Il contrasto tra sciiti e sunniti, che ha caratterizzato tutta la storia araba praticamente dalle origini dell’Islàm, ma che non aveva dato vita a contrasti militarmente e politicamente rilevanti fra i paesi arabi, è improvvisamente esploso in concomitanza della rivoluzione iraniana del 1979, che ha portato alla ribalta un nuovo attore caratterizzato da una forte vocazione egemonica, immediatamente percepito come grave minaccia per il sistema di potere e il peso regionale delle Monarchie del Golfo, soprattutto di quelle con consistenti minoranze sciite, come Bahrein e Kuwait. Una frattura, quindi, che non solo ha portato alla separazione dell’Iran dal mondo occidentale (che l'aveva inizialmente ed erroneamente considerata un “male minore” rispetto a una possibile deriva comunista di fronte a un regime monarchico in gravissima crisi) ma anche, in forma virulenta, dal mondo arabo sunnita.
Tuttavia, all’origine delle attuali tensioni fra le due componenti del mondo arabo non vi è stato tanto il fattore religioso, quanto quello politico della ricerca della supremazia regionale. Lo scontro tra potenze che si contendevano, e ancora si contendono, la supremazia nella regione non è, quindi, contraddistinto da una guerra di religione ma dalla strumentalizzazione della religione a fini politici.
L'espansione dell'influenza iraniana nella regione mediorientale si è sviluppata principalmente attraverso i partiti e i gruppi armati di riferimento arabo-sciiti in Iraq e in Libano. Tuttavia, ancorché non secondario, l’aspetto terrestre della strategia di ampliamento della propria influenza è oggi superato dall’attivismo marittimo della Repubblica Islamica d’Iran che, in questo spazio cruciale sotto il profilo energetico e geopolitico, va a impattare direttamente sul traffico di risorse energetiche dirette verso il resto del mondo. Un’azione che è, come vedremo più avanti, facilitata dalla presenza di un importante passaggio obbligato per le navi, lo Stretto di Hormuz, porta di ingresso e di uscita del Golfo Persico.
Si tratta di un passaggio di poco meno di 100 miglia nautiche di lunghezza per una larghezza variabile tra le 22 e le 35 miglia. Dato che le acque costiere omanite sono poco profonde, inoltre, normalmente la navigazione avviene su rotte più vicine alle coste iraniane e ciò rende ancor più facile l’azione destrutturante di Teheran.
Vale, quindi, la pena di analizzare la strategia marittima iraniana, in modo da cercare di comprendere quali potrebbero essere le sue possibili implicazioni sugli equilibri geopolitici dell’area nel medio-lungo termine.
I precedenti
Le Forze navali iraniane nascono nel 19321 e costituiscono sia un motivo di fierezza nazionale sia uno strumento per l’affermazione della ambizioni regionali da parte dello scià Mohammed Reza Pahlavi. La natura elitaria della Marina iraniana è rappresentata al suo interno dalla presenza di numerosi familiari dello scià, in qualità di ufficiali. Una preferenza che si riflette anche sull’assegnazione delle risorse economiche, in particolare durante l’ultimo decennio di regno, che portano all’avvio di importanti programmi di sviluppo navale.
La rivoluzione del 1979, oltre agli evidenti e noti aspetti socio-politici, porterà sostanziali cambiamenti anche nello strumento militare iraniano, in particolare nella Marina imperiale. Per prima cosa, tutti i programmi di sviluppo navale vengono immediatamente sospesi. Per quanto attiene al personale della Marina, la maggior parte degli ufficiali vengono considerati come dei potenziali contro-rivoluzionari da parte del regime clericale e, di conseguenza, alcuni vengono imprigionati o assassinati, altri vengono licenziati o costretti alle dimissioni o all’esilio. Un ripulisti politico-ideologico che causa sia un sensibile indebolimento complessivo dello strumento militare marittimo iraniano sia una cessazione tout-court della cooperazione militare con l’Occidente. Le Forze navali vengono poi ridenominate come Marina della Repubblica Islamica d’Iran.
