Iraq: un chierico tra Dio e Marx

(di Gino Lanzara)
31/05/18

Le consultazioni elettorali iraqene, come da premessa, si sono rivelate di notevole importanza non solo in ambito nazionale ma anche regionale, specie se rapportate ai notevoli flussi di popolazione returnee conseguiti alla (temporanea?) sconfitta di Daesh. Gli esiti delle politiche perseguite negli ultimi anni hanno determinato un inasprimento degli aspetti settari che hanno interessato la componente sunnita dell’Anbar dove, non a caso, lo Stato Islamico è riuscito a mietere consensi e supporti; va inoltre rimarcata la gestione disfunzionale del potere politico interno che ha contribuito alla creazione di una ristretta classe dirigente artefice di un diffuso malcontento; proprio in questo aspetto risiede la motivazione dell’insorgenza jihadista ed il perchè dell’aumento dello stato di tensione tra le comunità sciita e sunnita, che continua a rappresentare sia un elemento di fragilità, sia un fattore di rischio per un possibile ritorno di Daesh.

Inevitabile la presenza egemonica Iraniana che, con le Milizie della Mobilitazione Popolare di estrazione sciita, ha saputo proporsi sia in chiave di contrasto allo Stato Islamico, sia come mentore di forze politiche aspiranti a variare gli assetti istituzionali del Paese; sotto quest’ottica va inquadrata la coalizione Fatah che, riunendo le principali componenti politiche delle FMP, tutte gravitanti in orbita Pasdaran ed alle dirette dipendenze del generale Qasem Soleimani comandante delle forze speciali iraniane Al Quds, ha rappresentato, per gli Ayatollah, il cuneo grazie al quale tentare di amplificare una presenza utile ad influenzare la politica del Paese dei due Fiumi, eludendo elegantemente per le milizie in armi il divieto di partecipare alle contese elettorali. Con un’incognita però: Moqtada al Sadr, figura carismatica del panorama politico iraqeno. Figlio del Grande Ayatollah Mohammed Sadeq al Sadr, ucciso per la sua opposizione al regime baathista di Saddam Hussein, si è battuto in armi con le sue milizie prima contro gli USA poi contro lo Stato Islamico. Alcune delle forze politiche che si sono proposte per il confronto alle urne hanno perseguito sia strategie più “tradizionali” atte a conservare il grosso del favore dei propri bacini elettorali, altre hanno puntato ad aprire un canale di dialogo con l’Arabia Saudita; a tali schieramenti si sono aggiunte le formazioni curde, mai così deboli dopo la (incauta) decisione di tentare il referendum indipendentista promosso dal presidente Barzani, e che hanno riconfermato il duopolio rappresentato dal Partito Democratico e dall’Unione Patriottica del Kurdistan.

La figura del premier uscente, Abadi (foto), è dunque stata quanto mai controversa: attento a conservare un ruolo di equilibrio tra statunitensi ed iraniani volti verso il comune nemico Baghdadi, ed accorto nel proporsi come interlocutore credibile verso i sauditi, allo stesso tempo è stato il leader che, senza appoggio sciita, stava consegnando il Paese a Daesh, intrappolato dai veti interni e dai vincoli economici che vedono l’economia iraqena patologicamente dipendente dalle esportazioni petrolifere. In ottica elettorale, questa impostazione economica risulta ancora essere una pericolosa anomalia rimediabile solo grazie ad un’azione riformista, ed a politiche in grado di mitigare settarismi e scontri interetnici, capaci di rendere l’Iraq un Paese costruttivo, meno esposto alle azioni esterne e meno vulnerabile all’azione jihadista. Tuttavia l’esito elettorale, che ha visto il chierico Moqtada al Sadr proporsi quale valido ed influente interlocutore politico, ripropone il problema della pressante presenza iraniana, anche alla luce dei sommovimenti teologici della Scuola Quietista di Najaf che fa capo all’Ayatollah Ali Sistani, sempre più vicina a quella di Qom che, con il suo velayat al faqih, il governo del giureconsulto, pretende una fattiva pervasività clericale nella vita politica quotidiana.

