L’Italia di fronte alla sfida del grano

(di Andrea Forte)
07/07/22

È ormai evidente come la guerra in Ucraina sia anche una guerra per le risorse alimentari di quel Paese. Tra tutte, i cereali in generale e il grano in particolare. Se è vero poi che l’Ucraina da sola non sfama il mondo, è però altrettanto vero che sfama buona parte del mondo che ha fame.

Dunque sono già due gli elementi di potenza emersi, il possesso delle risorsa cerealicola e la dipendenza quasi totale di una parte del mondo da questa risorsa, proveniente da quell’area. Tutto questo all’interno della cornice della finanziarizzazione dell’economia, ovvero un contesto in cui non è solo la disponibilità effettiva di una risorsa a stabilirne il prezzo, ma la percezione giustificata o meno della medesima, per cui i prezzi si impennano a prescindere dall’esistenza reale del problema. Infine, la vita economica è attualmente globalizzata, dunque possedere una risorsa significa possedere una leva mondiale e poter creare problemi mondiali, vera arma nucleare prima ancora degli ordigni in senso stretto. Possedere tale risorsa, o più risorse, vuol dire poi cercare di rompere quella stessa globalizzazione, grazie alla quale quell’elemento stesso è un’arma. Significa quindi cercare di farne uno strumento strategico di costruzione di una contro-globalizzazione, cioè cointestare un dominio e reclamarne uno proprio. Questa è la partita che la Russia ambisce a giocare con la sponda cinese, intenta a incamerare il grano dall’Ucraina e da tutto il mondo ben prima dello scoppio del conflitto.

Bisogna infine ricordare che la partita del grano non è una partita a sé stante, né come tale viene giocata dalle potenze coinvolte. Essa, in quanto arma sistemica, è parte di un arsenale utilizzato per decidere dove il mondo deve o non deve andare.

È dunque un'arma a suo modo assoluta, perché assoluta è la partita che con essa si pretende di disputare. Chi avrà fame? Chi soddisferà questa fame, ovvero chi dominerà questa fame? Questo è il livello del gioco geopolitico in atto.

Se questo è il panorama, come è messa l’Italia? È soggetto o oggetto in questa sfida? Di quali leve può disporre e come le sta usando?

Proprio il tema del grano permette di evidenziare alcuni fondamentali strategici italiani, ovvero elementi assoluti, che l’Italia non può eludere nel valutare mosse e contro-mosse. Questi valgono a prescindere dallo scambio agroalimentare, che l’Italia intrattiene con l’Ucraina e/o con la Russia.

L’Italia è il tipico caso di un Paese che importa molto poco grano dall’Ucraina e dalla Russia, ma che vivendo in un mondo finanziario e globalizzato diventa inevitabilmente anch'essa oggetto della speculazione e dell'innalzamento dei prezzi.

Da Ucraina e Russia insieme non le arriva più del 4% di tutto l’import di grano duro e tenero. La Penisola inoltre, come ogni collettività, ha bisogno dei cereali non solo per sfamare la sua popolazione, ma per sfamare gli allevamenti. Il grano dunque, in seconda battuta, permette di avere latte e derivati, permette di avere carne, permette cioè un intero mondo alimentare.

Per prima cosa va sottolineata la cronico-storica insufficiente capacità produttiva cerealicola nazionale, in relazione alla propria popolazione. In altri termini, l’Italia non riesce a produrre tutto il grano di cui ha bisogno per sfamare se stessa.

Secondo fattore, conseguenza del primo. È un Paese che, non possedendo in misura adeguata questa materia prima, è pertanto costretto ad importarla e questo lo espone su due livelli. Verso i paesi produttori di tale risorsa (in questo caso in primis Russia e Ucraina), ma anche verso tutti i Paesi candidati a sostituirne le forniture; in seconda battuta lo espone nei confronti delle rotte commerciali, la cui sicurezza, certezza e continuità diventano perciò fondamentali.

Terzo fattore, è di vitale importanza per l’Italia, con 8000 km di coste, al centro del Mediterraneo e con il proprio benessere dipendente da import e export marittimi, associarsi per necessità e per convenienza alle potenze, che dominano le vie dei commerci mondiali via mare. L’attuale egemone globale, gli Stati Uniti, controlla tale commercio e al loro campo di forze l’Italia è inserita, a seguito della sconfitta nella seconda guerra mondiale. In questo caso dunque la coincidenza tra ferita storica e necessità strategica sembrerebbe favorirla, ma qui si apre la contraddizione della situazione presente, con l'esistenza di un’antagonista a tale dominus, la Russia, che cerca controllare sempre di più le produzioni mondiali di grano, proprio attraverso la riacquisizione del suolo ucraino alla sua sfera di influenza.

