Libia in ebollizione: la Turchia avanza, l’Italia perde terreno e rischia di essere estromessa

(di Paolo Lolli)
04/03/25

Mentre gli Stati Uniti e la Federazione Russa si preparano a intavolare i negoziati per arrivare ad un necessario compromesso in terra ucraina, dando così una nuova forma alle proprie relazioni e monopolizzando di fatto la già precaria attenzione dei media e dell’opinione pubblica nostrana, la Libia ribolle. Concentrandosi poi quasi esclusivamente sul controverso caso al-Masri, il rischio è che in Italia si sia distolto lo sguardo da quanto più rilevante avvenuto recentemente a quelle latitudini: le “dimissioni”1 di Farhat Bengdara a capo della National Oil Corporation; la crisi migratoria dal potenziale deleterio per il Paese nordafricano messa in luce dal recente rapporto del Copasir2; le dimostrazioni di forza, sia del Governo di unità nazionale3 che del Governo di stabilità nazionale4, per mantenere salda la presa sulle rispettive aree d’influenza; l’allarmante volontà turca di assurgere ad attore dominante nel settore energetico libico5; infine, il consolidamento russo nel Sud e nell’Est dell’ex quarta sponda. Ma procediamo con ordine.

Il nuovo anno in Libia si è aperto con una vasta operazione militare del Governo di unità nazionale. Inizialmente concentrata sulla città costiera di al-Zawiya, a 40 km a Ovest di Tripoli, l’operazione rispondeva all’esigenza di sradicare reti di trafficanti di esseri umani, droga e carburante6, nonché nel mettere in sicurezza gli impianti della raffineria della città, la seconda più grande di tutto il Paese7. Considerati i successi ottenuti le operazioni sono state ampliate fino ad arrivare anche nella città di Zuwara, non molto distante dal valico di Ras Ajdir, vicino al confine con la Tunisia8.

Contemporaneamente le truppe del Libyan National Army, sotto il comando del capo di stato maggiore delle forze armate di terra, Saddam Haftar, lanciavano un’operazione ad al-Qatrun, nel Sud-Ovest del Paese, vicino ai confini con Niger e Ciad9. Sebbene anche per questa operazione le motivazioni rilasciate a riguardo comprendessero l’eliminazione di mercenari e bande criminali coinvolti in traffici illeciti di vario titolo, sembra che sia stato uno regolamento di conti tra fazioni all’interno del Libyan National Army. Gli scontri avvenuti sarebbero l’ennesimo cambio di alleanze fra le tribù Tebu, Awlad Sulaiman e Warfalla. Il clan degli Haftar, dopo aver sciolto la 128° brigata - operativa all’interno del LNA e composta per lo più da gruppi ciadiani appartenenti alla tribù Awlad Sulaiman e Tebu – ha lanciato l’operazione anticontrabbando contro presunti mercenari ciadiani per disarmare gli ormai ex alleati10 e assumere il controllo diretto di un’area di confine di rilevanza strategica.

Oltre alle operazioni militari condotte da entrambe le fazioni politiche libiche nell’ultimo mese si è assistito anche a una sorta di riorganizzazione economica e finanziaria di un’istituzione fondamentale, la National Oil Corporation. A seguito delle dimissioni del presidente Bengdara le redini dell’istituzione sono state affidate a Masoud Suleman. Nonostante possa apparire come un semplice cambio al vertice della NOC il nuovo presidente sta apportando modifiche strutturali. Una su tutte riguarda lo stop previsto, per il prossimo primo marzo, al programma di scambio di greggio per carburante11. Questo sistema nonostante permettesse ad un Paese, sovente, a corto di liquidità di alimentare il suo fabbisogno di carburante quotidiano, ha altresì alimentato la corruzione locale e l’influenza di potenze estere. Sulla scia del predecessore, Suleman cercherà di attrarre investimenti stranieri volti a incrementare sia la produzione di greggio che la raffinazione12.

Il Governo di unità nazionale, nella figura del ministro degli interni Emad Trabelsi in un’intervista rilasciata ad un canale televisivo libico13, ha anche chiesto un maggior coinvolgimento delle nazioni europee in tema di immigrazione. Lamentando la presenza di tre milioni di immigrati sul peso della stabilità politica, economica e anche sociale del Paese, il ministro ha indicato la possibilità di ricorrere a espulsioni forzate14 sul modello degli Stati Uniti. Emerge una forte discrepanza fra le cifre snocciolate da Trabelsi e quelle rese note dal rapporto del Copasir15; quest’ultimo stima in 700 mila persone gli immigrati attualmente presenti sul territorio libico. Verosimilmente il numero effettivo potrebbe essere una via di mezzo.

