L’Africa continua a rivestire un ruolo di sensibile importanza geopolitica, malgrado un palpabile disinteresse nazionale; spostiamo dunque il focus sul Mali, a torto considerato marginalmente da main stream poco interessati all’ennesima transizione istituzionale africana.
Dopo circa 8 anni dalla destituzione del presidente Tourè ad opera del colonnello Sanogo, il 18 agosto scorso, i reparti di stanza a Kati, a 15 chilometri a nord della Capitale, al comando dei colonnelli Malick Diaw (25 anni) e Sadiou Camara, hanno marciato verso Bamako, assumendo il controllo di sedi e funzioni istituzionali, procedendo all’arresto di diverse personalità politiche, tra cui il presidente Keïta, e sospendendo le attività esecutive e parlamentari, con la promessa di indire nuove elezioni generali nel minor tempo possibile, auspicando la formazione di un esecutivo civile di transizione; i militari hanno inoltre espresso l’intento di voler rispettare gli impegni internazionali assunti dal Paese, tutelando l’incolumità dei cittadini e dei contingenti esteri presenti sul territorio nazionale, conformandosi a quanto stabilito dagli Accordi di Algeri in tema di gestione dei rapporti con i Tuareg del Nord.
L’ammutinamento di Kati, oltre l’ovvio appoggio dell’establishment militare, ha goduto dell’ampio supporto popolare, una miscela sociale e politica che non concede molte ipotesi per un futuro realmente democratico, e che ha costretto il presidente Keïta, sempre più contestato nell’ultimo periodo del suo mandato, a rassegnare le dimissioni, sia a fronte dei maldestri tentativi di placare la piazza, sia per le vicende che hanno visto protagonista il leader dell’opposizione Soumaila Cissé, mai riuscito a coagulare le diverse anime politiche contrarie a Keïta, e che è scomparso a marzo durante una campagna elettorale seguita da elezioni quanto mai discusse.
Le vicende politiche maliane sono dunque sempre state caratterizzate da trame particolarmente fitte e complesse; mentre nel 2013 divampava il conflitto tra il governo e la comunità Tuareg, rapidamente volto in insorgenza di marca qaedista, Keïta (nella foto, a sinistra), forte delle promesse elettorali di riconciliazione tra le etnie tribali, incassava il sostegno dell’ex dominus francese, che auspicava tuttavia il risanamento economico; il lastricato delle buone intenzioni, tuttavia, non ha trovato riscontro con la realtà: il jihadismo ha rafforzato la sua radicalizzazione, estendendosi dalle comunità tuareg a quelle fulani1, con un marcato deterioramento finanziario aggravato dalle misure anti COVID che hanno colpito le fasce sociali più esposte, quelle dedite all’agricoltura, unitamente alle accuse di personalizzazione del potere, seguito da sospetti di corruttela, violazione dei diritti umani, brogli elettorali. Non deve quindi stupire che le contestazioni popolari abbiano preso il via poco dopo lo svolgimento delle elezioni del marzo scorso, dando la possibilità all’imam salafita Mamadou Dicko – a capo del Movimento 5 Giugno e latore di vedute conservatrici ed anti occidentali – di unire le frange più estremiste, di far udire la propria voce malgrado l’opinabile radice ideologica, e nonostante sia il sostenitore di dialogo e cooptazione con/di jihadisti e ribelli tuareg in un ambito istituzionale dove, per i colonialisti francesi, non c’è più spazio. È dunque evidente che non sarà possibile eludere l’influenza che, oltre Dicko, eserciteranno altri personaggi presenti nel panorama politico maliano, ancorché privi di un’investitura istituzionale, un ascendente politico direttamente collegato alla fluidità della situazione jihadista nel Sahel.
Nonostante i francesi abbiano ucciso l’emiro Abdelmalek Droukdel2, leader della vecchia guardia quaedista e seguace di al Zarkawi nella città maliana di Talhandak, non si è determinata né una variazione degli equilibri né un effettivo indebolimento dei gruppi insorgenti che operano in una regione caratterizzata dall’assenza di efficaci apparati statali.
In sintesi, a fronte del successo dell’azione militare e di intelligence, la resilienza jihadista ha mostrato di richiedere strategie che vadano oltre la neutralizzazione dei singoli leader, e che privilegino la componente politica dei rapporti tra le parti, anche perché infiltrandosi nei gangli sociali il jihadismo riesce a far propri i punti di frattura che poi riunisce in più ampi ed articolati fronti sovversivi; il Mali, quale centro nevralgico insieme con gli altri Paesi interessati dalle infiltrazioni jihadiste, dovrà preoccuparsi sia dei successori di Droukdel, impegnati in una nuova modellazione del balance of power regionale, visto che il conflitto si sta spostando a sud dell’Algeria con forze precedentemente addestrate nel teatro libico, sia degli altri attori regionali non statuali.