A ciò si aggiunge il fatto che, all’indomani della presa del potere, l’ayatollah Khomeini ha voluto, per varie ragioni, una dualità delle forze navali nazionali suddividendole tra Marina militare convenzionale, che vede la propria area di competenza nelle acque oltre lo Stretto di Hormuz, e Pasdaran (in persiano significa “coloro che vegliano”, conosciuti anche come “i Guardiani della Rivoluzione islamica”), che hanno il principale teatro operativo nelle acque del Golfo e, in particolare, di Hormuz (ciò spiega le loro continue tensioni con la V flotta USA, basata in Bahrein). Una dualità che si riflette nell’art. 150 della Costituzione iraniana, laddove recita che “…il corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica, organizzato dopo il trionfo della Rivoluzione, deve essere mantenuto in modo che possa operare secondo il suo ruolo e i suoi obiettivi. I suoi compiti e le sue aree di responsabilità, in relazione ai compiti e alle aree di responsabilità delle altre Forze Armate, saranno determinati dalla legge, ponendo l'accento sulla cooperazione fraterna e sull'armonia tra di loro.…”2.
La strategia marittima iraniana
Tenuto conto dei rapporti di forza del momento, la strategia marittima pensata dagli ayatollah prevede una risposta asimmetrica, attuata impiegando tante piccole unità veloci per limitare l’accesso al Golfo martellando e cercando di saturare le difese avversarie. Queste piccole unità possono essere equipaggiate con missili antinave e sono in grado sia di effettuare operazioni di posa di mine navali sia di attaccare “in sciame”, impiegando razzi e armi leggere.
L’obiettivo è quello di creare dei presupposti che rendano molto complicato l’accesso al Golfo, non attraverso l’impiego di navi grandi e potenti ma attraverso la presenza di moltissime piattaforme piccole e veloci (si parla di una cinquantina di unità motomissilistiche da 200 tonnellate circa e di centinaia di piattaforme più piccole armate di mitragliatrici e razzi). Una strategia ipotizzata nel 1874 da Théophile Aube, l’ammiraglio francese considerato il fondatore della Jeune École3.
Una scelta operativa, quella di avere delle capacità navali complessivamente modeste, che indica come l’Iran post-1979 “…non intenda lottare per la supremazia nelle acque del Golfo, ma impedire quella degli USA, attraverso l’impiego di strumenti a basso costo, allo scopo di limitare la capacità di manovra dell’avversario…”4. Una strategia ideata sia per contrastare le percepite ambizioni egemoniche statunitensi sia per opporsi ad altri rivali regionali, come l’Arabia Saudita.
Ciò nonostante, l’Iran sta ben attento a non rimanere invischiato in conflitti regionali più ampi, che potrebbero estendere il suo isolamento internazionale, e a non superare la soglia di una provocazione fatale, ben conscio che gli USA dispongono di oltre 30.000 uomini nell’area, senza contare portaerei, missili, bombardieri e gruppi d’assalto anfibi.
Lo scorso 1 settembre, per esempio, la fregata iraniana Jamaran (foto) ha recuperato due droni statunitensi e solo l’immediato intervento di due unità USA, che erano nelle vicinanze, hanno convinto l’equipaggio a restituire il materiale.
Per quanto attiene al personale, è indicativo di una certa scelta politica il fatto che la Marina convenzionale conti circa 18.000 uomini (dati del 2021), mentre la componente navale dei Pasdaran ne comprenda più di 20.0005.
Come afferma Clément Therme, ricercatore dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra, la principale debolezza dello strumento marittimo iraniano è rappresentato dalle sue infrastrutture, la maggior parte delle quali è abbastanza datata. Ciò pone intuibili problemi per la manutenzione delle navi e provoca una carenza di flessibilità delle piattaforme utilizzate dalle forze navali.
Anche sotto il profilo addestrativo/tecnologico le navi e gli equipaggi iraniani non brillano, causando imbarazzo a Teheran.
Secondo quanto riportato dalle agenzie, il 10 maggio 2020, durante un’esercitazione “a caldo”, sempre il Jamaran ha lanciato un missile “Noor” (missile da crociera antinave a lungo raggio prodotto dall'Iran) che ha agganciato, colpito e affondato la nave appoggio Konarak (foto seguente) invece che il bersaglio trainato, causando 19 morti e 15 feriti. E questo non è stato il primo né il più grave errore compiuto dalle navi dei Pasdaran.
