Indo-Pacifico: la Cina continua ad espandere la sua influenza negli Stati piccoli e deboli

(di Enrico Magnani)
27/05/22

Mentre una parte del mondo guarda con preoccupazione l’evoluzione della situazione in Ucraina, in altre regioni del globo, le dinamiche internazionali proseguono, inarrestabili il loro corso. In Asia, la Cina prosegue la sua penetrazione in diverse subregioni dello scacchiere. Questo, seguendo il suo (sinora) approccio indiretto, meno diretto e brutale della recente stagione putiniana, ma non per questo meno pericoloso.

Esempio di questo approccio, è la evoluzione recente delle relazioni che la Cina è riuscita ad intessere con le Isole Salomone, quale punta avanzata della penetrazione di Pechino nel Sud Pacifico, grazie a un patto di sicurezza bilaterale.

Questo accordo è destinato ad aumentare le tensioni nel più ampio Indo-Pacifico ed è diventato un prisma attraverso il quale verranno rifratte tutte le altre componenti della geopolitica dell’intero, immenso, scacchiere. Una bozza dell'accordo, assai vantaggiosa per la Cina (ovviamente) trapelata sui social media il 24 marzo scorso, ha scatenato un'immediata tempesta di polemiche. Un coro di appelli proveniva sia da ambienti nazionali che internazionali, chiedendo al governo delle Isole Salomone, guidato dallo spregiudicato primo ministro Manasseh Sogavare, di ritirarsi dall'accordo. Sogavare ha respinto duramente tutte le critiche e le espressioni di “gravi preoccupazioni” e il 31 marzo Cina e Isole Salomone hanno iniziato a formalizzare l'accordo, i cui termini restano riservati (gli accordi riservati sembrano essere la nuova preferenza di Pechino, come con il Vaticano).

Le Isole Salomone e la regione indo-pacifica dovranno affrontare le vaste conseguenze di questo ultimo sviluppo con implicazioni di vasta portata. I due contesti sono ora pericolosamente intrecciati, con la maggiore contesa geopolitica tra la Cina da una parte, contro USA, Australia, Francia, Taiwan e altri alleati (quali Giappone, Corea del Sud, e in misure e percezioni differenti, India e Nuova Zelanda) con tensioni interne di vecchia data e sempre più precarie.

Queste tensioni, di tipo economico, sociale ed etnico, sono spesso sfociate in conflitti nel corso dei 44 anni da quando le Isole Salomone hanno ottenuto l'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1978. Un decennio di tensioni tra gli abitanti delle isole e il governo centrale e tra le isole medesime è sfociato in un grave conflitto armato iniziato nel 1998 e che è costato la vita a 200 persone. Nel 2000 è stato firmato l'accordo di pace di Townsville (in Australia, visto che Canberra aveva mediato tra le parti), che in realtà ha portato a una lunga tregua.

Con il raggiungimento del cessate il fuoco, forze militari e di polizia guidate dall'Australia (con contingenti di Nuova Zelanda, Fiji e Papua Nuova Guinea, per un totale di oltre 2,000 unità) sono state inviate nelle Isole Salomone e vi sono restate dal 2003 al 2017, inquadrate nella Missione di assistenza regionale delle Isole Salomone (RAMSI), che è costata oltre due miliardi di dollari USA. La lunga missione in realtà ha solo controllato la situazione e l’Australia, il partner più imporante non è riuscita a svolgere un vero ruolo di mediazione, pacificazione e di avviare un processo di sviluppo socioeconomico inclusivo, in un contesto dove le disuguaglianze si sono anzi esacerbate.

Questo accordo tra Cina e Isole Salomone arriva solo quattro mesi dopo che altre forze di stabilizzazione di Australia, Nuova Zelanda, Fiji e Papua Nuova Guinea (molto inferiori di numero alla sopracitata RAMSI) sono tornate in aiuto delle Isole Salomone alla fine di novembre 2021 a seguito dell'urgente richiesta di aiuto da parte dell’immarcesibile Sogavare. Infatti giorni prima, proteste pacifiche composte principalmente da uomini dell'isola di Malaita erano nella capitale, Hoinara, denunciando quello che vedevano come il trattamento punitivo di Sogavare nei confronti dell’isola per la sua posizione pro-Taiwan dopo che Sogavare aveva sospeso le relazioni diplomatiche con Taipei e avviandole con Pechino nel settembre 2019.

Le proteste inizialmente pacifiche, anche a seguito di una violenta repressione poliziesca, si sono trasformate in una ondata di saccheggi e incendi dolosi che hanno colpito in particolare la Chinatown di Honiara. All’arrivo delle forze internazionali, i leaders di Malaita avevano avvertito che le loro presenza stava sostenendo il governo impopolare e corrotto di Sogavare e, indirittamente, la penetrazione cinese.

