Negli ultimi anni l’audience occidentale è stata saturata da termini mediorientali, e attirata in una realtà complessa, dinamica, pervasiva. Il problema è consistito nel non esserne stati pienamente consapevoli.
In un contesto esteso e articolato l’Islam ha seguito un proprio iter giunto a compimento dopo decine di anni. Impossibile comprendere il carattere composito della jihad senza scindere l’Islam politico dalla Fratellanza Musulmana degli anni 60 dell’egiziano Sayyd Qutb per giungere, dal fondamentalismo degli anni 70, alla visione globale di al Qa’ida.
La storia più recente ha poi condotto fino al settarismo del califfato dell’Isis ed all’inarrestabile propagazione non di un nuovo sentimento religioso quanto di una dimensione politico istituzionale che autorizzava l’opposizione alle miscredenti dirigenze mediorientali. Il piano teorico viene sopravanzato da quello operativo, si recuperano idee preesistenti, se ne generano di nuove: il percorso da Qutb alla globalizzazione qaedista sino all’Isis è dinamico ed evidenzia una inedita capacità darwiniana di adattamento che pone in luce relazioni multiple tra attori ed ambiente circostante; il conflitto siriano incide sull’evoluzione jihadista con conseguenze destinate a lasciare a lungo il loro segno, come accaduto in Afghanistan e Iraq, e consolida tre direttrici: al qaedismo globale si affianca il pragmatico e localista Isis, cui si è approssimata l’alternativa Hayat tahris al Sham sostenuta a Idlib dalla Turchia, tutte entità accomunate dall’appartenenza ideologica, ma con profonde differenze strategico politiche, testimoniate nel 2014 dalla competizione e dalla conseguente frattura tra la politicamente cauta al Qa’ida ed il più brutale Isis.
Daesh1, che ha spettacolarizzato le sue azioni, e al Qaida, che ha puntato all’occultamento, condividono solo lo stesso obiettivo, ovvero la creazione di uno stato islamico sul modello di quello disegnato da Maometto e dai califfi; tuttavia per al Qa’ida il califfato è un obiettivo di là da venire, e per raggiungerlo è necessario seguire il classico paradigma terroristico, ovvero colpire il nemico causando una reazione tale da indurre la popolazione a schierarsi con chi ha prodotto il terrore; secondo l’Isis, il califfato è una realtà locale, terrena, presente, da difendere. Anche le tattiche sono diverse; quelle Isis sono violente e di forte impatto emotivo, e si basano sul takfirismo2 che giustifica l’uccisione di altri musulmani, altrimenti vietata dal Corano3.
A fronte delle istanze portate avanti dalle primavere arabe, che mettevano in discussione la jihad armata, Isis ha messo in luce la sua capacità di infiltrazione sui teatri operativi in un momento in cui, peraltro, il modello di islamizzazione della fratellanza musulmana, che parte dal basso e che ancora punta a singoli wilayat4 per giungere agli obiettivi occidentali anche senza dover combattere, sembrava avere avuto il sopravvento.
Mentre la morte di Bin Laden assurgeva a crepuscolo di un’era, e Washington doveva fare i conti in Iraq con una guerra asimmetrica in grado di mettere in discussione il suo unipolarismo, tra Tigri ed Eufrate il califfo al Baghdadi5, pur osteggiato da parte della ummah6 e dei movimenti più radicali, riportava in auge la jihad globale ponendosi quale unico e legittimo modello da cui prendere ispirazione, un diktat cui al Qa’ida non si è piegata. Isis diventa così simbolo prismatico dalle molteplici facce: l’esteriorità di al Baghdadi, non un semplice leader ma un califfo, un vicario di Maometto che si richiama all’antica tradizione omayyade, proietta l’aspirazione jihadista verso un presente concreto ed un futuro da plasmare. Con lui l’Isis si fa strumento di rivalsa ed attore di una primavera sunnita arma di riscatto verso la comunità sciita, nonché potenziale concorrente della leadership politica, religiosa, petrolifera dei Saud; Baghdadi assurge al ruolo di puro salafita, erede del wahhabismo, di realizzatore dell’ummah che spazza via stati e confini creati dal colonialismo occidentale di Sykes Picot: è il successore di Maometto che insidia il trono del re d’Arabia in un contesto che non accetta il principio del win-win.
Differenziamo piani politici e sovrastrutture religiose; se il calcolo politico realista permette ai persiani sciiti di Teheran di ospitare qaedisti arabo sunniti senza porsi particolari problemi, la massa sunnita reagisce agli espansionismi sciiti radicalizzandosi, unendosi ad al Qa’ida o all’Isis; gli sciiti, condizionati dall’atavico complesso della minoranza, ricercano un potere di fatto troppo ampio e di difficile gestione.
