Il Venezuela in bilico

(di Andrea Gaspardo)
19/11/19

Se c'è un paese che più di ogni altro rappresenta un esempio negativo di come il malgoverno domestico e le pressioni internazionali possano cospirare congiuntamente per distruggere totalmente quella che appariva come una situazione economica e socio-politica florida, questi non può che essere il Venezuela. Da più di nove anni ormai, il paese latinoamericano vive in una situazione di crisi cronica la cui fine è, al momento, impossibile da intravvedere.

L'origine dei mali del Venezuela va ricercata, paradossalmente, nella sua stessa ricchezza: il petrolio, del quale il paese latinoamericano costituisce uno dei maggiori produttori mondiali.

Grazie al rialzo dei prezzi degli idrocarburi, l'economia venezuelana ha registrato tassi di crescita da capogiro nel corso dei primi anni Duemila. Tuttavia, l'arrivo della “Grande Crisi” finanziaria del 2007-08 ed il conseguente crollo sia dei prezzi che della produzione di petrolio si sono abbattuti sull'economia e la società venezuelane con la potenza di un tornado. A causa del deterioramento della situazione delle finanze pubbliche, già nel 2010 il paese era di fatto in bancarotta e le cose sono persino peggiorate quando, dopo la morte di Hugo Chávez, il suo vice, Nicolás Maduro, gli è succeduto nella carica di presidente contribuendo a trasformare una crisi finanziaria in un dramma umanitario.

Secondo dati pubblicati dalle Nazioni Unite, dal 2010 ad oggi, circa 4 milioni di Venezuelani (pari al 13% della popolazione) sono fuggiti dal paese, ma c'é la fondata possibilità di credere che la cifra reale sia molto maggiore, con le Nazioni Unite che prevedono di registrare la cifra record di 5 milioni di profughi entro la fine del 2019 (pari al 15% della popolazione).

La crisi interna è stata poi amplificata dalla congiuntura geopolitica internazionale. Da quando Chávez (foto) salì al potere nel 1999, il Venezuela si è progressivamente e decisamente allontanato dal suo tradizionale campo di militanza geopolitica nel mondo “occidentale” avvicinandosi sempre di più alle potenze antagoniste degli Stati Uniti, come la Russia, la Cina, l'Iran, la Corea del Nord, la Siria ed altri paesi del Terzo Mondo di sulfurea fama. Una naturale conseguenza di tale iniziativa è stata la progressiva esclusione del paese dalle principali fonti di approvvigionamento finanziario così come la fuga degli investitori stranieri sia privati che istituzionali.

Finché la “bonanza” petrolifera è durata, i venezuelani hanno potuto persino scherzarci sopra, ma quando le cose sono decisamente cambiate, l'umorismo ha ceduto il passo all'amara realtà dei fatti. La crisi è entrata nella sua fase decisiva a partire dal 10 gennaio di quest'anno quando Juan Guaidó il presidente dell'Assemblea Nazionale, che nel frattempo è stata completamente esautorata da Maduro a colpi di decreto presidenziale, ha deciso di disconoscere il potere di Maduro e si è auto-nominato leader del paese. I mesi che sono seguiti sono stati, forse, i più difficili della storia recente del paese. Maduro e Guaidó si sono misurati in una serie di “prove di forza” dal sapore squisitamente latinoamericano mentre la crisi assumeva rapidamente i contorni di un'operazione di “cambio di regime” caratterizzata da azioni di “guerra mediatica” e di pressione diretta sulla leadership politica e militare al fine di creare un cedimento nelle strutture del regime.

Per quasi due mesi gli Stati Uniti d'America hanno tenuto una condotta ambivalente, minacciando da un lato l'intervento armato e propugnando allo stesso tempo la necessità di un trasferimento “pacifico” dei poteri. I toni del presidente americano Trump e degli esponenti principali dell'ala dura del suo governo, incarnata dal segretario di stato Mike Pompeo e dall'ormai ex-consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton si sono fatti, se possibile, ancora più minacciosi quando hanno cominciato a circolare notizie secondo le quali Cuba e la Russia avrebbero dispiegato contingenti di consiglieri militari, uomini degli apparati di sicurezza, mercenari ed elementi delle forze speciali per puntellare le strutture del regime.