Ma l’Australia e i suoi partners hanno confermato l’approccio iniziale, del mantenimento delle forza di stabilizzazione per il tempo strettamente necessario al ritormno alla calma nelle strade.

Appena tornata la calma, Sogavare ha chiesto aiuto a Pechino che ha subito inviato un piccolo reparto di istruttori della polizia di pubblica sicurezza (la polizia civile), materiali ed equipaggiamenti antisommossa. All’annuncio del primo accordo sono immediatamente emerse, specialmente a Canberra, forti preoccupazioni, ma il governo, alle prese con una durissima (e assai contestata) campagna anti-COVID-19, le pessime gestioni degli incendi e delle alluvioni, sembrava avesse altri obiettivi (come la lunga campagna elettorale federale [il voto e’ previsto per il prossimo 21 maggio]).

In realtà sembra sia stata una errata specifica valutazione, infatti l’Australia da tempo osserva con preoccupazione le mosse cinesi in tutto lo scacchiere e la recente costituzione del patto AUKUS ne è la migliore controprova. Guardando al passato si nota comunque una differenza, quando negli anni ’80, il colonello Gheddafi aveva tentato di infiltrare elementi libici a Kiribati e Vanuatu, due altri piccoli stati insulari della subregione del sud Pacifico, l’Australia aveva reagito immediatamente.

Comunque, solo quattro mesi dopo, le avvertenze dei leaders di Malaita si sono rivelate corrette. Non solo Sogavare è rimasto saldamente al potere, grazie alla breve presenza delle truppe e polizia internazionali, ma ora il suo potere è garantito dalla Cina.

Non è chiaro esattamente ciò che le Isole Salomone e la Cina abbiano concordato, poiché la versione finale del patto è stata tenuta segreta, a quanto pare, a tutti i ministri del governo tranne pochi eletti. Sogavare ha sottolineato che la segretezza che circonda l'accordo di sicurezza era invece un'affermazione della "sovranità" (sic) della sua nazione. I commenti di Sogavare sull'accordo di sicurezza, e la velocità con cui è stato formalizzato, suggeriscono che la versione finale inchiostrata è molto vicina alla bozza trapelata. Quel documento di sei articoli era carico di termini e poteri vagamente definiti che avrebbero consentito a Pechino pesanti incursioni politiche e teoricamente operazioni militari e di intelligence cinesi su larga scala.

L’accordo, partendo dallo schieramento del nucleo di istruttori di polizia, ma ampliandolo massicciamente, consentirebbe alla Cina di essere fortemente coinvolta nel mantenimento dell'ordine pubblico attraverso il dispiegamento di "polizia, polizia armata [la gendarmeria cinese], personale militare e altre forze dell'ordine" alle quali sarebbe accordata "l'immunità legale e giudiziaria". La sovranità delle Isole Salomone sarebbe sarebbe garantita, come il potere di attivazione dell'accordo e il "consenso" per le visite navali cinesi. Tuttavia, la ambigua terminologia dell’accordo che darebbe a entrambe le nazioni il potere di agire "secondo i propri bisogni" ha sollevato preoccupazioni sulla libertà che questo accordo offre alla Cina per espandere la sua potenza militare nel Pacifico sud-occidentale.

La recente storia delle Isole Salomone lascia immaginare come possibiliti nuove crisi interne, per le sue gravi difficoltà finanziarie, aggravata dalle rivolte del 2021 (sebbene Sogavare lo abbia negato) e dal devastante arrivo del COVID-19 sotto forma di più varianti contemporaneamente a partire da gennaio 2022.

Questo per le Isole Salomone. Ma che dire delle implicazioni per la sicurezza nella regione e nel più ampio Indo-Pacifico? L'imminente 80° anniversario della dura battaglia di Guadalcanal (isola dell’arcipelago delle Salomone) del settembre 1942, è un promemoria che dovrebbe far riflettere profondamente sull'importanza strategica duratura delle Salomone. Questo è particolarmente vero per l'Australia, che si trova a poco più di 3.200 chilometri di distanza. Le Isole Salomone si estendono su rotte marittime e di comunicazione critiche per l’Australia, ma sono anche della massima importanza strategica per i vicini della Papua Nuova Guinea e per la nuova nazione emergente dalla sua regione autonoma di Bougainville, che si trova appena a nord del confine con le Isole Salomone, così come le Fiji e la Nuova Zelanda. La Nuova Zelanda ha firmato un "accordo di partenariato" con le Fiji il 29 marzo, a seguito delle rivelazioni dell'esistenza dell'accordo sulla sicurezza Isole Salomone-Cina, e questo fa seguito a un importante aggiornamento della cooperazione in materia di difesa tra le Fiji e l'Australia a metà marzo 2022.

