L’Italia “a letto con il nemico”

(di Andrea Gaspardo)
16/09/22

In passato ci eravamo già occupati di una faccenda assai spinosa: i rapporti tra la Repubblica Italiana e la Repubblica dell'Azerbaigian. Alla luce degli ultimi avvenimenti che stanno scuotendo la stabilità del Caucaso e della recente visita nel nostro paese del dittatore azero, Ilham Heydar oğlu Aliyev, ricevuto con tutti gli onori (per non dire “in pompa magna”) dalle autorità italiane, è necessario per noi ritornare sull'argomento perché la scarsa e parziale (per non dire ridicola) copertura mediatica della visita da parte dei mezzi d'informazione nazionali così come la quasi totale assenza di informazioni riguardo agli eventi del Caucaso da parte dei medesimi, rischiano di creare negli osservatori male informati un pericoloso “strabismo” che, alla lunga, può ritorcersi contro il nostro paese. Ecco quindi che tutti quanti dobbiamo collettivamente chiederci: sappiamo bene con che cosa abbiamo a che fare?

Innanzi tutto bisogna da subito puntualizzare che, nel corso degli anni, sia il regime di Ilham Heydar oğlu Aliyev che quello di suo padre Heydar Alirza oğlu Aliyev prima di lui si sono dimostrati diabolicamente abili nella difficile e niente affatto scontata arte delle “pubbliche relazioni”.

Mentre altri regimi dittatoriali sono stati e continuano ad essere sottoposti ad un “fuoco mediatico concentrico” al fine di denunciarne abusi e malversazioni, nel caso della “Terra del Fuoco” (altro nome con il quale è noto lo stato caspico), non avviene nulla in tal senso. Intendiamoci, non esiste alcuna “cospirazione internazionale” volta a coprire le malefatte dei satrapi del Caucaso, ed i report che descrivono la reale situazione di quanto avviene laggiù sono ampiamente disponibili sia online che su carta stampata. Diverse istituzioni quali Reporter Senza Frontiere, Human Rights Watch, Amnesty International e chi più ne ha, più ne metta, hanno più volte denunciato il deprecabile stato dei diritti umani nella satrapia nel Caspio, e persino il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America (paese, quest'ultimo, che con l'Azerbaigian intrattiene rapporti tutt'altro che ostili) è stato generalmente onesto nel presentare la situazione della condizione dei diritti umani in Azerbaigian in termini assai negativi. Chiunque abbia voglia per curiosità di scorrere uno o più di questi report, in particolare quelli di Human Rights Watch, troverà che la parola utilizzata più di frequente per descrivere la condizione dei diritti umani in Azerbaigian è: “appalling”, che può essere comodamente tradotta in lingua italiana come “spaventosa/terrificante”.

Dopo aver letto queste righe, un osservatore casuale sarebbe pertanto tentato di chiedere: “ma se la situazione è così critica, perché tutti (o quasi) tacciono?”. La risposta è molto semplice e può essere riassunta in un'unica parolina magica: IDROCARBURI. Con il 41% dell'export diretto verso il nostro paese, Roma si conferma il più importante partner commerciale di Baku, tuttavia tale “relazione speciale” è letteralmente “drogata” dalla massiccia fornitura di petrolio e prodotti derivati dalla sua raffinazione. Se escludiamo l'oro nero ed altre materie prime racchiuse nel sottosuolo infatti, gli unici altri prodotti che l'Azerbaigian esporta nel nostro mercato sono un po' di agricoltura, pesca, silvicoltura e ricavati dalla metallurgia, ma si tratta veramente di poca cosa perciò la riportiamo qui solamente per “dovere di cronaca”.

L'importanza che il petrolio azero ha acquisito per tutta una serie di paesi, soprattutto europei, ha garantito ad Aliyev una quasi intoccabilità da parte della stampa continentale, soprattutto nostrana, e ogni qual volta una voce sopra le righe si sia espressa al di fuori del coro, essa è stata affrontata dal regime azero con la massima durezza. È il caso della nota giornalista e conduttrice televisiva Milena Gabanelli la quale, per aver diffuso durante una puntata del programma televisivo “Report” un documentario avente come oggetto la realtà della corruzione e delle violazioni dei diritti umani in Azerbaigian, è stata immediatamente iscritta nel registro delle “persone non gradite” e bandita permanentemente dall'entrare nel territorio del paese.

Tutto sommato, però, la Gabanelli può ancora considerarsi fortunata rispetto a quanto ha rischiato, e rischia ancora, ma per ragioni diverse, il viaggiatore, blogger e giornalista dalla doppia cittadinanza russa e israeliana Aleksandr Valerievich Lapshin. Nel suo caso non c'entrano nulla report giornalistici su corruzione e violazione dei diritti umani, bensì il “peccato” di aver visitato in due diverse occasioni, nel 2011 e nel 2012, il territorio del Nagorno-Karabakh (Artsakh), area al centro di un conflitto che oppone l'Armenia, gli armeni nagornini e l'Azerbaigian da 34 anni.

