La lezione di Monaco: l’Europa tra il risveglio americano e le sue illusioni

(di Gino Lanzara)
22/02/25

Se si dovesse tener conto dell’arco temporale degli ultimi eventi, l’idea millenaristica della congiunzione astrale irripetibile ci starebbe tutta.

Al di là degli esoterismi, la politica ha perduto i suoi equilibri con le ascese di alcuni attori e le contemporanee picchiate di altri. I colloqui tenuti a Monaco hanno certificato nuovi scenari, peraltro ribaditi a stretto giro, dove il tema, la sicurezza, ha contribuito a rendere teso ed assolutamente non coeso il contesto, forse condizionato dai trascorsi della città tedesca, ricordata per le birrerie e per pericolosi appeasement di neanche troppo lontana data.

Ma è una boutade, visto che tra cancel culture e retroterra culturali di particolare labilità, il ricordo tende a dissolversi come bruma. Ed è cosa di inedita rilevanza, visto che l’entità più coinvolta, l’Europa, è fatalmente da considerarsi più in via geografica che politica, una dimensione drammaticamente evanescente che eleva la posta in gioco, a meno che non si rivedano al rialzo i bilanci dedicati alla difesa, eventualità per taluni quanto meno chimerica.

Al di là delle convinzioni soggettive, continuare a guardare alla politica americana senza valutare come essa sia espressione di svariati complessi di contingenze, dà la sensazione di guardare al dito piuttosto che alla luna, dove l’attuale impalcatura europea, che intende sostenere un ordine liberale, avverte il sisma repubblicano di Washington che, di fatto, può provare l’altra infrastruttura internazionale, quella su cui poggia la Nato.

Se gli europei a Monaco cercavano rassicurazioni, il vicepresidente Vance ha portato un ulteriore elemento di riflessione per alcuni, di shock per altri, anche se non era quello che auspicavano visto che la tensione di qualsiasi tipo è preferibile scaricarla piuttosto che subirla. Non solo dazi o guerre commerciali dunque, ma anche una catechesi politica ed apodittica dispiegata per illustrare come la peggiore minaccia rimanga quella interna, quella della ritirata dai valori fondanti dell’Occidente condivisi con gli USA.

Un discorso spiazzante, inedito anche per la tradizione repubblicana che non riduce la rilevanza di Vance, titolare di riferimenti politico-ideologici più profondi di quelli di Trump, tanto da permettergli di intestarsi l’aspirazione al cambio dell’ordine post liberale globalizzante e del politicamente corretto.

Vance va ascoltato attentamente e soprattutto va compreso senza apriorismi, perché nulla vieta che, in un futuro neanche troppo lontano, possa ascendere alla Casa Bianca. Vance sarà anche un hillbilly, l’uomo emerso dalle realtà povere e marginalizzate degli Appalachi, ma è anche un laureato a Yale, è l’ex militare che ha servito in Iraq; è quello che ha creduto nei venture cap, negli investimenti necessari a finanziare start up di attività in settori ad elevato potenziale ma ad alto rischio. Vance è quello che ha stabilito un rapporto tra Musk ed il movimento populista di destra.

Attenzione, insomma, perché Vance potrebbe essere il futuro del GOP (Grand Old Party, il Partito Repubblicano), è il quarantenne che non ha temuto di traumatizzare una fin troppo formale ed ingessata Unione Europea, accusata di limitare la libertà di opinione e di non saper gestire la politica migratoria negli stessi giorni in cui proprio la Germania veniva colpita da nuovi sanguinosi attentati.

Comprensibile allora perché Vance, messaggero di MAGA e valori tradizionali, abbia lasciato il consesso in un silenzio sbigottito, con un uditorio dilaniato tra sorpresa e biasimo, colpito dai richiami alle elezioni romene, annullate per presunte ingerenze esterne, ed agli interventi dell’ex commissario Thierry Breton, intervenuto a gamba tesa sulle consultazioni tedesche1 ovviamente difese dal cancelliere uscente Scholz, ora refrattario ad interferenze esterne; una postura politica francamente sgradevole, capace di suscitare il grottesco ricordo del sipario Sarkozy-Merkel, o le affermazioni del ministro Shauble, tutte indirizzate senza alcuna diplomazia contro Roma.