Quale scenario politico potrebbe dunque profilarsi rimane la domanda più rilevante; che sarà dinamico non c’è dubbio, che l’ala più “interventista” di Teheran voglia contrapporsi con forza ai partiti sciiti più iraqeni è ipotizzabile, dato anche il sostegno loro offerto dall’Arabia Saudita. In sintesi, le elezioni iraqene hanno mostrato elementi di affinità con le consultazioni che hanno visto interessati diversi Paesi d’area, e hanno rispettato il trend dei cosiddetti “voti di protesta”: gli outsider (o presunti tali) hanno riservato come sempre delle sorprese.

Al Sadr (foto seguente), leader di Sa’Iroun, ha dunque raggiunto la vetta, seguito dalla coalizione Fatah guidata da Hadi al Hamiri; solo terzo sul podio il premier uscente Abadi, il campione degli USA. Di fatto non è stato dato adeguato risalto alle analisi post elettorali, laddove ce ne siano state, difetto questo comune a molti soggetti politici di ogni latitudine; ma che la performance di Moqtada al Sadr sia stata una sorpresa sembra evidente.

L’Iran ha puntato su Amiri, il difensore degli interessi persiani, sull’uomo che ha condotto le sue milizie contro lo Stato Islamico; Sadr ha invece avuto l’acume politico di presentarsi con una coalizione non settaria, forte del suo proposito di combattere la corruzione e con un programma che prevede il rilancio dei servizi a favore dei cittadini. Con una terminologia cara a molti, potremmo dire che, pur vestendo gli abiti religiosi, egli abbia saputo parlare al ventre della sua gente, e che abbia avuto il coraggio (politico) di allearsi con una formazione ideologicamente lontana dal sentire khomeinista, il partito comunista, aspetto questo che lo ha reso ancora più temibile ed inviso alla teocrazia iraniana. Inevitabile la reprimenda di Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida Suprema della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ali Khamenei, per cui non vi sarà mai alcun permesso per liberali e comunisti di governare l’Iraq. Ma al netto dell’ovvia opposizione degli Ayatollah non v’è dubbio che in queste consultazioni abbia prevalso un sentimento anti sistema, conclamato da una notevole astensione, e ben interpretato sia dalle formazioni sciite che sunnite che, malgrado non siano riuscite a rendersi socialmente laiche nell’accezione più politica del termine, hanno tentato di cominciare a prendere le distanze da concezioni esclusivamente etnico – confessionali.

Sadr ha offerto al popolo iraqeno una sua propria narrazione nazionalista e, come già visto, lontana da accezioni confessionali, con un’idea di governo che si fonda sulla tecnocrazia e che preferisce il concetto di cittadinanza a quello di mushasa, ovvero il principio basato sulla spartizione del potere su quote religiose. Amiri, la medaglia d’argento, è invece il campione dell’espressione politica delle milizie sciite filo iraniane, un potenziale Stato nello Stato secondo il rodato paradigma di Hezbollah in Libano. Sadr, da molti considerato un populista ambiguo, trasformista ed imprevedibile, batte sul filo di lana Amiri, l’uomo dell’apparato teocratico. Ma sarà sufficiente per governare? Non in Iraq.

Sadr avrà sicuramente un notevole peso specifico nella scelta del premier, ma dovrà tenere conto dell’iraniano blocco del “partito delle milizie”; l’unico modo per rimanere vincente sarà quello di valorizzare una possibile (e rischiosissima) alleanza con curdi e filo sauditi, inaccettabile per Teheran. La migliore impresa compiuta da Sadr tuttavia rimane quella concretizzatasi nella realizzazione dell’inaspettata convergenza di interessi tra USA ed Iran; se dovesse infatti controllare il nuovo esecutivo, Sadr rimarrebbe allo stesso tempo un vittorioso nemico per Washington ed una pedina incontrollabile per Teheran. Davvero troppo per gli Ayatollah, coinvolti dall’uscita americana dal JCPOA, dal confronto sempre più serrato con Israele, e dal conflitto “indiretto” contro i Sauditi in Yemen. Il compiacimento di Dio per l’Iran, malgrado tutto, passa dal vecchio nemico.

(foto: U.S. Army / web)