Il terrorismo jihadista: l’attentatore suicida

(di Renato Scarfi)
02/11/20

L’ennesimo assassinio di civili all’interno della cattedrale di Nizza ha confermato le peggiori aspettative di quanti non si erano mai illusi che la sconfitta territoriale dello Stato Islamico avesse messo la parola fine alla violenza jihadista.

Dopo l’uccisione di Samuel Paty, il professore di liceo francese decapitato a Conflans-Sainte-Honorine (Yvelines), vicino Parigi, l’attenzione dei media francesi (in questi giorni assorbita dall’esplosione dei contagi da Covid-19 e dalle chiusure imposte per limitarne la diffusione) si è concentrata sul nuovo attacco jihadista di Nizza, che ha causato tre morti e diversi feriti. Un attentato avvenuto a pochi giorni dal duro scontro verbale tra Macron ed Erdoğan, le cui ultime dichiarazioni contro la Francia hanno dato il via a violente proteste in qualche Paese del Medio ed Estremo Oriente.

Nel primo caso l’attentatore era un diciottenne ceceno, nato a Mosca, che ha ucciso il professore perché ritenuto “colpevole” di aver mostrato in classe le caricature di Maometto (era appena iniziato il processo per la strage al Charlie Hebdo). Nel caso di Nizza si tratta di un venticinquenne tunisino che, al grido Allahu Akbar, ha aggredito dei civili che si trovavano all’interno della Cattedrale.

Dalle prime notizie riportate dai media, sembra che il giovane tunisino sia giunto in Francia transitando pochi giorni fa da Lampedusa, attraverso i canali dell’immigrazione clandestina. Appare, quindi, quantomeno lontana l’ipotesi che il giovane abbia fatto tutto da solo o che si sia radicalizzato negli ultimissimi giorni, ma che sia stato aiutato da una qualche rete logistica di sostenitori e che sia giunto in Europa con in mente un preciso disegno criminale.

Tutto questo fa sorgere degli interrogativi. Perché un giovane sceglie di uccidere degli sconosciuti innocenti, spesso con la prospettiva di finire ucciso o, addirittura, cercando di morire nel corso dell’attentato?

Per provare a spiegarlo vorrei prendere in prestito e parafrasare l’interrogativo manzoniano di un circospetto Don Abbondio, che si interrogava su Carneade: il terrorista, chi è costui?

A oggi possiamo dire che, da un reclutamento fondato sulla povertà e l’ignoranza, la propaganda jihadista riesce ormai ad attirare anche individui del ceto medio, che non hanno problemi economici e sono in possesso di un titolo di studio, a volte elevato.

Gli ultimi studi hanno anche dimostrato come non ci sia più un legame diretto tra terrorismo e reddito (leggi povertà) o scolarizzazione, ma che esiste uno stretto legame con l’esclusione o il degrado sociale, che favoriscono la cancellazione del senso di appartenenza degli individui esposti a questi problemi, accrescendone la distanza con il resto della società e facilitando la loro estremizzazione politica e religiosa. Essi, a torto o a ragione, si sentono discriminati, emarginati e disprezzati dalla società in cui vivono. Sono, quindi, soggetti particolarmente esposti alla solitudine, alla fragilità, alla liquefazione.

In tale ambito la religione, preferibilmente un’interpretazione rigorista, viene percepita come via per il riscatto sociale, per uscire dalla mediocrità, facendoli sentire apprezzati e valorizzati. Tramite la fanatica interpretazione della religione essi hanno la sensazione di poter tornare a esistere. Ecco quindi che da condannati si trasfigurano in giudici di una società che considerano empia ed eretica, da individui che ispirano disprezzo divengono personaggi che incutono timore, da perfetti sconosciuti diventano i protagonisti di cui parlano TV e giornali.

Quando, inoltre, nella loro storia personale capita l’esperienza del carcere, magari per piccola criminalità, spesso questo diventa un luogo di conversione e di ulteriore indottrinamento, dove coloro che sono condannati per atti terroristici assumono ai loro occhi un’aura di gloria.