Se l’Ucraina, in particolare le sue terre nere, faranno o meno parte del campo occidentale o del campo sino-russo, questo avrà un peso vitale (o mortale) nella sfida presente con Mosca e in quella futura con la Cina.

L’Italia poi per posizione geografica affaccia (strategicamente è esposta) a quell'intera fascia di mondo che ribolle, per demografia arrembante e per altrettanta povertà, l’Africa. Un intero mondo con queste caratteristiche vive sulle coste di fronte ad uno dei granai dello Stivale, la Sicilia e in generale il Meridione. Fare in modo che questa parte di mondo mangi e che a sfamarlo non siano le potenze, che più di tutte le altre in esso si stanno insinuando (proprio Russia, Cina e Turchia) è dunque un’ulteriore obiettivo, che l’Italia ha necessità di raggiungere. Pena ondate migratorie e/o instabilità rivoluzionarie ai propri confini. Il che vuol dire anche, nel peggiore dei casi, il formarsi di potere formali o informali più o meno influenzati da potenze ostili o perlomeno rivali. Ecco qui riemergere il livello sistemico della partita del grano. Si prenda il caso della Libia, divisa in due zone di influenza, dominate da Turchia e Russia. Significa avere sul fronte meridionale italiano i rubinetti della fame e della migrazione in mano a potenze, che acuiscono le fragilità a cui l’Italia è già soggetta.

Questi punti di debolezza sono accentuati dal modo in cui la stessa ha gestito la propria capacità produttiva agricola, a partire almeno dagli anni ‘70 del secolo scorso. Da quel momento, insieme all'industrializzazione, si privilegia una standardizzazione della produzione cerealicola. Si riducono allora le superfici coltivate con le vecchie varietà a bassa resa e grande qualità e si diminuisce l’agricoltura in generale rispetto all'allevamento, creando uno sviluppo, che non è sostenibile, poiché aumenta la fame e diminuisce il prodotto per sfamare. Al tempo stesso questo fenomeno distrugge un intero tessuto-sapienza agricolo, che aveva permesso a due generazioni fa di sfruttare qualunque lembo di terra, anche quelli più marginali sull'Appennino, perché basato su coltivazioni declinate in base al suolo e al tempo e implementato con una rotazione delle colture e una varietà delle medesime, con conseguente grande adattabilità.

Si è indebolito geneticamente un sistema, che nell'odierna fase di cambiamento climatico, ha dimostrato quanto fosse più efficace sul lungo periodo. Le attuali specie cerealicole sono incapaci di resistere, perché selezionate sull'idea di un clima eterno e di una spazio eterno, per i quali si presupponeva conveniente la quasi uniformità genetica. Sarebbe necessario riprendere le cultivar più antiche, che avevano sì rese più basse, ma che garantivano un apporto proteico molto superiore a quello che è un prodotto standardizzato e recuperare una varietà agricola fatta di legumi, pomodori e altro ancora, più nutrienti e più aderenti ai climi e ai suoli in cui crescono. Da decenni in ogni caso, oltre a dequalificare il prodotto, si è comunque diminuito anche il terreno coltivato a grano, sostanzialmente mezzo milione di ettari. Come a dire, si è persa qualità e quantità.

Secondo Coldiretti solo nell’ultimo decennio un campo di grano su cinque, cioè mezzo milione di ettari, non produce più grano.

Prima di capire come l’Italia possa e debba reagire all'attuale situazione, è necessaria una sua panoramica presente nei termini di comparto agroalimentare, per capirne le criticità e i punti di forza. In senso generale è possibile affermare che l’Italia è una potenza del settore. La sua filiera agroalimentare ha un valore di 540 miliardi di euro, la sua forza lavoro nel comparto coinvolge quattro milioni di addetti e per nutrire questa macchina Roma vi convoglia l'11% della sua energia, ovvero 13.3 milioni di tonnellate di petrolio. Per quanto riguarda il grano tenero, ne importa il 64%, riuscendo a produrre soltanto il 36% dei suoi consumi, divenendo costretta ad acquistare da Francia, Germania, Stati Uniti e Canada. In questo periodo però a dover essere sottolineato è soprattutto un 30% di importazioni dall’Ungheria, che avendo quasi da subito reso difficilissime le proprie esportazioni, per timore di carenze della propria risorsa, ha di fatto, nell’attuale partita in corso, esposto l’Italia e tutta l’UE ad ulteriori costi per le importazioni da oltre oceano e per la spirale inflazionistica.

