Libano tra politica ed interessi economici

06/08/20

Le immagini della terribile esplosione in Libano hanno richiamato l'attenzione su quel travagliato paese. Sebbene da fonti britanniche, sembrerebbe che l’esplosione sia stata dovuta alla negligenza di un operaio saldatore, l’incidente ha scosso il Paese con milioni di dollari di danni e oltre il 90% degli hotel danneggiati.

Il Libano subisce da anni una situazione di profonda crisi economica e politica che potrebbe essere facilmente risolta grazie allo sfruttamento dei giacimenti offshore di petrolio e gas che si trovano in una zona di frontiera marittima contesa con Israele. I bacini offshore del Mediterraneo orientale sono diventati un ulteriore punto del conflitto israelo-libanese, visto che entrambe le parti insistono risolutamente nella contesa sui confini marittimi. Di fatto i due Paesi sono ancora in guerra dal 2006 e solo un contingente di baschi blu si interpone lungo la frontiera.

La situazione libanese

Il Libano, la Svizzera del Medio Oriente, come era chiamata negli anni ’60, a seguito della proclamazione di indipendenza di Israele e della guerra seguente con la Lega araba subì la migrazione di oltre 100.000 profughi palestinesi in fuga. Questo, insieme a rigurgiti nazionalisti panarabi, portò alla prima guerra civile libanese del 1958. Altri profughi si aggiunsero negli anni seguenti portando ad uno sbilanciamento etnico in cui la precedente maggioranza cristiana fu sostituita da quella araba musulmana con circa due milioni di profughi palestinesi. Inevitabile fu la lunga guerra civile tra il 1975 ed il 1990, che vide contrapposte le milizie composte da cristiani maroniti ed una coalizione composta da palestinesi, libanesi musulmani sunniti, sciiti (Amal) e drusi.

Nel 1976 la Lega Araba, a seguito dell’accordo di Riyāḍ del 21 ottobre 1976, autorizzò l’intervento di una Forza Araba di Dissuasione (FAD) a maggioranza siriana, che riuscì a riportare con la forza una provvisoria e fragile pace nel Libano. Il 14 marzo 1978 Israele lanciò l’Operazione Litani, occupando l’area a sud del paese con più di 25.000 soldati per creare una fascia cuscinetto che tenesse i gruppi militanti palestinesi, in particolare l’OLP, lontani dal confine con Israele. L’ONU decise allora di creare una Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) per rafforzare il suo mandato e riportare pace e sovranità nel Paese.

Israele, nel 1982, con il sostegno dei cristiano-maroniti lanciò l’operazione militare “Pace in Galilea” al fine di sradicare dal Libano la presenza armata palestinese, spingendosi oltre il sud del Libano, fino a Beirut, dove aveva sede l’OLP. Il neo eletto presidente della Repubblica Bashir Gemayel il 14 settembre 1982, nove giorni prima dell’investitura ufficiale, cadde vittima di un attentato (attribuito al Partito Nazionalista Sociale Siriano) perdendo la vita, nella parte orientale di Beirut. Vi fu a questo punto un intervento internazionale americano, francese e italiano che causò la fuga della dirigenza OLP nei paesi confinanti.

Atrocità contro la popolazione civile furono perpetuate da entrambe le parti: dalla strage di Damur (1976) al massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila (1982), operati il primo da miliziani palestinesi del campo di Tell al-Za’tar e il secondo da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, che non vennero opportunamente contrastate dall’esercito israeliano.

Un episodio eclatante fu il duplice attentato da parte degli Hezbollah alla base della forza multinazionale del 23 ottobre 1983 che causò la morte di 241 marines statunitensi e 56 soldati francesi. Questa azione causò il ritiro delle truppe di pace, lasciando il Libano in una strisciante guerra civile.