E qui è necessario fare una riflessione sui metodi di persuasione impiegati dai reclutatori. Internet, televisione, social media, si sono rivelati strumenti efficacissimi per attirare nuovi individui nell’orbita jihadista. L’ideologia salafita si è, infatti, perfettamente adattata al mondo virtuale e ormai conta sulla predicazione del jihad online come principale vettore del proselitismo per la sua diffusione planetaria. A conferma dell’estrema adattabilità di questo jihadismo 3.0 ricordo che il 22 novembre 2018 Europol ha fatto bloccare materiale di propaganda terrorista annidato in 9 piattaforme, alcune delle quali piuttosto note. In totale contenevano più di 26.000 documenti di propaganda jihadista, sotto forma di video o di pubblicazioni.

Una volta agganciato, il soggetto viene introdotto in un ambiente amichevole che lo fa sentire al sicuro, in modo da annullare le normali resistenze psicologiche e annientare la sua capacità di pensiero critico, così da renderlo strumento docile, affidabile ed efficace nelle mani dei leaders terroristi. Il percorso di indottrinamento alla violenza è infarcito di precetti coranici, da impiegare come sostegno teologico, e l’aspirante omicida-suicida viene portato, attraverso tanti impercettibili e inconsapevoli cambiamenti, a variare la propria condotta senza che egli riesca a percepire forzature o condizionamenti esterni. Con tale persuasione occulta, che riesce a trasformare persone apparentemente normali in soggetti particolarmente violenti, questi individui raggiungono la propria autonomia nella dipendenza assoluta.

Per i reclutatori, l’attentatore suicida è un’arma tutto sommato a basso costo, bassa tecnologia, basso rischio, prontamente impiegabile, ha bisogno di relativamente poco addestramento e ha un impatto psicologico devastante sulla società “bersaglio”. Un’arma che, per effetto di profonde convinzioni religiose estremizzate, fanatismo e rabbia intensa, ha reso obsolete tutte le tecniche di protezione che si basavano sul naturale istinto di autoconservazione dell’attentatore, in quanto questo non fugge di fronte alla morte ma, anzi, la cerca per affermare la propria purezza.

Ma cosa scatena negli attentatori suicidi così tanto odio da portarli a pianificare/desiderare la loro morte durante l’attacco? Purtroppo, a giudicare dalle varie analisi che vengono proposte ogni volta, non esiste una teoria che spieghi in maniera esaustiva le cause di tale comportamento. Non solo, secondo questa fanatica visione, se in un attentato suicida gli attentatori sopravvivono, paradossalmente viene considerato un fallimento.

In base a indagini svolte sugli attentatori suicidi si è scoperto che si tratta di individui capaci di trascorrere mesi e addirittura interi anni come “dormienti”, che si comportano in modo insospettabile e anche quando entrano in contatto con la società “nemica”, riescono a non rimanerne minimamente contagiati o modificati psicologicamente. La mancanza di empatia e la desensibilizzazione raggiungono in questi casi l’ampiezza massima. Pur impadronendosi degli strumenti e della tecnologia del “nemico”, questi soggetti riescono infatti a “…restare assolutamente impermeabili a qualsiasi tipo di influenza, preparando con molta forza e saldezza il loro spirito per il momento del sacrificio supremo...”1. Al momento dell’azione dimostrano poi un’assoluta fermezza di carattere e una straordinaria determinazione. Durante gli interrogatori di coloro che erano sopravvissuti, inoltre, questi discutevano freddamente dei dettagli dell’attentato e mostravano di essere motivati da profonde credenze religiose, secondo le quali stavano facendo la cosa giusta. Ed è sostanzialmente questa la differenza con gli altri terroristi. Al jihadista che si appresta a compiere l’attentato, oltre agli aspetti peculiari della psicologia del terrorista, viene infatti richiesto di avere anche profonde convinzioni religiose, fanatismo e rabbia intensa.

Anche l’ambito familiare gioca un ruolo importante nel coltivare questo sentimento. Senza una comunità che l’accetta e la sostiene, infatti, la pratica dell’omicidio-suicidio non attecchisce.

