ISIS, Jihad infinita

(di Gino Lanzara)
11/10/18

L’Isis, o Daesh in senso spregiativo, è un fenomeno che, per essere compreso da un’ottica occidentale, va prima esaminato dal punto di vista di un salafita, cosa non agevole. L’Isis è un’utopia, anche se sorretta dall’abuso del Captagon – un inibitore di fame, dolore ed inibizioni – da parte dei suoi combattenti; è il tentativo di edificare in terra un mito figlio dell’ortodossia islamica che sfrutta il malessere di Paesi che ancora non riescono a trovare né identità nazionale né coesione sociale.

Se al Qaeda ha puntato ad aspetti di elite, Isis ha dato voce a tutti coloro che, a vario titolo e pur non essendo in possesso di valide basi dottrinali, hanno cercato di dare un senso alla loro esistenza; è innegabile che il modello jihadista offerto da Isis, nel candidarsi quale nume tutelare del terrorismo internazionale, abbia influenzato larghe aree geografiche proponendosi quale temporanea alternativa al Qaedismo.

Innanzi tutto andrebbe compreso il termine jihad, dato che anche l’ONU ancora non è riuscita a formulare una definizione stringente di “terrorismo”; a livello accademico gli obiettivi di un attentato terrorista erano e rimangono i civili ed i non combattenti, ma il termine Coranico jihad identifica il compimento di un preciso intento volto al raggiungimento di un fine. Compiere il jihad, unito alla volontà di Dio, significa combattere nel nome di Dio e questa lotta, tralasciando le altre accezioni teologiche, ora non può che ricondursi alla jihad bis saif, alla lotta con la spada.

L’enfasi attribuita al significato non violento, che non ammette l’uccisione di civili in battaglia né tanto meno il suicidio, si scontra quindi con le interpretazioni generate dalle frange più estremiste, come il salafismo, che non ammettono l’esistenza di altre correnti di pensiero e che trovano origine nell’ultima parte della Guerra Fredda, in Afghanistan, quando non si valutò appieno la portata del termine mujahidin, ovvero colui che pratica il jihad, e non un indistinto combattente per la fede. Solita/solida/stolida miopia occidentale.

Il sentimento Qaedista sorge dall’opposizione agli invasori sovietici, ma colpisce imprevedibilmente (per gli occidentali) anche altri obiettivi all’interno della stessa Umma, come nel 1979 ha dimostrato l’assalto alla Moschea della Mecca teso a rovesciare il regno Saudita, ormai non più islamicamente puro. Bin Laden trova terreno fertile, e propugna da subito la sua idea, mai così vicina alla Fratellanza Musulmana di Sayyd Qutb, già implacabile avversario di Nasser e per questo giustiziato in Egitto; dall’Afghanistan si leva l’idea del guerriero musulmano che, dopo aver combattuto contro i Sovietici, e dopo essere stato finalmente inquadrato in Al Qaeda, non può che proporsi per la lotta contro l’Iraq invasore del Kuwait, un’offerta respinta dal re saudita Fahd che, per aver accettato invece l’aiuto americano, si troverà bollato come apostata.

Dal 1996 muta la strategia: al Qaeda punta allo straniero che ha profanato la Umma, gli USA, e favorisce il supporto ai gruppi integralisti locali; non basta la reazione americana in Afghanistan, Qaeda continua a colpire, come quando nel 2000 porta l’attacco suicida alla USS Cole, o sui treni di Madrid nel 2004. Tra il 2004 ed il 2014 prende sostanza Daesh: grazie all’opera del giordano al Zarqawi, orientata in Iraq più a combattere gli sciiti che non gli americani, ed in forza del distacco da Jabhat al Nusra, filiazione di Al Qaeda in Siria, al Baghdadi, un ex detenuto americano di camp Bucca (sic!), si proclama Califfo ed attribuisce al suo gruppo una denominazione, Stato Islamico, utile nella sua genericità ad evitare limitazioni ad un’espansione che intende distruggere il principio di confine ed esaltare la radicalizzazione della lotta.