Il realismo politico, al netto del precetto religioso, porta inoltre a far risaltare un altro aspetto di non poco conto; se in Europa la Guerra dei 30 anni e la conseguente pace di Westfalia7 portano in alto sulle picche diversi modi di seguire la Croce ed in basso più pratici e redditizi principi di non ingerenza, nel MO le rivolte arabe danno vita a battaglie esclusivamente tra sunniti, come in Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, con alleanze ondivaghe tra Fratelli Musulmani, Neo-Ottomani, salafiti, wahhabiti, jihadisti; basta guardare allo Yemen, teatro delle tensioni tra secessionisti del sud, qaedisti, combattenti Isis, tutti sunniti, accese dalle rivalità tra sauditi ed emiratini. La tradizione americana di ricercare Stati arabi sunniti moderati è dunque decisamente poco sagace, così come è stato poco avveduto non riuscire a mettere a sistema la realistica entente tra la sunnita Turchia e lo sciita Iran.
A 5 anni dal discorso tenuto nella moschea al – Nuri di Mosul da al Baghdadi, la disfatta consumatasi a Baghouz non ha tuttavia segnato per Isis la debellatio definitiva, visto che l’ideologia propagandata si è trasformata in un richiamo tale da attrarre combattenti ex qaedisti. Da qualunque lato si esamini la situazione, per Riyadh, Abu Dhabi e Doha aver trattato con gli integralisti è equivalso a giocare con il fuoco, offrendo un assist irripetibile sia per la Guida Suprema iraniana, l’Ayatollah Khamenei, che ha paragonato la wahhabita Arabia Saudita allo Stato Islamico, sia per il New York Times che ha definito Riyadh “un Isis che ce l’ha fatta”. Accuse che hanno trovato risposta da parte degli USA che, con un Pompeo sia pur a termine mandato, ebbero a stigmatizzare il supporto sciita di una Teheran economicamente allo stremo per le sanzioni comminate, con l’araba e sunnita al Qa’ida. Se va sottolineato che, differentemente dall’evidenza dei rapporti tra Iran, Hezbollah e Hamas, il legame saudita con al-Qaeda non ha trovato riscontri conclamati, va ricordato che l’Arabia Saudita è di fatto uno Stato Islamico, mentre l’Isis ha nutrito la pretesa di essere lo Stato Islamico, ovvero il Califfato universale cui giurare obbedienza; se a Riyadh il sistema politico si fonda su potere politico ed autorità religiosa, in Isis ha trovato spazio il dogma dell’Uno, scevro da qualsiasi (apparente) compromesso.
I vari contesti, malgrado l’emergenza Covid interpretata come punizione divina, non sono rimasti estranei alle dinamiche di reducismo dei combattenti di ritorno e di radicalizzazione, anzi; Sinai egiziano, Libia, Nigeria settentrionale, Somalia, Sahel8 e Indonesia hanno di fatto assistito alla ricomparsa degli uomini Isis, mentre la Siria, dove Abu Mohammad al-Jolani9 è divenuto un partner fondamentale per la Turchia, diventava oggetto delle attenzioni di al Zawahiri10. Ideologia, foreign fighters, presenza al di fuori dei confini mediorientali, costituiscono i fondamenti della rinnovata minaccia jihadista che si fa forte sia della persistenza di criticità economico sociali e di una diffusa sfiducia nelle istituzioni, sia delle necessità energetiche occidentali. Ed è proprio l’occidente ad interpretare un ruolo controverso: in guerra con l’Isis ma avvinto ai sauditi, alleati di una gerarchia religiosa che legittima il puritanesimo islamico su cui si fonda l’Isis stesso, generato dall’invasione americana dell’Iraq.
L’Arabia Saudita rimane dunque una specie di IS bianco con cui intrattenere rapporti, l’Iran un IS grigio ed indecifrabile; se non si è in grado di intervenire, come in Europa, o non lo si vuole davvero, come negli USA, è del tutto inutile chiedersi se Isis sia davvero finito: con le potenzialità finanziarie che ci sono, morto un Daesh se ne fa un altro. Diamo ora un’occhiata ad un aspetto di guerra cognitiva e di controinformazione, alla propaganda, il marchio tecnologico della globalità di Daesh, rigido nell’accettazione dei precetti coranici ma flessibile nell’uso di qualunque mezzo purché funzionale alla jihad, anche la cyber; quale colpo di scena, vale la pena ricordare l’elogio funebre dedicato ad al Baghdadi sul n. 207 del settimanale al Naba, in cui viene citato, quale caduto per la jihad, anche Bin Laden, forse un tentativo di ristabilire i rapporti con al Qa’ida. Se al Qa’ida si è retta sulle videocassette, Isis ha sfruttato i social network. Internet del resto ha sempre giocato un ruolo determinante, tanto che una parte consistente delle entrate sono state destinate al settore mediatico.
