L’incontro con le giornaliste Marta Ottaviani e Anna Zafesova Istanbul e con l’attivista Pegah Moshir Pour presso il Salone del Libro di Torino in occasione della presentazione dei loro libri dedicati alle città di Istanbul, Pietroburgo e Teheran è un’occasione per uno spunto di riflessione su alcuni, preoccupanti, aspetti della situazione geopolitica attuale. Città post-imperiali che incarnano un modello societario, un’idea comunitaria, cosa rappresentano oggi?
Partiamo da Istanbul, iconica metropoli turca per analizzare la condotta politica del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Il Sultano Erdoğan, che nel 2009 ha preso le distanze dall’Unione Europea, in un modo o nell’altro sta governando da poco più di vent’anni e, a onor del vero, per i primi dieci ha anche goduto di un largo consenso da parte dell’elettorato. Ricordiamo che Erdoğan è stato primo ministro dal 2003 al 2014, anno in cui è stato eletto direttamente dal popolo, dopo aver cambiato la Costituzione (fino al 2007 il presidente della Turchia era eletto dal parlamento). La legge turca, infatti, non gli avrebbe permesso di assolvere un quarto mandato da primo ministro e il mandato presidenziale gli ha consentito di restare in carica, di volta in volta, per altri sette anni. Il presidente, inoltre, ha la possibilità di nominare i giudici della corte costituzionale, che fino alla sua elezione sono stati tra gli avversari più agguerriti di Erdoğan.
Nel 2016 il tentativo di detronizzarlo si risolse in un fallimento e, come ricorda la giornalista Marta Ottaviani, vide attuare delle “purghe”, in aderenza ai principi di una dittatura:
“Il lettore ricorderà bene il golpe fallito del 2016… secondo i sostenitori del presidente, fu la resa dei conti fra due ali della destra islamica, quella di Erdoğan e quella dell’ex imam Fethullah Gülen (1941-2024) che controllava parte dell’esercito, della burocrazia e della magistratura. Molti ritengono che il leader turco fosse a conoscenza del golpe, condotto da una minoranza delle Forze armate, e che li abbia lasciati fare per poi eliminare tutto il sistema di potere parallelo che Gülen aveva messo in piedi nel corso dei decenni. La repressione è durata anni: oltre 300 mila arresti, di cui 99 mila rinvii a giudizio, 3 mila condanne all’ergastolo e 4.890 pene minori. Hanno perso il posto oltre 23 mila soldati, quasi 4 mila giudici e più di 100 mila funzionari della pubblica amministrazione.”1
In tal modo, il despota ha potuto creare lo spazio necessario alla collocazione dei propri fedelissimi nei centri di potere istituzionale.
Tra le varie figure autocratiche attualmente al governo in varie parti del mondo, tutto sommato Erdoğan è quella più di successo in quanto, nonostante le iniziative come la repressione descritta, rispetto agli altri si può dire che sia ancora un “moderato”, insomma, che non esageri. Riflettiamo sul fatto che oggi in Turchia la popolazione dei ventenni ha conosciuto solo il governo di Erdoğan e tra essi, se è vero che una metà mostra segni di insofferenza verso la sua politica, l’altra metà lo approva pienamente.
L’opposizione, in realtà, esiste. All’inizio era rappresentata prevalentemente dai kemalisti sostenitori del Partito Popoloare Repubblicano, nella veste di vetusti propugnatori delle idee di Ataturk. Il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, arrestato e decaduto dalla carica il 19 marzo 2025 con le accuse di frode, corruzione e favoreggiamento del PKK, dai suoi concittadini è considerato un buon sindaco, Il suo torto è quello di rappresentare il “volto nuovo” di un’opposizione politica che, tra l’altro, fonda i propri principi sul credo islamico, notoriamente cavallo di battaglia del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) del presidente Erdoğan. È presumibile che İmamoğlu non uscirà di galera facilmente. Ma non basta, le strategie del Sultano prevedono anche un vantaggioso riavvicinamento ai curdi che, riammessi nell’agone politico, potrebbero appoggiare degli emendamenti alla Costituzione mirati a garantire il terzo mandato presidenziale di Erdoğan. La fine delle ostilità con il PKK, inoltre, potrebbe indebolire o condizionare anche i curdi siriani, contro cui la Turchia combatte da tempo.
Pietroburgo nasce da un afflato geopolitico come città pervasa dallo spirito europeo, una realtà urbana ”cerebrale” che vuole prendere le distanze dalla Russia moscovita. È la città dello Zar Pietro e, nondimeno, dello Zar Vladimir (Putin): la città che nel passato si poneva come il luogo della rinascita sotto un sovrano illuminato e modernista, nel presente è diventata il luogo dello zarismo di riflusso sotto un presidente oscurantista e reazionario.