È quindi sommando l’esigenza libica di aumentare la propria produzione di greggio e di controllo sul fenomeno migratorio che Italia e Governo di unità nazionale potrebbero dare una svolta ai propri rapporti. Roma, per mantenere la privilegiata posizione economica in Tripolitania e magari espanderla anche nel resto del Paese, deve essere pronta ad assumersi maggiori responsabilità, pena il pericolo di essere definitivamente estromessa. Si tratta di bilanciare il proprio ascendente economico su Tripoli – rimaniamo saldamente in prima posizione quale mercato di esportazione per le merci libiche e presto l’interscambio bilaterale supererà i 10 miliardi di euro -16 con una maggiore influenza politica. Ma come?

Subordinando un maggior impegno economico della Penisola in Libia, sia attraverso investimenti diretti volti ad accrescere la produzione di idrocarburi che finanziamenti circoscritti alla gestione dell’immigrazione, in cambio di una revisione dell’impianto della MIASIT17. In sintesi: accrescere la propria esposizione economica con la Libia aumentando, al contempo, la presenza militare. Investire sempre più risorse in uno dei Paesi più instabili e corrotti al mondo18, senza adeguate garanzie securitarie, rischia di essere controproducente.

La Turchia, il vero punto di riferimento politico del Governo di Dbeibah, sgomita per accrescere anche la propria influenza economica inserendosi nella disputa per le enormi risorse energetiche libiche. Emblematiche le parole del direttore generale della Turkish Petroleum Corporation (TPAO), Ahmet Turkoglu, al Libya Energy and Economic Summit dello scorso gennaio “in passato abbiamo investito ma purtroppo siamo dovuti andarcene, ora abbiamo in programma di ricostruire le relazioni e siamo pronti a investire miliardi di dollari in questo potenziale”19. Parole perfettamente conciliabili con quelle del ministro per il petrolio e il gas del Governo di Unità Nazionale, Khalifa Abdulsadek, il quale ha indicato la cifra di quattro miliardi di dollari per raggiungere la quota di 1,6 milioni di barili di petrolio prodotti al giorno e tornare ai livelli precedenti all’implosione del regime di Gheddafi20. Quando Ankara avrà aggiunto, alla già rilevante autorevolezza politica conquistata, una notevole influenza economica potrà nuovamente, per mezzo del Governo di unità nazionale, chiedere che le truppe italiane lascino le postazioni di Tripoli e Misurata, come tentato nel 202221, magari riuscendoci questa volta.

La spartizione turco-russa della Libia è quasi completa. Mosca, per il momento, controlla cinque basi aree sparse tra la Cirenaica e il Fezzan (al-Khadim, al-Jufra, Brak al-Sham, al Qardabiya, Maaten al-Sarra)22 ma nessuna base navale le è stata concessa. Per questo di recente è stato ratificato un accordo tra Federazione Russa e Repubblica del Sudan per l’utilizzo della base navale di Port Sudan nel Mar Rosso23. Quest’ultima permetterà alla marina russa di stanziare in una delle rotte marittime commerciali più trafficate al mondo, avvicinandosi alle potenze già presenti nello Stato gendarme di Gibuti, ma non può essere considerata una valida alternativa alla base navale di Tartus in Siria.

È possibile intuire nei prossimi mesi un aumento delle tensioni fra Stati Uniti e Turchia. Tra i vari probabili punti di contatto fra Washington e Mosca potrebbe proprio esserci pure la volontà comune di contenere l’apparente irrefrenabile ascesa di Ankara. L’Italia, sempre più minacciata dall’avanzata turca nel proprio estero vicino, dalla Libia all’Albania, avrebbe così la possibilità di ribilanciare i rapporti di forza con la Sublime Porta. Nonostante la presenza turca nel Paese delle aquile non sia pervasiva quanto in Cirenaica deve essere mantenuta sotto stretta osservazione. A quelle latitudini Ankara proietta la propria influenza attraverso la condivisione delle affinità culturali, identitarie e religiose figlie della plurisecolare dominazione ottomana, riscontrando notevoli successi. L’ambito di più stretta collaborazione è però quello militare. L’Albania, consapevole che l’ombrello statunitense non faccia più tanta ombra, da tempo punta a modernizzare il proprio esercito e per questo si è rivolta alla Turchia. Ecco, quindi, che le forze armate albanesi vengono addestrate da quelle turche e rifornite dei famigerati droni, come accaduto lo scorso ottobre24. Il tutto in scia al desiderio anatolico di assurgere a potenza stabilizzatrice della fragile regione dei Balcani.