Il momento climatico della crisi venezuelana è stato raggiunto il 30 di aprile quando Guaidó ha raccolto i suoi fedelissimi per lanciare quella che avrebbe dovuto tramutarsi nella “spallata decisiva” nei confronti del governo. Nel corso di quella che è stata definita “Operazione Libertà”, Caracas è stata teatro di rilevanti scontri che hanno opposto le forze armate e i fedelissimi di Maduro da un lato ai partigiani di Guaidó e ad elementi della Guardia Nazionale in rivolta. Tuttavia, entro la sera, la rivolta di piazza ha sostanzialmente fallito nel materializzarsi e gli elementi fedeli a Guaidó sono stati arrestati o hanno dovuto disperdersi.

Da allora, pur nel persistere della drammatica crisi umanitaria, il Venezuela è sostanzialmente scomparso dall'attenzione dei media, come se il paese fosse sprofondato sotto terra senza lasciare traccia e la crisi non fosse mai esistita. Tale iniziativa trova la sua giustificazione nel fatto che i principali centri di potere a livello mondiale hanno pienamente accettato il fatto che la rivolta capeggiata da Guaidó è sostanzialmente fallita.

Le ragioni di tale débâcle sono diverse ed hanno carattere sia interno che esterno. Per quanto riguarda le cause esogene, è interessante notare che il fronte di sostegno a Guaidó non sia riuscito, nonostante la presenza al suo opposto di un presidente decisamente imbelle, a condurre una campagna internazionale sufficiente a screditare Maduro. Basta osservare una mappa geografica mondiale per accorgersi che Guaidó (il quale, è bene ricordarlo, ha operato una forzatura costituzionale non inferiore a quella di Maduro) non è riuscito ad ottenere il riconoscimento internazionale che sperava ed anzi, due terzi dei membri della Nazioni Unite hanno preferito non esprimersi, mantenere una stretta neutralità, dare il proprio supporto all'Assemblea Nazionale ma non a lui personalmente oppure hanno reiterato il loro appoggio a Maduro.

Questa sconfitta diplomatica è stata superata solamente dalla costatazione che i principali sponsor dell'insurrezione, gli Stati Uniti d'America, la Colombia ed il Brasile hanno sostanzialmente manifestato la propria indisponibilità ad invadere militarmente il Venezuela per imporre Guaidó sulla punta delle baionette. Ciò ha permesso ai più importanti sponsor del Venezuela di organizzare una serie di azioni ad alto impatto mediatico (per la verità dal valore più dimostrativo che sostanziale) che hanno contribuito a rinvigorire l'appoggio delle forze armate al governo del presidente.

In questo contesto, la Cina ha offerto appoggio diplomatico ed aiuti umanitari, l'Iran ha inviato una piccola squadra navale formata da una fregata ed una nave rifornitrice e le già citate Russia e Cuba hanno fornito assistenza di intelligence e piccoli nuclei di specialisti per rendere pienamente funzionate in tempi brevi il sistema anti-aereo delle forze armate venezuelane. Tuttavia, al di là delle manovre esterne, le dinamiche più importanti si sono viste sul fronte interno, in particolare nelle relazioni tra le forze armate e di sicurezza ed il governo. Uno degli elementi essenziali infatti perché gli Stati Uniti ed i loro alleati regionali prendessero seriamente l'idea di intervenire militarmente nel paese era che le forze armate venezuelane si squagliassero sul modello di quanto accaduto precedentemente in paesi come la Libia, la Siria e lo Yemen e che tale disarticolazione, unita alla pressione popolare, contribuisse a far precipitare il paese in guerra civile. Come tutti quanti hanno avuto modo di osservare, nonostante le forti pressioni provenienti da tutti i lati, le forze armate venezuelane hanno retto e sono rimaste ordinatamente e disciplinatamente compatte dietro al potere costituito.

È assai probabile che tale comportamento vada spiegato più attraverso la lente del patriottismo e dell'odio verso le manipolazioni esterne più che per amore o deferenza nei confronti di Maduro. Le cifre parlano chiaro: dal gennaio 2019 fino ad ora si sono registrate solamente 1460 defezioni nei ranghi della forze armate venezuelane, le quali contano centinaia di migliaia di uomini organizzati in sei diverse branche di servizio.

