L’incubo degli analisti geopolitici, smarriti tra il sogno e il declino americano

(di Emilio Tirone)
24/01/25

Per poter effettuare un’analisi, sia essa militare, politica o economica, che permetta, in funzione delle azioni dei soggetti in gioco, di comprendere nel modo più corretto la realtà e possibilmente di ipotizzare con un certo anticipo i suoi sviluppi più probabili, occorre, nella preliminare e imprescindibile fase informativa, acquisire elementi oggettivi, significativi e attendibili, che possano assumere un valore informativo. Ma quella della raccolta filtrata di dati non è l’unica capacità necessaria, occorre la successiva abilità di interpretarli, valutarli ed elaborarli, trasformandoli in utili notizie da incasellare, correttamente e coerentemente, per poter ottenere delle informazioni vere e proprie utili per l’analisi. La finalità di quest’ultima, ripetiamo ancora una volta1, non consiste nell’azzeccare in modo previsionale quello che accadrà ma nel leggere in modo più chiaro la realtà per poter poi individuare le possibili azioni e strategie dei protagonisti in campo, in modo da poter elaborare le necessarie misure e contromisure operative, difensive o offensive, funzionali al perseguimento dei propri fini o interessi.

Tale analisi, dunque, e anche qui non temiamo di ripeterci ancora, “per risultare un utile strumento, deve essere necessariamente scevra da condizionamenti ideologici e morali”2, puntando decisamente su quello che è e non verso quello che vorremmo che fosse, a meno che non si voglia con intento manipolatorio, deliberatamente produrre illusioni o propaganda. Questo dovrebbe essere un assioma evidente, soprattutto tra gli analisti professionisti, ma abbiamo visto che in realtà, come nel caso degli eventi in corso in Ucraina, non è un fattore scontato, neanche di fronte ai ripetuti palesi errori che, inevitabilmente, ne sono grossolanamente conseguiti3.

In sintesi, in campo geopolitico, ma tale approccio vale per qualsiasi altro problema/attività di tipo sia conoscitivo sia pratico (operativo), l’analisi, quale Decision Making Process, dovrebbe essere un asettico percorso ragionativo razionale, una disciplina che permette di esaminare la situazione, attraverso la preliminare individuazione di tutti i suoi aspetti quantitativi, al fine di logicamente determinare, fra una serie di alternative comparate, la migliore linea di condotta (Ricerca Operativa), prendere le connesse decisioni, politiche, economiche e militari, valutandone le conseguenze nel breve, nel medio e nel lungo periodo.

Questo processo cognitivo, nella sua sistematica analicità, è comparabile a una scienza applicata e sembrerebbe, in apparenza, essere esclusivamente sequenziale e lineare nella sua logica ragionativa, quasi assumendo un aspetto di mero calcolo. Ma la realtà dell’agire umano, dei singoli o dei gruppi umani, non è fatta solo di elementi quantitativi ma di forze che si muovono per logiche diverse dalla razionalità assoluta, non solo opportunistico-materiali (homo oeconomicus) ma etiche, morali, spirituali, psicologiche, emotive e anche sentimentali, fino a quelle comportamentali completamente irrazionali. Sono queste che spesso realmente determinano gli eventi.

Per la loro individuazione e valutazione esiste un’altra capacità conoscitiva in gioco, che raramente viene citata o riconosciuta, quella di stabilire o vedere connessioni e visuali diverse rispetto al sopradetto lineare processo analitico, una capacità di percezione spesso intuitiva, frutto di abilità, di sensibilità, di capacità, di esperienza e di conoscenze tecniche e culturali. Un genius che rispetto al non misurabile entra in gioco non solo nella fase della Ricerca Operativa ma anche, e forse soprattutto, in quella della formazione della comprensione del reale e quindi, per chi deve, della determinazione decisionale. Invece, allo stesso modo di come l’analisi risulta spesso inquinata da una mancanza di onestà intellettuale, per condizionamenti politici o per ricerca del comodo e facile consenso, il processo razionale può essere minato alla base da pregiudiziali ideologiche che sorvolano sugli elementi non quantitativi. Una di quelle più comunemente diffuse è la convinzione deterministica che tutto, anche gli accadimenti in apparenza più complessi, in fin dei conti, si muova essenzialmente in funzione di dinamiche strettamente materiali di carattere economico. Questa, in realtà, è una mera e comoda semplificazione interpretativa. Si tratta di una schematizzazione castrante entro cui, a forza, si tenta di rinchiudere tutto il divenire fenomenologico dell’agire umano, a cui oggi non riesce a sottrarsi tanto il pensiero neo liberista quanto quello di derivazione marxista, attestandone in fondo, ancora una volta, la comune matrice natale. Questa impostazione ideologica basale si traduce in una sostanziale inadeguatezza nell’effettuare una lettura completa della realtà e dell’agire umano, da cui deriva, conseguentemente, una incapacità interpretativa che produce, operativamente ed economicamente, risultati sociali disastrosi e, politicamente, aberrazioni etiche.