Forse la chiave di lettura sta sia nel non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere, il pensiero di Evelyn Beatrice Hall, alla base di un archetipo che si rifà all’originale liberalismo anglo-francese da riscoprire senza cedere a tentazioni orwelliane da 1984, sia ad una misconoscenza del contesto intellettuale che ha formato Vance, che lo si approvi o meno.

In fondo, come un Maestro illuminato ha fatto notare, si sono viste tante cose già dette educatamente in passato e sbattute in viso più rudemente ora, da uomo di montagna. Si può non concordare sulla sostanza, ma certo non sulla scossa trasmessa, su timori generici, ingerenze, su presenze di personalità politically incorrect, lì la democrazia non può né deve temere alcunché.

È quanto mai evidente che la vera posta in gioco è la tenuta dell’UE secondo l’attuale architettura messa in trazione dagli attuali washingtoniani, che ancora non si intende bene se è il caso di mollare o di compiacere, tanto per evitare catastrofi peggiori in un continente troppo ingessato per inventare una nuova immagine di sé.

Beninteso, Vance ci è andato giù duro qui, ma non avrebbe dovuto stupire oltremodo dopo il discorso di insediamento di The Donald che, peraltro, non ha fatto altro che confermare le promesse elettorali con la riconsiderazione al ribasso di cultura woke e di una green economy che, nei termini in cui è declinata, rilancia la Cina, che è assodato che inquini, e affossa l’ovest.

Ma attenzione, perché anche il Presidente deve poter agire in sintonia con i poteri che lo attorniano: da solo alla fin fine, senza deep state, più di tanto non può. Quel che è certo è che, accertata l’ostilità cinese, rimane il boccone amaro dell’ex grande egemone russo che non può essere ceduto a Pechino.

Che fare con un impero a corto di proiezioni di potenza? Probabilmente l’unica strada rimane quella di un’attrazione orbitale del più debole perché non si compatti con l’egemone in ascesa, con la consapevolezza che, anche se avessero vinto i dem, magari la narrativa sarebbe stata diversa, ma i problemi, beh quelli sarebbero rimasti sostanzialmente gli stessi, con i russi neanche così dispiaciuti di riprendere una parvenza di liaison con un interlocutore tutto sommato più appetibile di Xi, sempre puntato alla riconquista della Siberia ed a rassicurare l’UE.

Ricordiamo sempre Vance a Monaco e l’eco diffusa di Trump da Washington: se i russi si staccano dalla Cina, Pechino rimane isolata e con minore propensione alla riconquista della provincia ribelle di Taiwan. Il problema è da un lato la contropartita ucraina, e dall’altro l’ipotesi di una seduzione sino-russa che, segnando l’insuccesso dei tentativi di riavvicinamento, costringerebbe gli americani ad affrontare due nemici, non uno soltanto.

Nel mentre, l’Europa continua a farsi persuasa di possedere una soggettività che di fatto, politicamente, non esiste o, nel migliore dei casi, è molto debole, come del resto lo è la memoria politica, che non rammenta che fu proprio Putin il primo maggiorente russo a parlare alla Conferenza sulla sicurezza monacense che, forse per l’aria quanto mai gradevole della Baviera, vide l’attacco a mondo unipolare e USA, colpevoli demiurghi di una realtà foriera di conflitti.