La stessa Francia segue con preoccupazione le dinamiche, e dopo una breve crisi, dovuta alla vicenda del contratto dei sottomarini sospeso dall’Australia, ha mantenuto saldi i rapporti con USA, Australia e Nuova Zelanda. Il timore di Parigi è che, nonostante la mozione unionista abbia vinto il terzo e definitivo referendum per la autodeterminazione della Nuova Caledonia, il voto etnico che lo ha caratterizzato possa essere sfruttato per sobillare il malcontento dei kanaki verso la Francia, timorosa di perdere il controllo dell’arcipelago che ha importanti giacimenti del preziossimo nickel, e per chi se lo ricorda la Cina è alla caccia infinita di metalli rari per le produzioni industriali con tecnologie di punta. Ad ogni buon conto, nelle more del prossimo programma di riarmo di Parigi, una fetta non insignificante sarà destinata a rafforzare la sua presenza militare nell’Indo-Pacifico (sono territori francesi anche la Polinesia e le isole di Wallis e Futuna), ridotta al lumicino.

Ma anche altri stati della regione (ad esempio Indonesia e Filippine) vedono con silenziosa preoccupazione le manovre di Pechino, avendo tutti buone ragioni per temerle, come presenze più o meno ampie di comunità cinesi, altri potenziali driver di crisi quali divisioni etnico-religose, movimenti separatisti, risorse e giacimenti di prodotti strategici (idrocarburi e minerali), sviluppi economico-sociali importanti ma con seri squilibri regionali interni.

L'opinione è ancora incerta sull’uso che la Cina farà dell'accordo sulla sicurezza, in primis se installare o meno una base militare nelle Isole Salomone. Sogavare, e coloro che non sono stati turbati dall'accordo, insistono che la Cina non costruirà una base militare per proiettare la sua potenza nel Pacifico sud-occidentale. Alcuni esperti scartano l’opzione considerando che è improbabile che la Cina costruisca una base navale nelle Isole Salomone perché gli avamposti militari stranieri non sono il (solo, sinora) modo in cui opera Pechino. Questo è vero, ma solo in parte.

È vero che al momento Gibuti è l’unica base all’estero della Armata Popolare di Liberazione, ma non è un segreto che Pechino punta ad averne una sul lato africano dell’Atlantico (si parla con insistenza della Guinea Equatoriale quale possibile sito). Tuttavia le passate aperture della Cina a Vanuatu nel 2018 e Papua Nuova Guinea nel 2020, e le attività al porto di Hambantota in Sri Lanka, al porto di Gwadar in Pakistan (queste ultime due, nonostante i problemi interni dello Sri Lanka e le difficili relazioni di Pechino con Rawalpindi, farebbero parte della cosiddetta ‘collana di perle’ cinese con cui, secondo l’India, dovrebbe strangolarla) e alla base navale di Ream in Cambogia, la presenza costante navale cinese nei porti di Myanmar/Burma e ora, potenzialmente, le Isole Salomone, raccontano un'altra storia, anche se in divenire (certo, nulla di comparabile agli USA che dispongono di 759 installazioni militari in 80 paesi).

È improbabile che una mossa così provocatoria come la costruzione di una base militare cinese avvenga a breve termine, soprattutto per l’allarme suscitato e le durissime reazioni australiane; ma la Cina continua a giocare un gioco strategico lungo e complesso. Sogavare ha continuato a cercare di sedare le preoccupazioni dicendo "L'Australia rimane il nostro partner preferito e non faremo nulla per minare la sicurezza nazionale australiana", sebbene tali parole siano considerate poco credibili vista la spregiudicatezza dell’uomo.