Un altro aspetto della strategia marittima iraniana è quello relativo al tentativo di rompere l’isolamento politico e militare seguito alla rivoluzione. In tale ambito Teheran ha avviato una serie di iniziative di cooperazione (militare) principalmente con Mosca e Pechino. La collaborazione globale con la Cina siglata nel marzo 2021, in particolare, ha lo scopo di incoraggiare l’effettuazione di esercitazioni militari e navali congiunte. Non è una cosa nuova, ma la formalizzazione di ciò che è stato fatto da Iran e Cina negli ultimi dieci anni, avendo effettuato insieme alcune esercitazioni navali, come nel settembre 2014, nel giugno 2017, nel dicembre 2019 e nel gennaio 2022. Le ultime due hanno visto anche la partecipazione della Russia (leggi articolo "Hong Kong, Pechino e il Mar Cinese Meridionale").
Dato che la Cina nutre delle ambizioni marittime globali e tenuto conto che é il principale importatore di petrolio dalla zona, é molto probabile che Pechino riesca nel breve/medio termine a stabilire un importante punto di appoggio navale sulle coste iraniane del Golfo, in particolare facendo leva sull’intenzione dei due paesi di intensificare la frequenza delle esercitazioni navali congiunte. Pechino avrebbe così accesso permanente a uno spazio strategico sul quale transita il 30% del traffico marittimo di idrocarburi.
Pare, infatti, che siano stati già avviati dei negoziati informali per ottenere l’accesso per 25 anni all’isola iraniana di Kish. Notizia che sarebbe stata smentita dagli organi ufficiali iraniani ma che a Teheran continua a rimbalzare tra le pareti delle stanze dove si decide, mostrando se non altro l’interesse di taluni a mettere sul tavolo l’ipotesi di un tale accordo. Sta di fatto che l’elezione del presidente Ibrahim Raisi nell’agosto 2021 ha reso più concreta una tale eventualità, giacché la sua strategia è basata su un ulteriore avvicinamento tra Teheran e Pechino. Tutto ciò si inserisce in un quadro geopolitico ancora abbastanza teso.
Il quadro geopolitico
Il Golfo Persico è una regione estremamente importante non solo per l’economia mondiale, ma anche per la stabilità generale di quella zona di interesse strategico nota come Mediterraneo allargato. Si tratta di un’area tormentata da scontri politici e militari (da ultimo la guerra civile in Yemen), spesso aggravati da antiche e vivaci dispute ideologiche e religiose, ed è stata da molti definita come una pericolosa mina vagante del mondo contemporaneo, potenzialmente in grado di condizionare l’avvenire di tutti quei paesi che, direttamente o indirettamente, vi gravitano attorno economicamente e/o politicamente.
Come ho già accennato, l’instabilità dell’area è generata sia dalla difficile convivenza di due colossi come Iran e Arabia Saudita, divisi per il diverso orientamento religioso (sciita il primo e sunnita il secondo) e avversari per il predominio sull’area, sia a causa della fragilità interna dei vari reami ed emirati, ancora in parte organizzati in maniera feudale, che si trovano affacciati sul Golfo.
Una miscela esplosiva che potrebbe mettere in serio pericolo l’economia mondiale. Dopo circa trent’anni di guerra (Iran-Iraq, Golfo I e II) l’equilibrio dell’area ne è infatti uscito profondamente mutato e l’intera regione, importantissima per l’approvvigionamento mondiale di petrolio e cerniera dei rapporti con l’Asia, si è trovata in un contesto nuovo e, per molti versi, ancora in evoluzione.
La delicatezza dell’area, che racchiude uno specchio di mare che misura circa 160 miglia di larghezza per circa 460 miglia di lunghezza, è ancor più messa in evidenza dalla sua particolare conformazione orografica. Basti pensare a ciò che rappresenta, per il traffico mercantile, il passaggio obbligato attraverso lo Stretto di Hormuz.