La capacità di completare in modo simbiotico elementi quantitativi e non quantitativi non è patrimonio di tutti. Nondimeno, puntualmente, irrompono nella storia quei fattori in apparenza immateriali, a torto bollati tutti come irrazionali, che hanno la capacità di dare improvvise e inaspettate svolte agli eventi, aprendo scenari di difficile previsione che gettano nella crisi una moltitudine di analisti ed “esperti”. Un esempio attualissimo di questa incapacità interpretativa è la sottostima delle cause che hanno portato alla seconda elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America.

La vittoria di Trump attesta, innanzi tutto, un nuovo capitolo nella lotta interna alla società americana, che negli ultimi anni si è sempre più profondamente divisa, politicamente, ideologicamente ed etnicamente. Certamente un enorme peso che ha portato alla sconfitta il Partito Democratico è da ricercare nei fattori economici, derivati soprattutto da una spregiudicata politica neoliberista di globalizzazione, che hanno depresso il benessere e la sicurezza della classa media e colpito duramente quella lavoratrice. Uno degli aspetti più evidenti della crisi del lavoro è stata la repentina deindustrializzazione che ha trasformato in una “cintura di ruggine” (rust belt) quella che era la potente ed orgogliosa fascia industriale del nord-est degli USA. Ma quella di Trump è anche la vittoria della maggioranza silenziosa stanca di una ormai evidente prepotenza culturale di alcune élite che detengono le leve economiche, della comunicazione culturale e il dominio dei mass media. Un insieme ristretto (deep state) che non solo ha espresso il proprio potere cercando di condizionare gli orientamenti dell’opinione pubblica, attraverso l’utilizzo di tutti i canali comunicativi, ma che gradatamente, partendo dal concetto di politically correct, ha estremizzato, in nome della difesa di presunti diritti, in modo sempre più intollerante e autoritario, l’imposizione di modelli di pensiero unico e le proprie derive ideologiche (woke, cancel culture) su di una massa resa succube e colpevolizzata per la sua stessa identità.

Il principale asse di rivolta contro questo stato di cose, di cui abilmente si è fatto portavoce Trump, sotto lo slogan Let’s make America great again! (MAGA), è soprattutto generazionale ed è costituito da quella classe di età che ha vissuto in pieno la propria infanzia o la prima giovinezza ancora dentro il modello del sogno americano, the american dream, orgogliosa di provenire da quella american way of life che, dopo la seconda guerra mondiale, è stata imposta a tutto il mondo come la migliore per l’umanità. Una generazione fiera delle proprie origini, figlia, a sua volta, del mito della frontiera, quel sogno di origine WASP (White Anglo-Saxon Protestant) che persiste nell’immaginario collettivo americano. Una rappresentazione che, contro ogni previsione, ha spinto anche molti appartenenti alle minoranze etniche a schierarsi con Trump, poiché è stato quello il modello di vita che hanno sperato di raggiungere anche loro e non gli stravaganti posizionamenti sui diritti di una sinistra progressista sempre più estrema.

Non di minore impatto è stata anche la percezione che la pressione migratoria stia cambiando irreversibilmente il volto etnico e culturale degli USA, mettendone in discussione non solo lo stile di vita ma le stesse regole di convivenza e sicurezza.

Tutti problemi che il neo presidente ha subito affrontato nel suo discorso di insediamento promettendo di risolverli facendo rivivere il sogno americano in nuova epoca d’oro: The golden age of America begins right now (L’epoca d’oro dell’America comincia proprio ora). Non a caso Trump ha indicato il raggiungimento del pianeta Marte come una meta, rispolverando nella memoria collettiva la conquista della Luna che fu vissuta simbolicamente, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, come la massima espressione di potenza degli USA.