Ci sono tre ragioni che spiegano perché le forze armate venezuelane non si siano sbandate o ammutinate. La prima e più importante è che, in Venezuela come in tutti gli altri paesi latinoamericani, le forze armate rappresentano il tempio del patriottismo e la principale struttura unificante del paese. Se leggiamo attentamente la storia dei paesi latinoamericani di lingua e cultura spagnola, sapremmo che essi sono nati solamente dopo lunghe e sanguinosissime guerre combattute contro la potenza coloniale spagnola e ciò ha obbligato le élite bianche e creole locali a istituire ed addestrare delle forze armate funzionanti da subito. A causa di questo singolare gioco del destino, gli eserciti dei paesi latinoamericani sono nati, come istituzioni, prima dei paesi stessi che si sono poi trovati a “servire”. Ne consegue quindi che, nella mentalità latinoamericana, la tentazione di dire che sono le forze armate a “possedere” i loro stati e non gli stati “a farsi servire ed ubbidire” dalle forze armate, è assai forte. È molto facile delegittimare le istituzioni “civili” latinoamericane ma è quasi impossibile delegittimare quelle “militari”.

La seconda ragione da considerare è il grande numero di ufficiali presenti all'interno delle forze armate venezuelane. Numerosi cronisti hanno nei mesi passati puntato il dito contro il fatto che le forze armate venezuelane annoverino tra le proprie file tra i 3.000 ed i 5.000 generali (oltre ad un grande numero di ufficiali e sottufficiali subalterni) mentre le forze armate degli Stati Uniti d'America ne contano 920. Tale “elefantiasi” è stata presentata come effetto della corruzione istituzionale e del degrado del livello di professionalità. È senza dubbio vero che il corpo ufficiali venezuelano è molto numeroso ed esistono prove circostanziate che una parte degli “uomini con le stellette” siano coinvolti in attività illecite a livello sia nazionale che internazionale, tuttavia bisogna comprendere che, da quando il Venezuela ha adottato la dottrina militare della “Guerra Popolare Totale”, sul modello di Cuba o della ex-Jugoslavia, la presenza di un corpo ufficiali numeroso è diventata necessaria perché quegli stessi uomini dovrebbero costituire la naturale “spina dorsale” delle divisioni di riservisti che a milioni verrebbero richiamati nel caso il Venezuela dovesse essere coinvolto in una grande guerra internazionale. In tempo di “pace” invece, la presenza di un numero così elevato di ufficiali in rapporto al numero delle truppe fa sì che risulti più semplice controllare e imporre la disciplina tra i ranghi, garantendone la compattezza, come abbiamo visto durante tutto il 2019.

L'ultima ragione invece ha un carattere “demografico” e travalica i confini delle forse armate per abbracciare la popolazione venezuelana nel suo complesso. Secondo i dati del censimento del 2011, la popolazione del Venezuela era formata per il 51,6% da meticci (anche detti “pardi” o “moreni”), per il 43,6% da bianchi di antica o recente emigrazione, per il 3,7% da neri, per il 2,7% da amerindi e per l'1% da asiatici. Questi sono dati molto importanti perché dimostrano come i bianchi, tradizionalmente il segmento di popolazione più ricco e privilegiato, siano ormai stati completamente soverchiati numericamente dalla combinazione di meticci, neri e amerindi che proprio del “Chavismo” continuano a costituire tutt'oggi il motore principale. Non sarebbe possibile spiegare il successo di questa ideologia formata da un confuso mix di nazionalismo, paternalismo e socialismo spiccio senza capire l'impatto che essa ha avuto sugli strati più poveri ed emarginati della popolazione venezuelana, soprattutto i meticci. Queste sono persone che per secoli sono state tagliate fuori da qualsiasi diritto, anche il più elementare, e che hanno trovato nelle forze armate e, in misura minore, nella chiesa cattolica le uniche due istituzioni disposte a rappresentarli. Il “Chavismo” ha per la prima volta dato a queste masse di diseredati una forma di affermazione ideologica e rappresentativa e cementato questa unità di intenti tra forze armate e larghe fasce della popolazione.

Ma forse, l'elemento che più di ogni altro ha determinato, sino ad ora, il fallimento dell'insurrezione è stato proprio il comportamento del popolo venezuelano. Piegata dalla crisi e stretta tra due fuochi, la società civile venezuelana si è dimostrata sostanzialmente apatica ai ripetuti richiami alla rivolta da parte di agitatori professionisti che poco hanno a che spartire con i patimenti della gente comune.