Alla metà di maggio, Istanbul, ha ospitato i negoziati per il tentativo di raggiungere se non la pace, almeno una tregua tra la Russia e l’Ucraina. Lo Zar Putin, dunque, ha potuto contare sul gioco delle parti recitato con il Sultano Erdogan fin dai tempi dell’ambiguo rapporto tra Mosca ed Ankara sul proscenio siriano e, sull’onda di un’affinità elettiva nella gestione della cosa pubblica, guadagnare tempo con l’illusionista (democratico?) Trump, in modo da poter proseguire agevolmente gli attacchi all’Ucraina. L’“opzione Istanbul” per un secondo round di negoziati è ancora aperta. Così Putin potrà prendere ancora tempo, dissimulando una buona volontà che non gli appartiene.
Se Erdoğan agli occhi di un miope può passare come un autocrate tollerante, è più difficile attribuire tale qualità allo Zar Putin, artefice di una pesante politica repressiva e autoritaria nel proprio paese. Le vicissitudini che hanno visto protagonista il dissidente russo Aleksej Naval'nyj sono note; più in sordina passa il terrore che pervade il tessuto sociale russo, dove una semplice affermazione giudicata non il linea con il pensiero governativo può far perdere il lavoro o condurre al carcere con le accuse più pretestuose. Non vanno trascurate, poi, le azioni violente ed intimidatorie perpetrate dai nuclei antisommossa degli Omon contro i (pochi) manifestanti che ancora osano radunarsi nelle piazze.
L’opposizione interna al paese è stata soffocata, anche attraverso capillari e pervasive campagne di propaganda che fanno leva sulla sensibilità patriottico-religiosa della popolazione. Un efficace brainwashing che visto in un’ottica storicistico-razionale appare ridicolo, ma che sul sentimento dell’uomo medio russo (e non solo russo) riesce ad attecchire. La giornalista esule Anna Zafesova racconta che i “martiri” del libero pensiero in Russia attualmente sono 3-4.000 e sono stati tutti incarcerati; per lo più si tratterebbe di dissidenti religiosi. Il movimento delle “mogli dei reclutati”, le compagne degli uomini inviati a combattere sul fronte ucraino, non ha alcun peso. L’opposizione in esilio può fare poco, perché i rappresentanti della diaspora sono spesso in disaccordo tra loro. Solo un cambio al vertice, cioè il venir meno del presidente Putin nel suo ruolo di leader, potrebbe portare ad un cambiamento della politica del Cremlino. Per ora nulla di simile si profila all’orizzonte.
In Russia manca la forza che hanno gli oppositori iraniani del regime, che sono giovani e in quanto tali, hanno un atteggiamento massimalista.
Arriviamo, allora, a Teheran, dove concludiamo la nostra passeggiata tra alcune delle dittature contemporanee. Per parlare della dissidenza iraniana nulla è più attuale ed illuminante delle parole dell’attivista per i diritti umani in esilio Pegah Moshir Pour, che affida all’entità chiamata Faravahar la descrizione dello spirito autentico del popolo iraniano, orientato a ben operare:
“Sono Faravahar, custode dell’identità di un popolo, sono il loro passato inciso nella pietra, il loro futuro ancora da scrivere. Sono il segno dello Zoroastrismo, la più antica religione dell’Iran, e la mia forma rappresenta l’equilibrio tra corpo, mente e spirito. Sono il guardiano silenzioso di una storia che si snoda tra millenni e che pulsa ancora oggi tra le vene di questa terra…. Sono Faravahar, per gli iraniani rappresento il ricordo di ciò che è eterno, un invito a vivere in armonia con sé stessi e con il mondo.”2
Parlando dei media di Teheran, la stessa, ha affermato che “Questo non è l’Iran degli iraniani, ma è l’Iran dei mullah”.
Il fil rouge della propaganda unisce le realtà contemporanee delle tre città e delle loro nazioni, ma in Iran, diversamente dalla Russia e dalla Turchia, la Storia diventa il baluardo della resistenza civile contro un regime che, al contrario, cerca di cancellare le radici del paese più profonde e lontane nel tempo. Oggi a Teheran è proibito raccontare e rappresentare il passato. Lo Zoroastrismo che permea e plasma la cultura iraniana deve essere rinnegato. Tuttavia, il regime degli ayatollah fatica a cancellare le festività e le celebrazioni non islamiche dalla memoria collettiva. La “polizia morale” è sempre più avversata e, come efficacemente narrato nel film “Il seme del fico sacro” del regista Mohammad Rasoulof (2024), la gioventù è sempre più ribelle. In generale, le ragazze e le donne appartenenti al modo intellettuale osano sempre di più sfidare le regole, rifiutando di indossare il velo come prescritto dalla religione islamica. Lo stesso fanno i ragazzi, scegliendo di indossare i pantaloni corti, altro capo di corredo proscritto dal dress-code di retaggio khomeinista. La “generazione Z” in Iran, tuttavia, paga un prezzo elevato per questo anelito verso la libertà: la gioventù iraniana vive nel terrore e per questa ragione l’uso di sostanze psicotrope è diffusissimo.