Ad oggi per Isis la propaganda su scala industriale è finita ed Internet non rappresenta più uno spazio sicuro. Con il passaggio agli strumenti più sotterranei della rete, Isis ha cambiato strategia, pur perdendo buona parte dell’audience. Tre i punti fondamentali: la sua presentazione, fino a che ha controllato il territorio, il reclutamento, la diffusione mirata del terrore.
La strategia di comunicazione efficace e capillare, locale e globale, insieme alla creazione di una macchina performante di diffusione, sono stati due aspetti basilari nel consolidamento del jihadismo di portata globale: l’11 settembre può essere annoverato tra le più efficaci operazioni di marketing. Ancora una volta l’esportazione della democrazia non ha prodotto risultati positivi: Isis, che a differenza di al Qa’ida ha trovato autonomamente illecite fonti di finanziamento11, si è alimentato di malcontento e continuerà a farlo.
Lo stato islamico, comprendendo strategicamente di non poter ambire ad un futuro territoriale e statuale, ha inteso di doversi adattare alle dinamiche geopolitiche degli altri Paesi arabi; non a caso, dal 2015, se da un lato Daesh ha indotto i suoi miliziani a non recarsi in Siria o Iraq, dall’altro ha concesso in franchising il suo brand, in cambio della fedeltà. Il problema persistente continua a riguardare i rapporti intrattenuti, in un passato poi non così tanto remoto, tra Isis e Paesi dell’area, una sorta di esperimento sfuggito al controllo, ed alimentato attraverso associazioni e fondazioni caritatevoli che hanno agevolato i contatti con gruppi criminali a carattere locale. Quel che risulta politicamente interessante, è come la minaccia rappresentata da ultimo dall’Isis in Afghanistan, abbia coagulato gli interessi di Arabia, Iran, Iraq, Egitto, Qatar, Giordania, ovvero di Paesi non mossi da reciproca empatia, ma comunque intimoriti da una minaccia che potrebbe rivelarsi più pericolosa di quella rappresentata dalle Primavere Arabe.
Punto di faglia interessante è in questo momento l’Afghanistan, dove i rapporti tra Isis e Taliban, più vicini ad al Qa’ida sono sempre stati conflittuali, cosa che ha evidentemente agevolato l’aviazione USA nel sostenere gli studenti islamici quando in difficoltà sulle montagne. Del resto il contrasto è nella natura stessa delle due entità: mentre i Talebani, che ritengono che il potere debba essere conquistato dal basso, hanno un piano d’azione circoscritto all’Afghanistan, l’Isis guarda agli Stati musulmani di possibile destabilizzazione; per al Qa’ida il consenso è fondamentale, per l’Isis no. È sotto quest’ottica che vanno interpretati gli attacchi suicidi compiuti da Isis K12 prima all’aeroporto e poi all’ospedale militare di Kabul, che pongono una seria ipoteca sull’affidabilità della sicurezza talebana che, pur reagendo violentemente, rimane colpita dalle defezioni di combattenti che vedono nei tentativi di relativa pacificazione dei mullah un’abiura dei fondamenti integralisti, nella convinzione dell’”impurità” della dominante etnia Pashtun.
Conclusioni
Nell’epoca della guerra ibrida gran parte degli elementi caratterizzanti convergono verso una dimensione che trova spazio concettuale secondo la corrente dimensione geopolitica internazionale, non obbligatoriamente militare e/o jihadista, anche perché ritenere che il radicalismo sia in arretramento in funzione della relativa diminuzione degli attentati sarebbe fuorviante. Non a caso, in Africa ed Asia le estensioni locali sia di Daesh che di al Qa’ida continuano ad influenzare le aree operative intervenendo sulle rivendicazioni delle minoranze e sull’azione governativa; questo porta a ritenere che il jihadismo si stia preparando per prossime ondate, al momento strategicamente contenute a causa della pandemia.
