Yasin Zia e, soprattutto, l'ex-ministro degli Affari Interni ed ex-vice presidente Amrullah Saleh, tutto veterani dei conflitti affrontati da suo padre, nonché uomini di punta nel sistema politico e militare dell'ormai ex-Repubblica Islamica dell'Afghanistan. Ciò nonostante, visto i legami che è riuscito a costruire con il tempo in Occidente, il fatto di essere l'erede designato di una “leggenda” ed avendo sotto il suo comando le forze più numerose tra quelle che si oppongono ai Talebani, non c'è alcun dubbio che sarà proprio il trentaduenne Ahmad a diventare il “volto” della nuova Resistenza ai Talebani.

Per un ancora più interessante scherzo del destino, il principale “nemico” del giovane Ahmad Massoud sul fronte opposto, tra le file della dirigenza dei “nuovi” Talebani, è anch'egli un “figlio d'arte”: Mohammad Yaqoob, il più anziano dei figli del defunto mullah Mohammed Omar Mujahid.

Oggi trentunenne, Yaqoob ha ricevuto un'educazione religiosa come il padre e fin da piccolo è stato coinvolto nelle attività militari dei Talebani fino a diventarne un importante comandante sul campo. Nel nuovo governo talebano che si appresta ora a guidare l'Afghanistan, Yaqoob occupa la posizione di ministro della Difesa e, assieme a Sirajuddin Haqqani, si candida a diventare il vero “uomo forte” del regime degli “Studenti Coranici”.

Che cosa il futuro abbia in serbo per l'Afghanistan, nessuno può dirlo oggi con certezza; tuttavia coloro che, come me, credono che “il senso della Storia stia in coloro che la fanno”, non potranno che condividere la citazione attribuita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che: “Gli uomini passano, le idee restano. E restano le loro tensioni morali, che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.

Sulle gambe dei giovani Ahmad Massoud e Mohammad Yaqoob continuano oggi a camminare le opposte idee e le tensioni morali non solo dei loro illustri predecessori, ma di un intero paese che da decenni si dibatte nel mare della Storia per trovare finalmente la pace e la propria via futura.

Per i fedeli musulmani, tutto questo “era scritto”, per tutti gli altri invece è semplicemente “l'ironia del destino”. In ogni caso, destino o no, c'è da scommettere che i due “epigoni” continueranno a combattere ancora ed ancora nei prossimi anni, sempre nel nome dei padri, fino a che il campo di battaglia e la Storia decreteranno una volta per tutte: “quo vadis Afghanistan?”