Le lezioni di Monaco sono quelle che suggeriscono di non sottovalutare il despota che parla perché potrebbe essere pernicioso, e che la pace, come quella che avrebbe potuto essere generata nel ’38, passa attraverso la forza. Insomma, la storia di Monaco non può essere dimenticata, specie ora che l’Europa rincorre la politica internazionale sospinta dalle sollecitazioni prodotte dalla grandeur di un singolo paese. Il discorso di Vance va dunque associato alle iniziative di Trump, rivolto alla Russia e all’Arabia Saudita, che Biden derubricò imprudentemente a paria, e correlato alla mancanza di risultati concreti in un ambito europeo, mai così privo di linee politiche unitarie.

Trump vorrebbe un’Europa più affine agli USA, con Pechino che però tira la giacchetta di Bruxelles dall’altro lato per conservare uno status quo che privilegia una pesante dipendenza economica utile a trarre vantaggio dalle faglie interne; in quest’ottica si pone la politica perseguita dall’intramontabile ministro degli esteri cinese, Wang Yi, prodigo di tranquillizzanti rassicurazioni, fondate su un multipolarismo in cui il PCC garantirà certezza e costruttività, collegandosi alla BRI al prezzo di due grami miseri semplici penny (cit. Mary Poppins).

Se perfino Draghi, ex premier e governatore della BCE ha chiesto riforme draconiane in ambito Unione Europea, forse in questi termini l’Europa è davvero prigioniera della sua burocrazia e di sè stessa con competitività e produttività seriamente a rischio, sia a fronte degli USA che dell’Impero di Mezzo, visto che barriere commerciali interne ed ostacoli normativi possono diventare peggiori di qualsiasi tariffa trumpiana.

Mentre si cerca di ipotizzare una linea politica, l’Europa è costretta a doversi confrontare con l’espansionismo russo ad est e con un iper realismo americano a ovest che lascia una Bruxelles immusonita ma inane e senza piani concreti, specie per la componente bellica che, per quanto concerne la querelle ucraina2, come accennato da Lucio Caracciolo, pone il dilemma della differenza tra pace giusta e pace possibile, dove mediamente tutti i conflitti si concludono con la seconda. Insomma, gli yankee piacciono meno di prima, ma il loro disimpegno, temuto laddove correlato al rischio del burian siberiano, fa sperare che nelle sue circonvoluzioni la politica americana non abbandoni i complicatissimi cugini d’oltre atlantico inorriditi dall’impopolare Vance, alla stregua dei commensali del restaurant Chez Paul di Mr Fabulous con i Blues Brothers.

Attenzione, perché alla garanzia securitaria americana al momento e presumibilmente per molto tempo, non c’è alternativa; dunque, sotto con gli amari calici, del resto già anticipati nel '63 da JFK che sollecitò gli europei ad una maggiore responsabilità difensiva, in previsione del fatto che il tanto sospirato nuovo ordine potrebbe non essere così gradevole come sperato, sempre che gli attuali USA non intendano procedere con un loro divide et impera, alla stregua di Pechino; da ricordare, senza pregiudiziali, la proposta di acquisizione avanzata sulla Groenlandia, del tutto non nuova nella politica statunitense, dunque non annoverabile tra le gratuità trumpiane.

Siamo onesti, è un complesso di posizioni d’emblée concettualmente difficile da accettare, ma che deve essere razionalizzato, prescindendo dai pregiudizi e compiendo un esercizio di collegamento induttivo. Il problema è comprendere se, nel vecchio continente, questo sia possibile o se, sul crinale alla sinistra sotto la vista degli alberi, ci siano ancora colonnelli che guardano agli americani solo come giovanotti sfacciati (cit. facile da indovinare)

1 "Applichiamo le nostre leggi in Europa quando c’è il rischio che vengano aggirate. Lo abbiamo fatto in Romania, e – anticipa – se necessario lo dovremo fare anche in Germania".

2 Elementi dell’ipotetico compromesso ucraino: concessioni territoriali e moratoria ventennale sull'adesione di Kiev alla NATO. Elementi dell’ipotetico compromesso russo: maggiore armamento ucraino e creazione di una zona smilitarizzata tra le forze occupata dalle forze europee

Foto: NATO