Il recente rapporto del Copasir25, proponendo di istituire una missione permanente Nato in Libia, stile Iraq, segnala una nuova presa di coscienza del mutamento degli equilibri di potenza nelle acque del Mar Mediterraneo. Eppure, difficilmente ciò verrà realizzato. Non esiste un consenso abbastanza diffuso da spingere i vari Paesi membri dell’Alleanza Atlantica a contribuire alla stabilizzazione della sponda meridionale della Nato. In aggiunta, Ankara ostacolerebbe con vigore tale iniziativa. Occorre, in scia ai cambiamenti che si respirano nell’arena internazionale e che non rappresentano sentimenti passeggeri e volatili, adattarsi e passare da un approccio reattivo a uno proattivo. Ben venga quindi l’ipotesi di attivazione della clausola di salvaguardia per le spese della difesa a cui la Commissione Europea ha aperto nelle ultime settimane26. Scorporare le spese per la difesa dal patto di stabilità permetterà a Roma di raggiungere i necessari investimenti per far fronte alle nuove esigenze securitarie. Tuttavia, deposti vincoli di bilancio non potranno rilanciare la presenza italiana nel suo estero vicino senza un cambio di approccio prima culturale e poi politico.

La Libia non aspetta. Nell’ultimo mese il generale Haftar ha intrapreso alcune visite significative. Mentre il 17 febbraio si è recato in Bielorussia per incontrare Lukashenko, il 26 era in Francia27 per parlare con Macron, appena tornato dalla visita negli Stati Uniti. Se a Minsk è stata rinsaldata la cooperazione economica e militare, a Parigi sono stati riannodati i fili del dialogo. L’Eliseo, timoroso di rimanere schiacciato da una sempre maggiore presenza russa in Cirenaica, offre ad Haftar una sponda in più per diversificare le proprie relazioni, ma non senza prezzo. Parigi avrebbe infatti richiesto sia l’utilizzo della base militare di Louig nel Sud del Paese, sia il rilascio del capo dell’opposizione della giunta militare nigerina, Mahmoud Sallah, recentemente arrestato28 dalle forze militari di Haftar. Russia, Turchia e Francia stanno aumentando la loro presenza in loco, il rischio che ciò porti a un esacerbarsi delle tensioni è elevato, occorre farsi trovare pronti.

Venerdì 28 febbraio gli Stati Uniti e l’Ucraina avrebbero dovuto porre le proprie firme sull’accordo delle terre rare29, poi l’imprevedibile. Nonostante nei giorni scorsi trapelasse che l’accordo fosse già raggiunto e che mancassero solo le firme, qualcosa è evidentemente andato storto. La sensazione è che la delegazione ucraina abbia ritenuto insufficienti le garanzie securitarie offerte da Washington e che l’amministrazione Trump abbia così deciso di rappresentare il presidente ucraino quale ostacolo alla pace. Tale congiuntura allontana, non chiude, qualsiasi ipotesi di schieramento di truppe di Paesi europei o extra quale forza di interposizione in Ucraina. Recentemente Francia, Gran Bretagna e Turchia30 hanno posto le proprie (divergenti) condizioni per un eventuale dispiegamento di proprie truppe.

E l’Italia? Roma appare contraria a qualsiasi coinvolgimento che esuli da missioni votate dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Sullo sfondo si profilano due possibili strade da percorrere: aderire ad una coalizione capeggiata da Parigi e Londra, mostrando così agli Stati Uniti di voler contribuire alla redistribuzione degli oneri per i componenti dell’Alleanza Atlantica, ma dirottando risorse dove meno saliente per la Penisola; oppure delegare a Parigi e Londra, più baltici e orientali, la questione ucraina per concentrarsi là dove più rilevante.

Le minacce maggiori per l’Italia arrivano da Sud, non da Est. Non vederle o, meglio, non volerle vedere, non le attenuerà.