Posto tra Iran e penisola arabica esso è al centro delle rotte marittime più importanti al mondo, soprattutto per il commercio del petrolio. Tanto per comprendere la sua portata economica, la sola Arabia Saudita nel 2018 ha fatto passare nello stretto circa 6,5 milioni di barili di petrolio al giorno.
E proprio lo stretto di Hormuz si è trovato al centro di una grave crisi internazionale nel recente passato. È lì che tra attacchi alle petroliere e abbattimenti di droni, nel corso del 2019, si è accentuata la competizione tra Iran da una parte e Stati Uniti e alleati dall’altra. In tale ambito Riyad non ha più relazioni diplomatiche con Teheran dal 3 gennaio 2016. Abu Dhabi, invece, sembra che ultimamente stia cercando un avvicinamento a Teheran tant’è che, il 13 agosto 2021, ha annunciato di voler normalizzare i suoi rapporti con quel paese. Un annuncio a sorpresa che non ha mancato di suscitare alcune perplessità anche in Iran, dato che il successivo 15 settembre, gli EAU hanno firmato gli accordi di Abramo, atto con il quale Israele - acerrimo antagonista di Teheran - è diventato un attore a pieno titolo dell’architettura di sicurezza del Golfo, come subito sottolineato con la partecipazione alle esercitazioni navali coordinate da US CENTCOM. In tale ambito il Qatar, dopo la composizione dei dissidi con i sauditi (5 gennaio 2021) generati dalla grave crisi del 5 giugno 2017, si è proposto come mediatore tra questi e gli ayatollah, organizzando incontri che finora non hanno dato risultati degni di nota (l’ultima il 21 aprile 2022).
Mentre parla con “lingua di liquirizia”, auspicando un’intesa con i sauditi come unica maniera per rasserenare il quadro securitario dell’area, l’Iran continua infatti ad agire sul mare (v. per esempio il caso del Jamaran).
In tale ambito gli USA, nonostante la generalizzata politica di disingaggio del presidente Trump, hanno voluto mantenere una forte presenza militare navale nell’area, prevalentemente grazie all’alleato saudita, con l’”Operation Sentinel” congiuntamente a unità della Gran Bretagna, Israele e Corea del Sud. L’Amministrazione Biden, tuttavia, sul teatro mediorientale appare ancora applicare una strategia debole e senza un chiaro orizzonte, come confermato dalla caotica fuga statunitense da Kabul nel 2021.
La Russia e particolarmente la Cina, come detto, si affidano all’Iran per assicurarsi una capacità di partecipazione alle questioni locali. Tuttavia, la loro influenza sarà probabilmente temperata dalle complesse storie locali e dalle molte rivalità etniche e settarie.
Tutti questi interessi nazionali si traducono in una significativa presenza militare navale nell’area nel quadro di operazioni multinazionali, la cui capacità di deterrenza nei confronti di possibili impedimenti alla libertà di navigazione si manifesta prevalentemente con attività di scorta ai mercantili, ritenuti il più probabile obiettivo di azioni ostili.
E l’Europa? Alcuni paesi europei hanno deciso di avviare un’operazione denominata AGENOR nell’ambito dell’iniziativa “European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz” (EMASOH), che si pone l’obiettivo di garantire la presenza europea in quest’area sensibile con un contingente militare a connotazione prevalentemente marittima, per evitare possibili rischi a navi mercantili e agli equipaggi in transito, elemento essenziale per l’economia del vecchio continente.
L’Italia partecipa con una sua unità e, dal luglio 2022, ha assunto il comando tattico del dispositivo. Questo impegno, unitamente agli altri impegni navali internazionali in cui l’Italia è presente sui mari del mondo a pieno titolo, necessita che le navi siano pienamente operative. Ciò richiede lungimiranza politica e l’applicazione di una concreta visione strategica, che permetta di mettere da parte interessi di parte e obsolete e restrittive visioni del passato. Essendo nostro preciso interesse rimanere in quelle acque è quindi indispensabile assicurare ogni possibile supporto alle nostre unità, consentendo loro di poter efficacemente “battere l’onda” a tutela del prestigio, dei legittimi interessi e dell’economia nazionale.