I problemi incontrati dagli oppositori del regime sono diversi. In primo luogo la diaspora iraniana presenta le stesse contraddizioni di quella russa e, a causa delle frammentazioni interne, non riesce ad essere efficace nelle proposte e nelle azioni condotte. Come accade in Russia e in Turchia, chi dà voce al dissenso all’interni del paese, di massima, è in carcere. Il “movimento verde”, che esprime il pensiero riformista, non può funzionare perché è legato a delle élite. Infine, fatto di non poco conto, manca una figura autorevole e carismatica che riesca a coalizzare il popolo attorno a sé e guidarlo nella lotta contro la tirannia. In assenza di un riferimento, è opinione diffusa tra i dissidenti che sia il popolo stesso a dover fare la rivoluzione; è vero, altresì che un leader ci debba essere, preferibilmente non in arrivo dall’esterno, come accadde con Khomeini.
È comunque difficoltoso per gli Ayatollah prevedere una stabilità interna nel medio – lungo periodo, soprattutto nell’ipotesi di conservazione del potere con il passaggio del ruolo di Guida Suprema da Ali Khamanei al proprio figlio Mojtaba, figura piuttosto invisa alla popolazione iraniana.
In questo quadro di situazione, già abbastanza complesso, c’è da chiedersi se e in che misura le azioni militari di Israele condotte contro le milizie filo-iraniane di Hezbollah contribuiscono alla causa dei contestatori iraniani. E anche le campagne mediatiche hanno un ruolo rilevante, come l’iniziativa israeliana di far leva sul sentimento anti-regime attraverso l’attivazione di siti web in lingua farsi per promuovere l’immagine dello Stato d’Israele in una prospettiva di fratellanza tra i due popoli:
“AJC Farsi è il nuovo progetto online dell'American Jewish Committee per coinvolgere gli iraniani, sia in Iran che nelle comunità della diaspora in tutto il mondo. Lanciato nel giugno 2021, questo importante progetto, che si basa sul successo di AJC Arabic , il progetto online di grande successo dell'organizzazione per coinvolgere il mondo arabofono, mira ad aumentare la comprensione del popolo ebraico da parte degli iraniani condividendo in persiano aspetti della storia ebraica, della vita ebraica contemporanea e questioni di importanza per il popolo ebraico. Oltre agli account Twitter e Instagram in lingua persiana, abbiamo anche creato un video in persiano intitolato "Chi sono gli ebrei?", che spiega la storia e le credenze ebraiche al pubblico iraniano.”3
In tale direzione si muove anche il quotidiano online The Times of Israel:
“Subito dopo aver fondato The Times of Israel, un decennio fa, ci siamo resi conto di un problema: le notizie su Israele nei media arabi e persiani sono spesso ostacolate da filtri ideologici che impediscono la divulgazione dei fatti. Questa distorsione arreca un grave danno ai milioni di lettori arabi e persiani nella regione di Israele e in tutto il mondo, e ostacola significativamente la capacità di Israele di raggiungere un terreno comune con i suoi vicini. Riteniamo che un giornalismo indipendente e veritiero sia essenziale per preservare non solo i fondamenti democratici dello Stato di Israele, ma anche per fornire un'immagine accurata di Israele agli occhi delle importantissime popolazioni che leggono l'arabo e il persiano.”4
La strada verso la una qualche forma di democrazia - non dobbiamo commettere sempre l’errore di pensare con le categorie occidentali - anche per questo popolo appare lunga e tortuosa.
Tre città eredi di fasti passati che assurgono a simbolo delle sofferenze dei loro abitanti, a loro volta casse di risonanza del grande disagio sociale dei paesi a cui appartengono. Tre città di cui si spera che un giorno diventino simbolo della ritrovata libertà ed emancipazione dei loro abitanti da governi che non agevolano certamente gli ideali di pace e di progresso. E non sono le uniche, purtroppo.
1 M.F. Ottaviani, Istanbul. Cronache graffianti dalla città degli imperatori, Paesi Edizioni, Roma, 2025.
2 P.M. Pour, Teheran. Il fascino millenario e l’inquietudine contemporanea, Paesi Edizioni, Roma, 2025.