In seguito agli Accordi di Ta’if del 1989 terminò la guerra e nacque la II Repubblica libanese presieduta dal generale Michel Aoun, che nel 1990 fu deposto dai siriani. La presenza siriana divenne quindi sempre più preponderante. Nel 1994 fu vietato il movimento Forze Libanesi, che rappresentava i cristiani più radicaleggianti. A seguito dell’assassinio dell’ex Primo ministro sunnita Rafīq al-Ḥarīrī nel 2005, ci fu la cosiddetta “Rivoluzione del Cedro” anti siriana, che avviò il ritiro delle truppe siriane della FAD (Forza Araba di Dissuasione). Nel luglio 2006, gli Hezbollah attaccarono una pattuglia dell’esercito israeliano nei pressi del villaggio di Zar’it, uccidendo 8 soldati. Per tutta risposta iniziarono bombardamenti aerei israeliani contro molte infrastrutture sensibili come l’aeroporto di Beirut, i porti, le centrali elettriche e le principali vie di collegamento terrestre con la Siria, i quartieri della periferia meridionale di Beirut e diversi villaggi nel Libano meridionale, con migliaia di vittime civili.

Durante gli scontri gli Hezbollah lanciarono migliaia di razzi con bombe a grappolo di tipo cinese sul territorio israeliano, causando panico e vittime fra la popolazione civile. L’11 agosto 2006, dopo settimane di tentativi per ottenere una tregua tra le parti per consentire l’apertura di corridoi umanitari in favore della popolazione civile libanese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite votò all’unanimità la Risoluzione 1701. Il testo della risoluzione chiese l’immediata cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, in concomitanza con lo schierarsi nella zona delle truppe regolari libanesi e dell’UNIFIL con la creazione di una zona cuscinetto “libera da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi” per 12 miglia tra la frontiera israelo-libanese e il fiume Litani.

La seconda missione UNIFIL (UNIFIL 2)

Il 25 agosto 2006, l’Unione Europea stabilì l’invio di circa settemila militari europei per costituire il nucleo centrale della forza multinazionale di interposizione nel Libano meridionale (seconda missione UNIFIL). Il comando della missione, inizialmente guidata dalla Francia, passò all’Italia nel febbraio 2007 (Operazione Leonte), frapponendosi fra le due parti con un profilo passivo per assicurarsi che tale area non fosse utilizzata per attività offensive di ogni genere. Il compito di disarmare i gruppi armati restò alle forze regolari libanesi, responsabili anche di controllare il confine siriano, fonte di approvvigionamento delle armi per gli Hezbollah.

Dopo nuovi scontri tra sciiti e sunniti, avvenuti agli inizi di maggio 2008, una mediazione internazionale guidata dal Qatar permise alle fazioni politiche locali di accordarsi per l’elezione del generale Michel Suleiman alla presidenza della repubblica e per la formazione di un governo di unità nazionale, in vista delle elezioni parlamentari previste per la primavera del 2009.

Nel 2011, nel corso della guerra civile siriana, si ebbe un riacutizzarsi dello scontro tra le fazioni sunnite e quelle sciite. Lo sconfinamento della guerra civile siriana in Libano non solo coinvolse i villaggi al confine siriano, ma anche i grandi centri urbani, tra cui Beirut, Sidone e Tripoli dove si verificarono scontri armati, rapimenti e attentati.

Ma quale fu l’impatto della crisi siriana in Libano?

Nell’agosto 2012, il primo ministro Najib Miqati affermò che esistevano spinte interne per trascinare il Libano sempre più nel conflitto siriano. La situazione diventò sempre più critica e richiese ai leader di tutte le fazioni di cooperare per proteggere il Libano, chiedendo aiuto alla comunità internazionale per evitare di essere un altro teatro nella guerra civile siriana.

Di fatto la guerra civile siriana e il suo impatto interno favorirono la polarizzazione della politica libanese. Da un lato l’Alleanza del 14 marzo, dominata da partiti cristiani e sunniti, largamente solidale con l’opposizione siriana a Bashar Al-Assad, dall’altro i partiti pro Assad.

Dal febbraio 2013, il numero dei rifugiati siriani in Libano è salito ad oltre 180000, creando non pochi problemi interni. Un fattore non trascurabile nella stabilità interna libanese è il rapporto tra Hezbollah ed il regime siriano, che ha giocato un ruolo sempre più destabilizzante dopo il 2011; inizialmente i primi ebbero un coinvolgimento di basso livello ma, da aprile a giugno 2013, 1.700 combattenti di Hezbollah operarono in maniera sempre più incisiva a fianco del regime e in altri Paesi della regione, come lo Yemen (a fianco degli Houtis) e l’Iraq alimentando la frizione tra le fazioni sunnite-sciite. Questo schieramento non nasconde interessi iraniani nella regione medio orientale, osteggiati dai Paesi arabi del GCC che vedono negli Hezbollah un fastidioso sasso nella scarpa. Da parte sua la EU ne ha percepito l’invadenza e ha adottato politiche atte a rinforzare il governo e l’esercito libanese ufficiale.