Va però rilevato che il gran tenero non è quello che serve a produrre la principale eccellenza italiana, la pasta, per cui è necessario il grano duro. Da questo punto di vista l’Italia mantiene un primato. Da sola produce il 50% di tutto il grano duro europeo e copre il 70% dei consumi nazionali, destinandovi fino a due anni fa ben 1.23 milioni di ettari, così ripartiti: 73% al Sud, 21% al Centro e 6% al Nord, ma il Settentrione si conferma un'area di produzione qualitativa maggiore, capace di valere il 12% della produzione nazionale, mentre per il Sud, di fatto l’intera produzione proviene per il 28% dalla Puglia per il 22% dalla Sicilia.

L’Italia rimane, visti i volumi di produzione di pasta a livello mondiale, il primo importatore al mondo di grano duro e il primo esportatore. La Penisola rimane poi anche in questo campo un “fabbrica” di trasformazione di materie prime in prodotti finiti, quindi possiede le capacità non solo artigianali, ma addirittura artistiche, di trasformare una risorsa e di rivenderla sotto forma di eccellenza. La pasta italiana appunto. Certo, nell'immediato l'emergenza derivante dai minori afflussi cerealicoli dall'Ucraina ha implicato un aumento della superficie coltivabile in tutta Europa e un abbassamento degli standard qualitativi, pur di avere quel grano di cui il mondo necessita. Essendo in questo caso le uniche alternative fattibili gli Stati Uniti e il Canada, l’UE rischia di accettare un grano cresciuto con un maggior uso di fertilizzanti chimici, ad esempio il doppio del glifosato, e se si volesse allentare anche il muro contro gli OGM, si esporrebbe l’Italia, che non è un Paese di eccezionali multinazionali del seme, ad una dipendenza dalle medesime (e dalle potenze cui afferiscono).

Per quanto riguarda le nostre reazioni, va comunque sottolineato un afflusso di sei miliardi di euro previsti dal PNRR e un inizio di capacità di fare sistema attraverso i contratti di filiera. Ciò che si rivela necessario è la conferma di un investimento nel soft power, portato avanti attraverso la capacità laboratoriale di trasformare la materia prima. Si impone un recupero dei terreni, ma non per aumentare i quantitativi, quanto per la produzione agricola di varietà alimentari, tra cui soprattutto legumi, dotati di una quota proteica molto più alta del grano.

L’Italia poi, al centro della fame e delle migrazioni di un’area fragilissima del mondo, è costretta a doversi rendere conto che non può permettersi queste crisi ai suoi confini. È necessaria dunque una strategia nazionale, che non si fissi a guardare solo gli ettari interni e neppure solo quelli coltivati dai suoi alleati più stretti (che comunque privilegiano i loro interessi). È urgente una strategia complessiva, che coinvolga la sicurezza delle rotte commerciali verso tutti quei Paesi che vivono letteralmente del grano di altri, tanto più considerando che tutto questo avviene nel Mediterraneo, dove l’Italia conta meno del suo principale rivale regionale, la Turchia, che si muove ai limiti della tolleranza americana, ma con capacità e risultati assolutamente necessari alla medesima e contro i quali gli Stati Uniti non sono disposti ad agire, solo per favorire l'interesse italiano. È un interesse che Roma dovrebbe coltivare con le proprie forze, tanto più che la NATO e le sue energie sono destinate a concentrarsi sempre più a est e sempre più a nord dell’Europa, e financo nel Pacifico, per contenere la Cina, destinando al Mediterraneo quel tanto che serve a contenerne le ambizioni africane dei rivali di Washington, ma non ad allontanarle sempre e comunque dagli interessi dell’Italia in senso stretto.

Fare da soli, fare con le proprie forze, si conferma un incubo per il pensiero a-strategico italiano e tuttavia è anche un’opportunità, che rende agli occhi del perno americano meritevoli di maggiore considerazione, più soggetto delle sfide e meno oggetto. È un’opportunità per ritornare in mare con il pensiero prima ancora che con le articolazioni fisiche dello stato.

L’Italia può superare la tempesta cerealicola in atto in se stessa e in quanto parte di un sistema di crisi che incrocia siccità, guerra, migrazioni, povertà e inflazione soltanto se la sua capacità di stabilire i paradigmi del buono e del sano a livello alimentare diventeranno in tutto e per tutto il soft power di una potenza sofisticata. Ovviamente l'intero sistema agroalimentare italiano non può ottenere questi risultati, se a sua volta non è integrato in una strategia del Paese che coinvolga tutti i campi. Il che riporta al centro l'eterna questione dell'incompiutezza del suo pensiero geopolitico e strategico.

Non è dunque la soluzione al problema del grano, che aumenterà lo spessore geopolitico dell’Italia, ma è l’elaborazione di un progetto geopolitico realistico e dunque efficace, che le permetterà di avere voce e risultati anche nella tempesta che sconvolge questa risorsa.

Foto: presidenza del consiglio dei ministri