Le figure ora dominanti il Sahel jihadista sono il Tuareg Iyad ag Ghali3 ed Amadou Koufa4 subordinato al primo, ambedue appartenenti ad Al Qaeda e con cui Keïta ha tentato invano di instaurare un dialogo, ed Adnan Abou Walid Sahraoui5 per Isis, una distinzione di line operativa seguita alla crisi maliana del 2012, in cui ha giocato un ruolo rilevante il depotenziamento della componente arabo algerina, ed in cui i Tuareg del Nord, beneficiati dall’afflusso di armi libiche, hanno sconfitto l’esercito maliano dichiarando l’indipendenza dell’Azawad, un territorio vasto due volte l’Italia e ricco di risorse naturali, restituito al Mali solo nel 2013 con un intervento internazionale a guida francese.
In sintesi, sullo sfondo della crisi istituzionale del governo maliano, da sempre in difficoltà nel comporre su un territorio vastissimo i problemi sociali di una popolazione variegata, nel centro del Paese si è infiammata una violenta lotta per il potere, tesa a conquistare la supremazia sui vari network jihadisti6, quasi certamente sostenuta dalle monarchie arabe sunnite, e che ha visto sfilare gruppi la cui formazione, tra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, a suo tempo favorita dalla Francia secondo logiche di contenimento dei movimenti nazionalisti nei territori d’oltremare, è poi sfuggita al controllo, anche perché, terminato il mecenatismo qaedista, è stata caratterizzata da forme di autofinanziamento basate su attività criminose indirizzate al controllo del contrabbando e delle risorse idrogeologiche.
Nel contesto maliano, la Francia con l’Operazione Serval del 2013, proseguita con Barkhane tra Mauritania, Ciad, Niger e Burkina Faso, sviluppata in parallelo a quella jihadista che ha ampliato il raggio d’azione oltre il Mali settentrionale, e con l’istituzione della task force Takuba7 a cui l’Italia aveva promesso nel luglio scorso 200 soldati, 20 mezzi ed 8 elicotteri, ha avuto comunque bisogno del supporto degli USA, in stretti rapporti con Algeri, un sostegno che se dovesse venir meno per effetto dell’attuale politica estera della Casa Bianca, lascerebbe Parigi, già in difficoltà per la mancanza di risultati decisivi, coinvolta in uno scontro asimmetrico e priva di un’exit strategy, una situazione in fieri in cui sono già presenti potenze concorrenti come Turchia, Russia, e Paesi del Golfo, ed in cui potrebbe trovare un suo ruolo la Cina, che detiene in Mali il maggior contingente militare inquadrato in una missione ONU.
Da notare inoltre come Pechino si sia dimostrata particolarmente attenta nel coltivare buoni rapporti con le tribù autoctone, proponendosi come soggetto capace di garantire stabilità in aree a rischio.
In un momento di particolare fragilità istituzionale come questo, vanno dunque evidenziati due aspetti: uno interno, per cui è prevedibile che, oltre all’insorgenza jihadista possano trovare spazio soggetti politici finora marginalizzati e non particolarmente inclini a favorire agende politiche volte ad ulteriori aperture verso l’Occidente, visto come l’interprete di una politica di contenimento piuttosto che come l’apportatore di soluzioni, ed uno esterno per cui Bamako, considerata da sempre come la stella polare della politica saheliana nel suo complesso, potrebbe scatenare un effetto domino nei Paesi confinanti, un’onda paventata anche dall’Ecowas8 che si è proposto quale mediatore tra le parti in lotta, visto che il Mali costituisce la base logistica dei gruppi jihadisti del Niger, un rischio che coinvolge anche le forze italiane impegnate nella missione Misin9.
Il panorama è quanto mai complesso, e richiama alla memoria situazioni storiche ancora presenti nell’immaginario collettivo occidentale; mentre per la Francia si profila il timore di un irreversibile indebolimento nel settore centrafricano ed una sindrome vietnamita, le Nazioni Unite richiedono un difficile ripristino della situazione preesistente con, sullo sfondo, la temporanea interruzione dei rapporti commerciali e finanziari con il Mali.
I golpisti, che con il colonnello Goita hanno ringraziato Mohammed VI del Marocco per gli sforzi profusi per il Mali, promettono una transizione dei poteri, e giocano sul fatto che, a fronte delle prese di posizione ufficiali, rimane aleggiante l’incubo jihadista, più vicino di quanto si possa immaginare.
1 Etnia nomade dell’Africa Occidentale
2 Abu Musab Abdel Wadoud, leader di AQIM
3 Fondatore di Ansar Dine ed al momento unico rappresentante saheliano di Al Zawahiri
4 Fondatore di Katiba Macina
5 Appartenente all’Islamic State in the Greater Sahar (EIGS) che, da metà 2018, appare nella propaganda Daesh come ramo dello Islamic State West Africa Province (Iswap).
6 Non è escluso che Droukdel sia stato ucciso durante il trasferimento verso una località dove avrebbe dovuto incontrare esponenti di altri network jihadisti.
7 Scimitarra tuareg
8 Economic Community of West African States
9 Missione Bilaterale di Supporto in Niger
Foto: web / Élysée / web / État-major des armées