Di conseguenza, è ora necessaria una ricalibrazione della geopolitica del Pacifico. Intanto l’accordo tra le Salomone e la Cina ha già avuto un impatto sugli approcci statunitensi e alleati al Pacifico (come i recenti accordi tra Australia e Nuova Zelanda con le Fiji). Un esempio calzante sono state le udienze del Senato degli Stati Uniti sui COFA (Compact of Free Association) Negotiations tenutesi il 29 marzo. Quell'udienza ha ascoltato relazioni dai Dipartimenti di Stato, Difesa e Interni sullo stato dei negoziati per il rinnovo degli accordi tra gli USA e le Isole Marshall, gli Stati Federati di Micronesia e la Repubblica di Palau (tutti stati già facenti parte del Trust Territory of the Pacific Islands, dato in amministrazione temporanea dall’ONU agli USA tra il 1947 e il 1994, dopo essere stati, rispettivamente prima colonie tedesche e, successivamente alla prima guerra mondiale, mandati della Società delle Nazioni affidate al Giappone sino alla sua sconfitta nel 1945). Questi negoziati non progrediscono in modo significativo dal dicembre 2020 (e gli attuali accordi scadranno a partire dal 2023) e per dare una spinta a questi negoziati, un diplomatico, l'ambasciatore Joseph Jun, è stato nominato inviato presidenziale speciale per i negoziati sul rinnovo di questi accordi e non lasciare spiragli a possibili intromissioni di Pechino, che come si è visto, è anche in grado di agire con grande rapidità e determinazione. Infatti proprio alla vigili della importante riunione del Quad a Tokyo, il ministro degli esteri cinese Wany Yi, ha iniziato il suo tour regionale proprio con un visita alle Salomone, con tappe successive a Kiribati, Samoa, Fiji, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea ed Est Timor.

Anche se non appartente alla prima linea che fronteggia la Cina (formata da Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Filippine), gli USA non possono permettere che si aprino spazi nella ‘seconda linea’ (che coincide in buona parte con gli arcipelaghi del Sud Pacifico) di penetrazioni alla marina cinese e Washington, alleati e partners devono agire in fretta, operando anche in favore di politiche economiche e sociali inclusive che smussino ragioni di malcontento ed evitare di perdere opportunità. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno annunciato solo nel febbraio 2022 che avevano in programma di riaprire la loro ambasciata delle Isole Salomone, chiusa per ragioni di bilancio dal 1993.

Il più vasto scacchiere dell’Indo-Pacifico resta una priorità strategica per gli USA e il viaggio del presidente Biden in Corea del Sud e Giappone, dove ha lanciato la IPEF (Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity), un colossale piano di cooperazione economico ma con un chiaro riferimento al contrasto con la Cina. Accanto al lancio di questa iniziativa, dove si trovano elementi che richiamano il Piano Marshall, Biden ha presieduto una riunione del Quad (il vero nome è Quadrilateral Security Dialogue), un foro di cooperazione politica, che nato nel 2008, ma rimasto di fatto inattivo sino al 2017, a cui partecipano gli USA, Australia, Giappone e India.

Washington conta molto sull’ampliamento e l’approfondimento del Quad, anche se l’India resta titubante alla costituzione di un architettura formale di difesa e sicurezza (quella che alcuni critici, chiamano la nuova SEATO), ma le fluttuazioni della politica internazionale obbligano a rapide revisioni. Ad esempio Nuova Delhi, grande e consolidato acquirente di materiale militare russo/sovietico, alla luce dei non buoni risultati dati da questi sistemi d’arma in Ucraina, sembra riconsiderare le sue scelte, anche recenti (alla fine dell’anno scorso è stato firmato un importante contratto tra Russia e India) ed ampliare ulteriormente i suoi già importanti acquisti di armamenti, e lanciare programmi di produzione in loco, made in USA. Ma le dimensioni, anche economiche dell’India, obbligano il subcontinente ad agire con prudenza con la Cina, visti i legami commerciali con Pechino e nonostante la sfida militare; e l’India non è sola. Infatti da Tokyo, Biden, accanto ai toni fermi con la minaccia di intervenire militarmente a difesa di Taiwan, ha aperto uno spiraglio sullo spinoso tema dei dazi doganali sulle importazioni cinesi, tentando di tenere aperta una via di dialogo, toccando un tasto sensibile per Pechino che sta facendo fronte un pesante rallentamento economico, incubo per i suoi dirigenti, sempre timorosi di rivolte interne.

Un ultimo avvenimento, le elezioni federali australiane, hanno visto la prevalenza dei laburisti che hanno rovesciato una lunga prevalenza dei conservatori e liberali, dovrebbero cambiare le politiche interne ma non mutare il dato complessivo della collocazione di Canberra allo scacchiere dell’Indo-Pacifico con l’adesione a Quad, AUKUS, ANZUS, e nemmeno quella subregionale; il tentativo di bloccare la penetrazione cinese nei piccoli e deboli stati del Sud Pacifico resta un problema strategico e il primo ministro Tony Albanese, reagendo immediatamente alla improvvisa visita di Wang Yi alle Salomone, ha inviato la neonominata ministro degli esteri Penny Weng a visitare le Fiji, quale segno di visibile sostegno a al piccolo stato (tuttavia, anche l’Australia, come USA, India, Corea del Sud, Giappone, Francia) hanno rilevantissimi legami economici con Pechino.

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China