Se al Qaeda ha continuato ad operare secondo il concetto di network tra Arabia, Maghreb, Somalia, Siria, Isis ha puntato alla creazione di uno stato in grado di controllare il territorio, esigere tasse, sfruttare il mercato nero petrolifero, trarre sostentamento dalle rinnovate attività criminali nel Siraq.

Daesh, fin quando ha potuto, ha utilizzato accuratamente i mezzi di comunicazione, perfezionando e diversificando la tecnica qaedista, ed incentivando il dawa, il proselitismo. Ma ha commesso errori imperdonabili, già compiuti peraltro da altre realtà islamiste: ha moltiplicato i suoi avversari senza cercare alleanze, si è impegnato in tattiche suicide ed insostenibili, ha accentuato la sua connotazione sunnita allontanando qualsiasi altra componente religiosa, ha operato violenze indiscriminate che hanno annullato il consenso.

Ma l’Occidente ha davvero vinto la sua guerra contro il Califfato? Come potrebbe evolvere il jihadismo dopo la sconfitta di Daesh?

Isis si sta ritirando verso il deserto (inhiyaz ila al-sahra), probabilmente verso le provincie sunnite dell’Anbar, ma i suoi combattenti, potenziali foreign fighters protetti da reti logistiche europee, sono svaniti, ed il rischio di una ripresa della guerriglia è elevato: sconfiggere sul campo un’organizzazione terroristica non vuol dire aver eliminato le possibilità di una sua rinascita o, meglio, di una sua metamorfosi. La logica impone di considerare come possibile una guerra di attrito che potrebbe sia fondarsi sull’incapacità degli attori geopolitici rimasti di amministrare il post conflitto, sia di gestire una enorme massa di profughi in fuga, sia di contrastare un’idea che ha affascinato e ha importato migliaia di persone votate alla costruzione di una nuova società islamica fatta non solo di soldati, ma anche di medici, docenti, ingegneri.

Perso il dominio dei social su internet, è variata la strategia mediatica; Isis potrebbe non volere più combattenti in Siraq, ma cellule in sonno in Europa pronte ad operare ed a radicalizzare individui anonimi ed imprevedibili, puntando magari a riposizionarsi in Libia, terra ricca di quei fattori di instabilità e di vuoti di potere così preziosi per Daesh.

Quel che non è stato considerato, è che Isis non è l’unica organizzazione con capacità militari, che esiste una diarchia jihadista; in una sorta di compensazione storica, dopo un periodo di oscuramento, al Qaeda è tornata a rafforzarsi e ad estendere la sua influenza in Yemen, Somalia, Libia e Kashmir. Il fatto che mediaticamente al Qaeda offra minori spunti di spettacolarizzazione, non le ha impedito di tornare ad essere il principale attore globale del terrore, grazie anche al ruolo assunto da Hamza Bin Laden, il figlio di Osama, che giurando fedeltà alla leadership talebana, è riuscito sia a tagliare fuori al Zawahiri, già di suo poco empatico e seguito, sia a conquistare il rispetto di numerosi salafiti di Isis, da lui mai verbalmente attaccato. Hamza, una figura unificante sia per Isis che per al Qaeda, che da lui sta traendo nuova linfa per e che ha iniziato a lavorare con le popolazioni locali tentando di trasformarsi da organizzazione elitaria a movimento di massa più moderato rispetto ad Isis.

In Medio Oriente, e non solo nel Siraq, è dunque possibile ipotizzare che si stia riorganizzando un’entità più forte e volitiva, sconfitta si militarmente, ma legata ad un vincolo, quello del potere, strettamente connesso al concetto di Califfato, un’Idra capace di ripresentarsi ovunque, e magari sotto una leadership più forte ed unitaria. Il solo pensare che possa essere finita potrebbe essere davvero solo una pericolosa illusione.

(foto: U.S. Army / Giorgio Bianchi)