Con ogni probabilità il post covid consegnerà una realtà oggettivamente povera e squilibrata, dove sarà necessario intervenire su emergenze economico sociali, e dove ci saranno società permeabili ai messaggi estremisti. Avendo sullo sfondo la più lunga guerra americana, nonostante le difficoltà di Iraq e Siria nell’imporre un’effettiva sovranità sulle zone riconquistate, non sarà comunque facile per Isis mantenere una parvenza di legittimità statuale, a differenza del più certo coinvolgimento in attività illecite. Questo conduce a ritenere che proprio il Mediterraneo, nella sua accezione allargata, potrà ospitare questa economia parallela sorretta da un terrorismo meno facile da monitorare13, anche perché curato da più piccoli ed incontrastati emirati locali capaci di mettere in serie difficoltà una potenza come quella francese con l’Operazione Barkhane.
Politicamente non sembrano essere stati risolti i problemi che hanno determinato l’espansione dell’Isis: l’opzione militare ha funzionato solo in Siraq ma a prezzi elevatissimi. A queste condizioni la domanda più pertinente non riguarda la rigenerazione dell’Isis, quanto piuttosto quale leadership jihadista globale potrà emergere dalle ceneri, e se è davvero improbabile che la jihad possa raggiungere particolari picchi nell’immediato futuro: il fascino esercitato finora potrebbe non replicarsi con le nuove generazioni; questo porta a concludere che il risorgere dell’Isis sia legato alla solidità degli emirati islamici locali, dunque non su scala planetaria, passando agli attacchi soft target, ovvero contro obiettivi a bassa sicurezza e prezzo contenuto14 e colpendo in aree in sofferenza per la congiuntura politica, come all’interno dell’arco che da al-Anbar si distende fino a Diyala15, innestandosi all’interno dei bacini del Tigri e dell’Eufrate. Pur lontano dall’aver recuperato le sue capacità operative, Isis rimane una minaccia significativa che trova terreno fertile sulla contrapposizione Washington-Teheran.
Daesh, seppur clandestinamente, esiste ancora, è figlio di un’idea... resistente, altamente contagiosa. Una volta che …si è impossessata del cervello è quasi impossibile sradicarla. Un'idea è come un virus. Una volta che s'impianta nella mente continua a crescere...Quando un'idea persuade la mente, l'unica cosa che può fartela togliere dalla mente è l'idea stessa16. Un’idea che porta inevitabilmente a rivivere gli orrori bestiali propagandati con ogni possibile dovizia. È del resto nella natura del capitale umano di cui la jihad dispone, a prescindere dai differenti radicalismi; è un ricadere in una banalità maligna che solo Hannah Arendt avrebbe potuto riprendere ed approfondire.
Se è vero che i crimini ora commessi sono tutti codificati, rimane l’insopprimibile bisogno umano di comprendere e punire secondo accezioni che non possono più accettare nemmeno concettualmente il principio dell’obbedienza acritica. Rimane la consapevole persistenza del peggior male esistente, quello commesso da uno stuolo di signori nessuno che rifiutano il loro stato di persona ed abbracciano la sconcertante mediocrità che rifiuta la capacità di pensare e rinuncia a dare e capire il senso morale delle cose, disconoscendo il discernimento di bene e male.
1 Sigla di Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham (Stato islamico dell'Iraq e del Levante)
2 Accusa di miscredenza
3 Nel 2005 al Zawahiri, leader di al Qaeda, rimproverò il leader dell’Isis, al tempo al Zarqawi, per le sue stragi indiscriminate contro i civili. Poiché al Qa’ida era assurta al ruolo di difensore dei musulmani di tutto il mondo, risultava inaccettabile che l’Isis provocasse così tante vittime tra i musulmani stessi.
4 Provincia, distretto
5 Al secolo Ibrāhīm ʿAwed Ibrāhīm ʿAlī al-Badrī al-Sāmarrāʾ
6 Comunità dei fedeli
7 1648
8 In Sahel si è costituita la federazione dei gruppi legati ad al-Qaeda per contrastare il crescente espansionismo dello Stato Islamico nella regione
9 Abu Muhammad al-Jawlani, nome di battaglia di Ahmed al-Sharaa, è un terrorista siriano, Emiro del Jabhat al-Nuṣra. Il Dipartimento di Stato USA lo ha definito “specially designated global terrorist”. Secondo al-Qāʿida è "al-Shaykh al-Fātiḥ" ("Il Signore vincitore").
10 Leader di al Qa’ida dopo la morte di Bin Laden
11 In particolare il contrabbando di petrolio
12 Khorasan, regione al confine con il Pakistan
13 Area sub sahariana, MENA, in particolare la Libia
14 Un kamikaze costa circa 2.500 USD
15 Iraq
16 Dom Cobb, Inception
Foto: U.S. Air National Guard