Conclusioni
L’orientamento, o la vocazione marittima, di un paese si giudica valutando l’importanza assegnata alla dimensione navale in rapporto a quella terrestre. In tale ambito, non sembra che Teheran assegni una particolare valenza agli aspetti marittimi rispetto a quelli della sicurezza e della stabilità interna. L’orientamento marittimo iraniano, che ha costituito la principale direttrice strategica durante l’ultimo periodo imperiale (1925-1979) è, quindi, diventato “solo” uno dei mille aspetti della risposta militare asimmetrica della Repubblica islamica, per preservare la sua identità ideologica senza rimettere in discussione la sopravvivenza dello Stato rivoluzionario. Un sistema di potere attento soprattutto alla situazione interna dove le attuali diffuse proteste contro un metodo troppo asfissiante potrebbero, in caso di concomitante grave crisi militare, provocare cedimenti o prestarsi a manovre sovversive del regime, per gli ayatollah prezioso patrimonio da salvaguardare prima di ogni altra cosa.
Anche se il budget militare è cresciuto dai 16,5 miliardi di USD del 2020 ai circa 25 miliardi del 2021 e anche se, nonostante le restrizioni imposte dalle sanzioni, ha mantenuto una certa capacità industriale di produzione di missili e droni, l’Iran non appare in grado, nel breve e medio periodo, di sostenere uno scontro navale maggiore o di impedire il transito delle navi da e per il Golfo Persico attraverso l’applicazione della strategia Anti Access/Area Denial (A2/AD), una strategia tipicamente difensiva, applicata generalmente da chi sa bene di non avere la forza per imporre la propria volontà sui mari.
A ciò va tuttavia aggiunto che proprio l’esistenza dello Stretto di Hormuz presenta anche aspetti negativi per Teheran. Se, infatti, da un lato é la sola via per raggiungere l’Iran via mare (in particolare il grande porto di Bandar-Abbas), dall’altro è anche il suo unico accesso alle grandi rotte commerciali, dato che al momento ci sono solo annunci circa l’esistenza di progetti per la costruzione di una grande porto commerciale nei pressi di Jask. Quando sarà eventualmente realizzato, tuttavia, sarebbe comunque l’unico approdo lungo i suoi quasi 640 km di costa sul Mar Arabico. Di conseguenza, a tutt’oggi anche le rotte commerciali iraniane (specialmente quelle del petrolio) sono, per così dire, ancora prigioniere delle forche caudine di Hormuz.
Se da un lato Teheran vorrebbe aspirare a essere un attore marittimo globale (nel settembre 2021 una flottiglia ha partecipato ad alcune manovre sull’Oceano Atlantico) e nonostante la guida suprema Alì Khamenei si sforzi di sottolineare regolarmente gli autarchici progressi marittimi di Teheran, come l’entrata in servizio del catamarano Soleimani (foto apertura) lo scorso settembre, nel breve e medio termine le sue ambizioni rimangono retoriche e simboliche, dato che le capacità militari iraniane nel settore marittimo sono largamente insufficienti per imporre la propria volontà sui mari e per contrastare in maniera significativa, al di fuori di Hormuz, i traffici mercantili mondiali.
Tuttavia, pur avendo una capacità navale complessivamente modesta, l’Iran rimane un attore protagonista in quelle acque, ed è in grado di costituire una minaccia non trascurabile nell’area dello Stretto di Hormuz e di influire sul flusso dei rifornimenti energetici verso le rotte commerciali mondiali.
1 Chelsi Mueller, The origins of the Arab-Iranian conflict: Nationalism and Sovereignty in the Gulf between the World Wars, Cambridge University Press, 2020
2 Testo integrale in inglese sul sito dell’Iran Chamber Society, The Constitution of Islamic Republic of Iran
3 Renato Scarfi, Aspetti marittimi della Prima Guerra Mondiale, Ed. Ponte di Mezzo, 2018
4 Jean-Lup Samaan, Rivalités irano-saouidiennes: la dimension maritime, Moyen-Orient, 2018
5 International Institute for Strategic Studies (IISS), The Military Balance 2022
Foto: IRNA / Tasnim News Agency / web