Si badi bene, Lapshin non è affatto la prima persona ad aver visitato quelle terre, ma ha l'aggravante di aver documentato il tutto rendendolo fruibile alla comunità degli internauti. Così facendo egli si è di fatto “preso gioco” del regime di Aliyev e, come sanno tutti coloro che sono esperti di questioni caucasiche: non c'è niente di peggio nel Caucaso di “far perdere la faccia ad un uomo”, soprattutto se egli è un uomo di potere, perché costui farà di tutto per vendicarsi e, letteralmente, “lavare l'onore nel sangue”. La magistratura azera (niente più che un'appendice del potere del clan al comando del paese) ha per anni “dato la caccia” a Lapshin chiedendo in ben 13 occasioni diverse che venisse estradato ma incontrando sempre netti rifiuti dalle autorità di altrettanti paesi (comprensibilmente, dato che il curriculum vitae del blogger mal si concilia con quello di “un pericoloso criminale internazionale”) fino a che Aliyev ha trovato una sponda compiacente nel regime bielorusso di Aleksandr Grigorevich Lukashenko. Visti gli importanti rapporti che legano Minsk a Baku, l'autocrate bielorusso si è dimostrato ben felice di venire incontro ai desiderata del suo “collega” caucasico.

Il 15 dicembre del 2016, Lapshin, allora in visita in Bielorussia, venne arrestato dalla polizia e il 7 febbraio 2017, su ordine dell'ufficio del procuratore generale della Repubblica di Bielorussia, estradato in Azerbaigian per rispondere dei suoi “crimini” commessi contro le autorità del paese. Interessante notare che il viaggio di sola andata per Baku del blogger russo/israeliano si sia svolto nientepopodimeno che sull'aereo personale del satrapo! Questo la dice lunga sul fatto che l'uomo forte della “Terra del Fuoco” sia letteralmente disposto “ad andare fino in fondo” sulle vicende che gli interessano e che lo toccano personalmente. Successivamente, grazie agli sforzi congiunti ed alle proteste dei governi di Russia, Israele, Armenia (e probabilmente altri ancora) Lapshin è stato rilasciato e “perdonato” ma non prima di aver subito, nella notte dell'11 settembre 2017, un attentato che per poco non gli è costato la vita mentre si trovava rinchiuso in cella d'isolamento!

Sbaglia però chi crede che la sua personale odissea si sia conclusa con il “perdono” ed il ritorno in patria! Nel febbraio del 2019 la magistratura azera ha aperto nuovamente un fascicolo giudiziario contro di lui, questa volta accusato di “screditare o umiliare l'onore e la dignità del presidente della Repubblica dell'Azerbaigian” e di “incitare apertamente contro il governo dell'Azerbaigian” ed il 15 di dicembre dello stesso anno egli è infine sfuggito ad un tentativo di rapimento, pare orchestrato dai servizi segreti azeri con la complicità di elementi criminali appartenenti alla stessa nazionalità ma attivi in Lettonia, laddove il blogger si trovava per partecipare ad un forum sul turismo.

È interessante notare una curiosità niente affatto secondaria. Per anni l'Azerbaigian non ha lesinato sforzi nel coltivare i rapporti con lo Stato d'Israele. Anche in questo caso la parolina magica è “idrocarburi”, dato che al giorno d'oggi ormai lo stato ebraico importa ben il 50% del petrolio di cui abbisogna proprio dall'Azerbaigian. Esistono però anche altre ragioni strategiche che hanno spinto azeri ed israeliani ad instaurare una proficua relazione bidirezionale (una tra queste è la collaborazione per contenere l'Iran). Questo intreccio di ragioni ha spinto molti a credere all'immagine di facciata costruita dal regime azero, e rilanciata a 360 gradi dai suoi galoppini a libro paga sparsi in ogni angolo del mondo, che l'Azerbaigian sia “il migliore amico di Israele e degli ebrei in generale”. Eppure, basta dare uno sguardo ai titoli dei principali quotidiani azeri all'epoca delle udienze del processo contro Lapshin ed alle foto dei manifestanti locali armati di striscioni per leggervi delle invettive antisemite che nulla hanno a che fare con la supporta immagine di “tolleranza” che la satrapia caucasica pretende di “vendere” all'estero.

