L’era del primato americano è terminata?

(di Gino Lanzara)
20/11/17

Definire la politica estera USA porta a dover considerare dei concetti di base dai quali poi estendere un tentativo di analisi. Egemonia, Imperialismo e Supremazia propongono delle accezioni che potrebbero attagliarsi alla situazione americana. Che gli USA rimangano una superpotenza non v’è dubbio; che la definizione di “secolo americano” coniata da Henry Luce negli anni ’40 del secolo scorso debba essere rivista è però altrettanto evidente. Le interpretazioni categoriche sono sempre da prendere con le molle, considerate la matrici ideologiche che le sottendono; dove l’Imperialismo presuppone un’ingerenza totalizzante anche negli affari interni degli Stati subordinati, l’Egemonia postula un nobile e “moderato” principio di direzione teorizzato già da Tucidide, innanzi tutto un primato culturale e non coercitivo, una leadership benevolente che, nel caso americano arriva però a toccare il punto d’incontro con il dominio sui Paesi che si conformano alla direzione egemonica impressa.

L’egemonia risiede nella sagace persuasione di parte significativa dei soggetti politici coinvolti a comportarsi indirizzandosi verso gli interessi ed i valori del Paese guida, che agisce in un contesto di condivisione e non di coercizione. Sotto questa ottica quello egemonico non è un ruolo acquisito per diritto divino, ma un presupposto costantemente rimesso in discussione dal tempo e dalle contingenze e che, per essere preservato, ha bisogno di un costante aggiornamento. C’è da chiedersi se la upper class Usa sia stata e sia capace di affrontare questo confronto; a suo (apparente) favore risiede il fatto che, dalla fine della 2^ WW, gli USA hanno rappresentato il modello egemonico più significativo e probante di tutta la storia, unitamente alla convinzione per cui l’idea del “destino manifesto” e della “missione” sia una componente essenziale dello spirito collettivo del Paese stesso. La fine del bipolarismo ha accentuato l’aspetto unilateralistico-tecnologico-economico e militare che ha portato ad un consolidamento dell’egemonismo sugli attori europei, e del dominio sugli altri Paesi interessati, anche se la globalizzazione ha fatto sì che emergessero nuovi giocatori, come la Cina.

Il caso di studio, considerata la recente evoluzione politica statunitense, riguarda la possibilità che l’egemonia americana possa declinare in un tempo relativamente breve, a similitudine di quanto accaduto nel passato al Regno Unito. Gli USA possono vantare un potenziale economico e militare incomparabile nell’età moderna, e soprattutto nessun obbligo di difesa di colonie oltremare, a dimostrazione del fatto che una potenza egemone non deve necessariamente avere un impero formale, ma sicuramente deve poter disporre di una potenza navale proiettabile nel globo. Riprendendo il pensiero di Carl Schmitt, è la talassocrazia a svolgere un compito egemonico e globalizzante, poiché sottomette la Terra alla logica del Mare in quanto legato alla supremazia dei flussi. Anche secondo Brzezinski il target americano fondamentale è quello di evitare la formazione di un Heartland che possa mettere in discussione il potere marittimo statunitense.

Il compito delle ultime amministrazioni di Washington avrebbe dunque dovuto essere quello di preservare e potenziare questa visione, peraltro ispiratrice della strategia delle ultime missioni NATO; come rilanciare la spinta egemonica contenendo gli inevitabili attriti con i singoli attori regionali?

Tenuto conto del bilanciamento sovietico durante la guerra fredda, e dell’insorgenza di Paesi con lo stesso temperamento americano, gli USA sono ora chiamati a riaffermare, più che una difficile egemonia, una solida supremazia in grado di sublimare soft, hard, economic, and military power. Tuttavia la teoria non può dissociarsi dalla realtà, e nel caso americano deve necessariamente fare i conti con le due anime politiche prevalenti (più le loro sfumature), la democratica e la repubblicana, con la prima ancora sensibile al senso di colpa per la disfatta vietnamita ed impegnata a validare pacifisticamente un “esemplare” soft power; la seconda votata al realismo kissingeriano votato a consolidare alleanze e proiezione di potenza. Le teorie sui cicli di vita “imperiali” hanno sempre correlato la potenza economica con quella geopolitica; malgrado l’esplosione delle bolle finanziarie ed il fallimento delle politiche estere di Bush ed Obama, il detenere una moneta centrale sia per il commercio che per i fondi sovrani, ha permesso agli USA di acquisire potere con costi minimi, grazie anche ad un sistema bancario dominante in tutto il globo, capace di bloccare canali ed accessi ai finanziamenti, ed utilizzabile alla stessa stregua e con le stesse modalità delle cannoniere della Royal Navy. La posizione dominante del biglietto verde ha consentito di accumulare un significativo debito poi “scaricato” su altri Paesi gravati dall’onere dei riequilibri, con le altre monete di fatto non in grado di sostituirsi al dollaro.