In Libano esistono altri conflitti interni tra alawiti filo-siriani e fazioni sunnito islamiche che spesso degenerano in conflitti armati. A seguito di attentati jihadisti in Siria, come quelli del Jabhat al-Nusra contro le forze degli Hezbollah, in Libano si sono moltiplicati gli attacchi sia contro le strutture degli Hezbollah che contro l’esercito libanese. Oltre agli aspetti politici questa situazione di instabilità ha avuto importanti ricadute economiche rese ancora più drammatiche dai costi sociali e politici per gestire i rifugiati. Il mercato del lavoro è crollato come l’afflusso turistico verso le città storiche, già minacciato dal terrorismo interno, crollato del 40% tra il 2010 ed il 2013. Nel 2016 l’aumento del debito pubblico ha raggiunto il 148% del PIL. Similarmente il numero di rifugiati siriani è aumentato in maniera significativa. L’UNHCR ha valutato che nel novembre 2011, 8875 rifugiati furono registrati dall’UNHCR; quasi tutti iracheni, e solo l’1% erano provenienti dalla Siria.

Negli anni seguenti la situazione è mutata radicalmente passando a oltre 33000 siriani nel luglio 2012, 180000 nel 2013 fino ad un picco di oltre 1,1 milioni nel 2014 (dati UNHCR, 2018). La maggior parte di loro ha trovato impiego nell’agricoltura (28%), nei servizi domestici (36%) e nelle costruzioni edili. L’impiego nell’agricoltura trova ragione nel fatto che i Siriani provenivano in gran parte dalla valle del Bekaa, zona agricola di eccellenza siriana. La domanda che ci si pone è se questo squilibrio modificherà la politica locale inasprendo ancora di più le fragili tensioni interne.

Un mare di petrolio e gas

Gli Hezbollah sembrano continuare una politica aggressiva attaccando le piattaforme israeliane. L’area rivendicata si estende su una distesa triangolare di circa 800 km², ricca di gas e petrolio. Nulla sono valse azioni da parte degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite di mediare una soluzione pacifica sulla controversia marittime della zona. Sia il Libano che Israele hanno reclamato questo territorio per decenni, ma la disputa è stata esacerbata a seguito di accordi marittimi separati e siglati con Cipro, firmato dal Libano nel 2007 e da Israele nel 2010, che hanno causato una lite diplomatica che ha finito per portarli ad accusarsi l’un l’altro di furto territoriale. Il diritto internazionale prevede che, nei casi in cui due Stati condividano una zona marittima o un confine, si sia soliti dividere equamente il territorio tra gli Stati, ma non sembra questo il caso.

Il Mediterraneo orientale possiede nei suoi fondali vasti ed ancora inutilizzati giacimenti di combustibile fossile. In gioco nel Bacino del Levante tra Egitto e Siria vi sarebbe una disponibilità di combustibile fossile pari a 122 trilioni di metri cubi di gas naturale e una quantità di petrolio equivalente a 1,7 miliardi di barili.

Nel 2017 il Libano ha dato il suo assenso all’esplorazione dei fondali marini, concedendo a Eni (Italia), Novatek (Russia) e Total (Francia) i primi blocchi in cui è stata suddivisa l’area sotto la giurisdizione libanese. Questo non è piaciuto a Israele che ritiene sue quelle acque territoriali. Il Libano ha inviato una lettera all’Onu che respinge con forza la mappa con i nuovi confini marittimi approvata da Tel Aviv. Israele con il sostegno degli Stati Uniti, alza i toni, giustificandosi con gli attacchi degli Hezbollah e la situazione sta rapidamente degenerandosi con un aumento costante dell’instabilità nell’area e conseguenti migrazioni verso l’Europa. In gioco ci sono oltre 600 miliardi di dollari e probabilmente nessuno dei due vorrà cedere dalle sue posizioni.

Intanto nell’area si affaccia la Turchia che potrebbe rivendicare la sua parte.

Andrea Mucedola (http://www.ocean4future.org)

Foto: Twitter / Marco K / U.S. DoD / Marina Militare / Alessandra Mulas / hardscarf