Sulla scia di quanto appena detto, è necessario ora parlare di un'altra spinosissima questione: il conflitto armeno-azero. Dal 1988, quando entrambi i paesi erano ancora parte integrante dell'Unione Sovietica, l'Armenia e l'Azerbaigian si trovano in una situazione di conflitto per il possesso del territorio del Nagorno-Karabkh (Artsakh) e delle aree circostanti; conflitto complicato dal fatto che pur essendo il Nagorno-Karabakh (Artsakh) dal punti di vista amministrativo parte di quello che al tempo era la Repubblica Socialista Sovietica dell'Azerbaigian, gli abitanti della regione erano in maggioranza sempre stati armeni e, a causa di tutta una serie di problematiche ereditate dalla complicata storia di quell'area, avevano sempre visto la loro appartenenza allo “stato azero” come niente più di una “imposizione coloniale” quando non un vero e proprio sopruso da parte delle autorità sia di Mosca che di Baku.

La narrazione esaustiva del conflitto del Nagorno-Karabakh non è l'argomento di questa analisi, tuttavia alcuni risvolti grotteschi devono essere necessariamente affrontati. Dal 1994 ad oggi infatti, anche a causa della necessità di contenere le spinte centrifughe da parte di altri gruppi etnici che minacciavano/minacciano di mandare in pezzi l'unità dello stato azero, le autorità di Baku hanno portato avanti due battaglie parallele. La prima è una scientifica e metodica campagna di soppressione delle identità culturali e linguistiche al fine di promuovere una sorta di “omogenizzazione della popolazione azerbaigiana”. La seconda è una altrettanto coerente campagna di “mortificazione” del nemico armeno che a tutti i livelli istituzionali, scolastici, mediatici e chi più ne ha più ne metta, è stato e viene dipinto come il “Male Assoluto” meritevole di essere completamente estirpato da questo mondo.

La fissazione degli Aliyev padre e figlio di distruggere “tutto ciò che è armeno” è giunta sino al punto di ordinare la quasi completa cancellazione di quello che una volta era il consistentissimo patrimonio culturale armeno presente nel paese.

Grazie ad interazioni di ogni tipo durate millenni, gli armeni avevano lasciato importantissime tracce nella Storia archeologica e nell'architettura del vicino Caucaso e dell'Azerbaigian stesso. In particolare nella regione del Naxçıvan, una delle culle del popolo armeno, il ricercatore Argam Aivazian (armeno nativo del luogo) documentò nel corso degli anni '80 del XX secolo l'esistenza di un ricchissimo patrimonio culturale di origine armena mediante la pubblicazione di ben 80.000 fotografie e disegni rappresentanti tra gli altri un totale (a detta dell'autore, incompleto) di 218 tra chiese, monasteri e cappelle, 41 castelli, 26 ponti, 86 siti di città e villaggi, 23.000 lapidi e, soprattutto, 4500 croci di pietra, i leggendari “khachkar”, che rappresentano forse il marchio più importante della cultura armena in ogni epoca storica. In particolare nelle vicinanze della città di Julfa esisteva un cimitero unico al mondo costituito da una “foresta” di khachkar che si ergevano a migliaia (10.000 secondo il missionario francese Alexandre de Rhodes che nel 1648 visitò l'area) in uno spiazzo situato lungo il corso del fiume Aras.

Ebbene, negli anni successivi all'indipendenza, dopo aver prima ripulito l'area dagli ultimi armeni rimasti, ultimi eredi di una ininterrotta presenza plurimillenaria proprio come nel Nagorno-Karabakh (Artsakh), l'Azerbaigian ha sistematicamente distrutto tutte le tracce del patrimonio archeologico ed architettonico armeno presente sul proprio territorio operando un genocidio culturale persino peggiore di quello causato dall'ISIS in Siria ed Iraq o dei Talebani quando distrussero le statue dei Buddha di Bamiyan. Tra il 1998 ed il 2002, i 3000 khachkar e le 5000 lapidi che ancora si trovavano nel cimitero di Julfa (tra le quali anche alcune rarissime e preziosissime lapidi recanti il motivo armeno dell'ariete risalente al periodo pre-cristiano, introvabili in nessun altro luogo sulla Terra) vennero metodicamente abbattute, spaccate e triturate dai soldati azeri fino a che non vennero ridotte letteralmente in polvere per venire poi scaricate nel letto del fiume Aras.

Tali distruzioni si sono poi riverberate in tutti il territorio del paese (ad eccezione ovviamente del Nagorno-Karabakh!) tanto che oggi le uniche due chiese armene ancora in piedi in Azerbaigian sono la chiesa del villaggio di Kish (ma solamente perché nel corso della Storia essa è successivamente diventata prima una chiesa albano-caucasica e poi una chiesa georgiana, quindi è stata altro, oltre ad essere armena) e la chiesa di San Gregorio l'Illuminatore situata a Baku ma permanentemente chiusa ed oggi utilizzata come magazzino. A conoscenza dell'autore vi sono poi le rovine di una chiesa situate nella cittadina di Madrasa, le rovine dilapidate del monastero di Targmanchats e quelle altrettanto derelitte del monastero di San Sarkis sul monte Gag.