Quel che sta diventando più difficile da interpretare è la visione della realtà internazionale, il rapporto dialettico che intercorre tra il “potere - egemonia” ed il suo “uso – missione”. Prima Obama poi Trump hanno tentato di ridimensionare la “missione”, ma con esiti fortemente contrastanti. Sia Dem che Con (e NeoCon) hanno appoggiato i vari interventi senza porre limiti né agli obiettivi, né al raggiungimento dei target prefissati ma creando, insuccesso dopo insuccesso, un mondo popolato da nemici ideologici e comunque refrattari ad associarsi alla visione della missione disegnata dagli USA. Quel che rimane da chiedersi ora è se e come possa esplicarsi l’azione dell’Amministrazione Trump.

Obama ha peccato di imbarazzante carenza di coraggio politico a fronte di un progetto ambizioso, ma di fatto mai proposto realmente al popolo americano, che prevedeva un ridimensionamento dell’uso della forza con un contestuale disimpegno dalle zone più “calde” e con il rilancio della supremazia economica grazie alla creazione di uno spazio internazionale soggetto alle regole USA (TTIP, TAP). Oltre alla fisiologica opposizione repubblicana, Obama si è scontrato con un paradossale interventismo democratico e con i problemi creati da alleati impegnati a giocare in proprio partite dense di rischi e spinti dall’inerzia statunitense, così ben cesellata da essere capace di miscelare tutti gli elementi utili alla genesi di una “tempesta perfetta”.

Le previsioni del 1984 di Kehoane, che auspicava la nascita di un ordine internazionale con caratteri egemonici ma privo di un egemone, sono state sconfessate dalla realtà che, nel nuovo ordine internazionale, trova solo caos.

È dunque la fine del “secolo americano”? Joseph Nye respinge l’ipotesi del declino, sia esterno (relativo) che interno (assoluto), malgrado l’apparire di nuovi attori internazionali sulla scia delle crisi finanziarie che si sono succedute. Presumere che gli USA rischino concretamente di perdere terreno a favore della Cina avrebbe il significato di confondere i richiamati principi di declino in termini di gestione del potere proiettato sulle sue tre dimensioni, militare, economico e soft persuasivo. Tra gli attori internazionali considerati, il più temibile risulta essere il Dragone; tuttavia, dati concreti alla mano, anche laddove la Cina dovesse superare economicamente gli USA, il potere bellico e di moral suasion di Washington rimarrebbero saldi ancora per qualche decennio. L’Europa è tutt’ora priva di identificabile ed unitaria personalità politica e sociale con una conduzione della politica estera povera di real vision e ricca di demagogia, mentre il Giappone, pur godendo di un’economia forte e di una leadership volitiva, deve fare i conti con un problema demografico di rara gravità; la Russia, sospinta da nazionalismo ed antiliberalismo, risente di una struttura istituzionale e di un apparato giuridico deboli, corrotti e con un PIL non in grado di competere con quello americano, mentre l’India combatte contro i suoi paradossi: un arsenale militare di rara potenza a fronte di consistenti sacche di povertà diffusa; il Brasile, infine, sempre più un gigante dai piedi d’argilla, potenzialmente ricchissimo ma preda di corruzione e di gravi carenze infrastrutturali.

Solo la Cina vanta un PIL in crescita, con delle FFAA in rapida evoluzione ed una forte presenza nel cyberspazio capace di innescare conflitti asimmetrici, ma con diseguaglianze sociali ed economiche marcate, frequenti fenomeni di corruzione ed un persistente e connaturato illiberalismo. In sintesi Nye ritiene che anche negli anni a venire non sarà possibile prescindere dalla leadership americana, e se questa dovesse mai venir meno, succederà solo per responsabilità statunitensi, e non per meriti altrui. I fattori endogeni sono molti, in larga parte ereditati dal passato, e di certo non addebitabili alla presente amministrazione.