Molti dei punti di crisi, in realtà, non sono solo il frutto di scelte politiche errate delle classi dirigenti ma anche delle contraddizioni interne allo stesso DNA formativo degli Usa. Pertanto, a meno di una profonda e forse impossibile trasformazione, se pur si riuscisse momentaneamente a tamponarli, non potranno che inevitabilmente ripresentarsi per colpa degli stessi cortocircuiti interni; dei non sensi politico ideologici, quali la difesa della società multietnica del melting pot e la contemporanea voglia di voler restare la nazione, fondamentalmente culturalmente omogenea, dei propri padri o come il volersi concentrare sul benessere interno, cercando la pacifica convivenza internazionale, e nello stesso tempo, per poterla mantenere attraverso il proprio sistema di sviluppo economico, doversi per forza proiettare all’esterno con la grinta impositiva di una potenza imperial-coloniale.

Si avrebbe dunque bisogno di una coraggiosa e radicale riflessione in tal senso ma ben pochi “esperti” o analisti ne colgono la necessità. In questo momento il sogno rilanciato da Trump, il ricordo generazionale di far rivivere l’America dei primati del trentennio che ha seguito la seconda guerra mondiale, e il declino derivato dalle scelte politiche ed ideologiche dei sedicenti progressisti è più forte di ogni altra considerazione e calcolo. Come, infatti, ha chiaramente evidenziato Trump nel suo discorso: The american decline is over! (il declino americano è finito!) e ancora The spirit of the frontier is written into our hearts. (Lo spirito della frontiera è scritto nei nostri cuori). Sicuramente il discorso inaugurale del 20 gennaio, con la sua impennata di orgoglio ma anche con il peso di chi spera nel futuro essendosi reso conto di dove sta correndo il presente, resterà un riferimento di questa fase storica degli USA.

Analisti di vario genere, da quelli geopolitici a quelli economici, commentatori e divulgatori risultano in maggioranza spiazzati e in attesa degli eventi. Gli stessi che non sono stati capaci di comprendere il fenomeno che stava maturando oltreoceano, non avendo saputo o voluto percepire quegli elementi di cui si è fatto portavoce Trump, che nella Ricerca Operativa potremmo definire immateriali o non quantitativi.

Attualmente in campo geopolitico vi è un senso di attesa epocale delle prime mosse del neopresidente americano. In particolare, nello scenario internazionale la crisi ucraina, la crisi medio orientale e la contrapposizione con la Cina sembrano attendere le iniziative di Trump mentre si è chiuso il periodo Biden, tra quelli che in molti hanno considerato delle imprevidenti provocazioni e degli sconclusionati tentativi di escalation bellica.

Il riferimento di Trump al 25° presidente degli USA, William McKinley, eletto nel 1896 e nel 1900, caratterizzatosi per la sua politica protezionistica, di espansionismo coloniale (Porto Rico, Filippine e Guam), con la guerra contro la Spagna e l’annessione delle Hawaii ma anche per gli attenti accordi internazionali, sembrerebbe non casuale se si somma alle sue precedenti dichiarazioni sui dazi e sull’area continentale americana (Canada, Groenlandia, Panama e Messico). Ma, molti hanno notato, McKinley lancia anche un’ombra sulla sua presidenza, poiché fu assassinato, nel 1901, proprio da un estremista di sinistra.

In ogni caso gli USA saranno, volenti o nolenti, costretti a cercare nuovi equilibri in campo geopolitico, mentre si vanno delineando nuove e inaspettate polarizzazioni di Stati e si abbozzano alternativi modelli di sviluppo economico e di rapporti internazionali. In questo Cina e Russia sembrano essere più veloci e duttili ad adattarsi e ad offrire possibilità nel cercare nuovi partner in campo internazionale mentre gli Stati Uniti, anche attraverso le dichiarazioni d’intenti di Trump, sembrano più orientati a trarre il maggior vantaggio su quelli che ufficialmente sono i suoi storici alleati rimarcando senza sconti il loro ruolo satellitare e subalterno. Ma a questo l’Europa non è nuova.

Eppure la preconizzata revisione trampiana dei rapporti commerciali e militari, con la ridefinizione del ruolo della NATO, potrebbe fornire all’Europa quell’incentivo per avviare il rilancio della propria economia, abbandonando il modello ultra globalista, reindustrializzandosi, proteggendo le proprie produzioni e stabilendo rapporti commerciali e di fornitura di energia secondo il proprio interesse e, finalmente, in campo militare, iniziando a concepire una seria difesa comune. Al momento, però, l’Europa, sia unitariamente sia nelle sue singole espressioni, ancora una volta sembra incapace di intraprendere una decisa politica interna ed internazionale che persegua i propri interessi aspettando passivamente gli eventi decisi al suo esterno.

2 ivi