Purtroppo la propaganda di stato è andata ben oltre questo, instillando un odio feroce non solo contro i simboli “dell'armenità” ma anche nei confronti degli armeni in quanto esseri umani, e ciò ha avuto esiti in alcuni casi assolutamente scabrosi. Un esempio che vale quanto mille libri di testo è il caso di Ramil Safarov, ufficiale azero che il 18 di febbraio del 2004, mentre partecipava a Budapest ad un corso organizzato dalla “Partnership for Peace” della NATO uccise a sangue freddo nel sonno il tenente Gurgen Margaryan dell'esercito armeno infliggendogli non meno di 16 colpi utilizzando un'ascia. Quando, dopo 8 anni, Safarov venne trasferito dalle autorità ungheresi per servire il resto del suo ergastolo nel paese nativo, Ilham Aliyev non trovò niente di meglio da fare che perdonarlo e nominarlo eroe nazionale!

Ma la cosa non dovrebbe sconvolgere più di tanto dato che l'Azerbaigian è, a conoscenza dell'autore, l'unico paese al mondo che discrimina l'ingresso da parte dei cittadini stranieri su base etnica. Esiste infatti una norma che vieta espressamente l'ingresso nel territorio della satrapia del Caspio a qualsiasi individuo di sesso maschile o femminile di qualunque nazionalità che abbia origine armena. La cosa che è necessario sottolineare più e più volte è che tale divieto non riguarda solamente “i cittadini della Repubblica d'Armenia” (tale atteggiamento sarebbe anche comprensibile, essendo i due paesi in guerra), ma coinvolge tutti e 12 i milioni di armeni che vivono su questa Terra anche se non hanno mai visitato l'Armenia in vita loro e si sono sempre tenuti lontani dal conflitto del Nagorno-Karabakh (Artsakh).

Certo, un lettore non attento sarebbe tentato di creare un parallelismo tra questo divieto e quello esistente nel mondo arabo-islamico laddove diversi paesi non permettono ai cittadini di Israele di viaggiare entro i loro confini, non riconoscendo l'esistenza dello “stato ebraico”. Eppure il divieto da parte di questi paesi riguarda solamente i cittadini di Israele (per altro non tutti ebrei), ma non si estende ad ogni singolo ebreo vivente su questa Terra!

Ecco perché l'atteggiamento da parte del regime di Baku rappresenta la quintessenza della malignità e non trova alcuna giustificazione razionale se non quella di creare apposta un clima tale per cui tutti gli azeri stanno venendo scientemente trasformati in macchine d'odio viventi incapaci di provare alcun tipo di empatia nei confronti degli armeni e che non avrebbero poi remore a portare a compimento qualsiasi disegno genocida che Aliyev e la sua cricca di potere ordinerebbero loro di fare.

Si dice spesso che la politica e la geopolitica sono “l'arte del possibile” e che l'unica cosa che conta nel ring delle relazioni internazionali è la tutela degli interessi nazionali. Essendo io personalmente un fautore della visione “realista” nel campo delle relazioni internazionali, non trovo assolutamente niente di sbagliato in questa impostazione tuttavia una domanda è assolutamente necessario porsela in questa situazione.

Se questo è l'Azerbaigian (e su queste righe io ho solamente grattato la superficie!), e non la versione da operetta che la maggior parte dei nostri media propagandano sapendo di mentire, che tipo di garanzie di lungo periodo ha l'Italia nel legarsi ad un paese simile, per altro migliore amico delle Turchia, la quale ho già descritto infinite volte come una minaccia strategica nel lungo periodo per noi, trasformandolo per altro nel nostro principale fornitore di energia quando coloro che stanno al potere sia a Baku che ad Ankara possono utilizzare in ogni momento tale arma per strozzarci e sottometterci al loro volere?

Questo è un punto fondamentale perché non siamo parlando della pacifica e neutrale Svizzera ma di un regime sanguinario con velleità espansionistiche legato a doppia mandata ad un regime altrettanto cialtronesco che controlla un importantissimo paese della NATO ed entrambi attuano una spregiudicata quanto imprevedibile politica estera che rischia di destabilizzare il mondo ad un livello se possibile ancora superiore rispetto persino alla tanto vituperata Russia.

Parafrasando le parole di Socrate: “Conosci il tuo nemico. Se non lo conosci, vuol dire che non conosci nemmeno te stesso. E allora non permetterti poi di rimanere sorpreso.”

Foto: Quirinale