Ripercorrendo gli ultimi lustri di politica americana, è impossibile non constatare come alla Casa Bianca si siano succedute tre diverse “dinastie” di diverso colore politico: i Bush, i Clinton, gli Obama. Malgrado la stabilità assicurata dalle rielezioni presidenziali e dall’esercizio Dem del potere talvolta in forma quasi familistica, l’apertura continua di “fronti interni di discussione su temi sociali” e culturali che hanno condotto unicamente a fratture difficilmente sanabili, potrebbe far perdere agli USA la capacità di utilizzare il loro soft power. È evidente che una rinnovata Dottrina Monroe non agevolerebbe l’America, tuttavia è altrettanto evidente che il mancato ricorso obamiano alla costante consultazione popolare per le decisioni di più alto spessore ha indotto l’elettorato a decisioni radicali. In questo particolare momento storico il presidente Trump è forse il soggetto politico meno idoneo e meno versato all’arte della diplomazia, ma è altrettanto vero che l’eredità politica lasciatagli dai Dem è una delle più difficili da gestire.

L’Europa, protetta per lungo tempo dagli USA, ora cerca un difficile coordinamento tra Stati che garantisca una difesa comune e soprattutto esenti dal pagamento delle quote comuni (o le riduca) pro NATO, con la Germania tesa a creare divaricazioni politiche e commerciali; la Corea del Nord, problema colpevolmente irrisolto per anni e consegnato nelle mani di Trump, con le amministrazioni democratiche impegnate a curare quel pivot to Asia e quelle agevolazioni e quelle spinte economiche che hanno poi consentito alla Cina di diventare uno dei principali competitors, sollecitando tuttavia il revanscismo giapponese, ora più che mai volto alla riconquista di un orgoglio nazionale mai perduto; la questione ucraina, fatta deflagrare e non più controllata; la tragedia siriana (nella foto un immagine scattata lo scorso anno a Palmyra), forse uno dei picchi di mancanza decisionale dell’amministrazione Dem; le problematiche legate alle aperture concesse, ma non ratificate dal Congresso, al regime Castrista; le primavere arabe, abbandonate ai numerosi tragici esiti occorsi, non da ultimo l’assalto alla sede consolare americana di Bengasi; last but not least, la questione israelo-palestinese legata alle concessioni “nucleari” pro Iran, una potenza regionale destabilizzatrice che aspira (avendo forse anche già raggiunto il suo target) al potere atomico, che “costringono” l’attuale amministrazione americana a riconsiderare i rapporti sauditi e soprattutto israeliani, trascurati da Obama, ed ora fondamentali per il controllo dell’area da parte dell’unica vera democrazia laica del MO. I rapporti negoziali e diplomatici intrattenuti (tra alti e bassi) nell’ultimo anno dal presidente Trump sembrerebbero dunque essere indirizzati a riconfermare quanto meno una supremazia che gli USA non intendono concedere, sia dal preponderante punto di vista economico che del soft power.

Concordando con la vision di Nye, e rapportandola alla realtà, possiamo dire che l’era del primato americano non è ancora terminata, ma sicuramente è volta a cambiamenti significativi, anche perché va comunque tenuta in considerazione la possibilità che possa affermarsi – in un giorno non così lontano – un Paese altrettanto intraprendente e soprattutto capace di orientare i rapporti di forza in modo più deciso di quanto, in era post bipolare, abbiano voluto fare gli USA: gli “yankee” sono ancora più che predisposti alla competizione bellica, ma sembra che non siano riusciti a tenere conto che, nelle relazioni internazionali, il conflitto, che è e dovrebbe rimanere un’eccezione, ha di fatto incarnato un insuccesso diplomatico cui l’America, negli ultimi 25 anni, è apparsa ancor più predisposta. Il XXI secolo sarà dunque ancora ispirato dagli Stati Uniti con la loro rete di alleanze globali, e malgrado il fallimento dello smart power clintoniano poi ripreso da Obama. Nonostante quanto asserito e pubblicizzato, l’insuccesso del multilateralismo obamiano ha privato gli USA di una visione politica oggettiva, della capacità di immaginare e realizzare un futuro attagliato alla potenza del Paese che lo coltiva, consentendo un ritorno repubblicano più deciso e marcato di quanto fosse lecito attendersi.

Henry Kissinger, sul Washington Post, si chiedeva se gli Stati Uniti “avessero bisogno di una politica estera”; probabilmente gli americani dovrebbero semplicemente abbandonare una visione narcisistica abbracciandone una più realistica e consapevole delle conseguenze delle decisioni di una potenza nucleare. America first dunque, su basi effettive e non fondate su politiche tentennanti o rinunciatarie capaci solo di destabilizzazione; se è vero che gli USA continuano ad oscillare tra universalismo ed eccezionalismo, tra idealismo e realismo, è fondamentale che facciano di nuovo loro il pensiero di Otto von Bismark, per cui “non sono le discussioni che contano, ma il potenziale”. E gli USA lo detengono. Eccome.

(foto: U.S. Army / U.S. Navy / U.S. Air Force / U.S. Marine Corps / Difesa Online / U.S. DoD)