Mentre le élite bianche e “post-coloniali” si sono mobilitate a sostegno della “libertà”, la maggioranza assoluta della popolazione meticcia (i già citati “pardo”) che il “Chavismo” ha per la prima volta nella loro storia elevato dalla loro tradizionale posizione subalterna si sono dimostrati assolutamente refrattari a seguire il verbo di colui che essi sostanzialmente considerano poco più che un “golpista yankee”.

L'autore della presente analisi è abituato ad utilizzare la demografia come strumento per capire le strutture e le trasformazioni che interessano un determinato paese, nel breve come nel lungo periodo. Ebbene, nel caso del Venezuela, al di là delle prese di posizione di carattere ideologico, in genere allineate sulla semplicistica contrapposizione “comunismo contro capitalismo”, “sinistra contro destra”, “dittatura contro democrazia”, “male contro bene” personalmente non mi è ancora capitato di leggere uno straccio di analisi demografica (tranne quelle che ho dovuto produrre io stesso) che spiegasse come alla base del successo del “Chavismo” ci fosse proprio il nodo gordiano della “emancipazione” dei meticci e degli altri “fuori casta” che questa ideologia (giusta o sbagliata che sia) ha portato. E questo ci porta infine alla domanda fatidica: che cosa vogliamo ottenere in Venezuela e qual è la nostra strategia per ottenerlo?

Se il nostro obiettivo fosse semplicemente quello di “eliminare Maduro” (fisicamente o politicamente) la risposta sarebbe: diamo tempo al tempo. Con tutta la buona volontà che si può avere, Maduro è oggettivamente un soggetto che ha dimostrato una capacità singolare nel distruggere economicamente il suo stesso paese. Non esiste al mondo una qualsivoglia “entità geopolitica” che, dopo la fine della “Guerra Fredda”, abbia subito un collasso economico così verticale come il Venezuela e non è assolutamente onesto addossare tutta la colpa alle sanzioni economiche che gli Stati Uniti hanno approvato contro il paese. Una buona metà delle disgrazie economiche che hanno flagellato il Venezuela hanno Maduro come responsabile primario. Tuttavia tale stato di cose non rappresenta una ragione sufficientemente valida per invadere un paese anche perché, paradossalmente, potrebbe portare il popolo a stringersi attorno al leader, legittimandone la posizione!

Molto meglio sarebbe invece prendere tempo ed instaurare una seria trattativa sotto banco con i vertici militari del paese, in particolare con il generale Vladimir Padrino López e con l'ammiraglio Remigio Ceballos (foto) perché siano loro a deporre Maduro una volta che la situazione economica sia degenerata a tal punto da non consentirgli più di distribuire le sue ricche prebende ai militari. Questo sarebbe un obiettivo limitato ed alla nostra portata; sfortunatamente non è quello che i nemici sia interni che esteri del Venezuela vorrebbero. Infatti l'obiettivo dichiarato del nocciolo duro di supporter di Guaidó così come della maggior parte dei suoi sponsor internazionali è quello di liberarsi non solo di Maduro ma del “Chavismo” in generale.

Alla luce del discorso fatto sulla demografia del paese tenderei a ritenere che tale scenario sia assolutamente fuori dalla capacità nostra e di chiunque altro, a meno che il Venezuela non venga invaso da una imponente forza militare che distrugga tutte le strutture di potere e annienti le basi ideologiche sulle quali si fonda il sistema-paese, proprio come avvenne con il Terzo Reich nel 1945 o con la Cambogia dei Khmer Rossi nel 1979, e anche in tal caso dovremmo tenere in conto di dovercela vedere con una guerriglia esasperante che durerebbe anni. Credere, come hanno avuto l'ardire di affermare alcuni elementi della destra brasiliana vicini al presidente Bolsonaro che “i venezuelani ci accoglieranno con i fiori” è una stupidaggine che rasenta l'arroganza più becera.

In conclusione, quanto sta avvenendo in Venezuela rappresenta uno dei momenti più difficili e tristi della storia del paese e costituisce un focolaio di tensioni di non facile risoluzione. Per il momento il paese resta in bilico e solamente il tempo ci dirà chi emergerà vincitore dal braccio di ferro che si sta consumando per il futuro dominio della “terra dei Caribi”.

Foto: web / U.S. Department of State / Alexcocopro