Contro questi condizionamenti nessun ragionamento logico è più in grado di far breccia nella mente dell’aspirante suicida. In sostanza, nella testa di questi ragazzi che hanno rinunciato a pensare autonomamente c’è una profonda irrazionalità cui il fanatismo religioso ha dato un ordine e una struttura “coerente”.

Come ebbe a dire Robespierre: Fra tutte le passioni che possono sospingere la volontà dell’uomo, non ce n’è alcuna di più incompatibile con la ragione e la libertà del fanatismo religioso.

Tutto ciò pone nuove sfide a chi deve contrastare il fenomeno jihadista. I terroristi suicidi non solo cercano il sacrificio personale ma sono anche estremamente flessibili. Laddove trovano un deciso contrasto da parte delle Autorità, elaborano nuove strategie, in modo da girare attorno al problema e portare comunque distruzione e morte. Se, per esempio, si riesce a impedire l’accesso del materiale necessario per gli attentati, il terrorista impiega materiale di uso comune, che non può essere tracciato come, per esempio, un camion, un furgone, un coltello, un’ascia, e così via. Un continuo lavoro di adattamento alle condizioni “esterne”.

E la risposta deve, quindi, essere altrettanto duttile cercando, al contempo, di anticipare le mosse dei terroristi. Un lavoro difficile e delicato che l’intelligence, le Forze di polizia e i reparti militari portano avanti in silenzio e con sacrificio ma che, alle volte, non è purtroppo sufficientemente apprezzato da taluni cittadini, troppo presi da considerazioni politiche del tutto fuorvianti.

Un impegno a 360 gradi che coinvolge coralmente tutte le forze migliori dei Paesi interessati, secondo le loro capacità e peculiarità. Come sottolineato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, “…terrorism will not be defeated by military force, law enforcement measures, and intelligence operations alone…”2. Tutti gli strumenti a disposizione per contrastare questa minaccia subdola e mascherata devono, pertanto, essere impiegati in sinergia, prevedendo un’intensa attività di raccolta e analisi delle informazioni, un’efficace attività di prevenzione (misure passive) e interventi operativi (misure attive), che consentano di identificare gli eventuali elementi radicalizzati e bloccare le loro iniziative omicide.

Il contrasto all’attività terroristica è una priorità assoluta, trattandosi di una minaccia composita altamente destabilizzante, che vede un sempre maggiore ricorso a mezzi facilmente reperibili e a pianificazioni poco sofisticate.

La minaccia jihadista non sparirà solo perché lo vogliamo. Anzi, come già ricordato, nel tempo le principali organizzazioni hanno sviluppato una dimensione virtuale per mezzo della quale continuano a fare presa su soggetti permeabili al messaggio jihadista, minori inclusi, diffondendo video e testi propagandistici tradotti (o sottotitolati) nelle diverse lingue “obiettivo”, promuovendo i processi di radicalizzazione, favorendo contatti telematici tra affiliati e incoraggiando la pianificazione “fai da te” di azioni violente. In questo modo il ventaglio dei soggetti nocivi si è ampliato e nebulizzato, aggiungendo agli individui radicalizzati con trascorsi criminali, organizzati in gruppi, anche singoli elementi inseritisi nel percorso di mobilitazione attraverso internet, che ha amplificato i loro fattori di disagio socio-psicologico, aggiungendo una significativa spinta ideologico-religiosa. La sempre più vasta attivazione di elementi isolati, inoltre, ha aggiunto difficoltà nell’opera di prevenzione, visto che questi individui sono difficilmente tracciabili e, coloro che sono segnalati, possono essere “seguiti” con grande dispendio di risorse economiche e umane.

La violenza fanatica di ispirazione religiosa ha scatenato una guerra che è ormai talmente diffusa, pervasiva e delocalizzata che potrà essere risolta solo con una sincera collaborazione internazionale, scevra da calcoli utilitaristici di piccolo cabotaggio, che veda le Forze di Polizia e i reparti militari schierati a difesa del nostro sistema di valori e della nostra laicità.

Come ha scritto Oriana Fallaci, “…se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto…”3.

Per approfondire la questione delle cause, motivazioni e azioni per contrastare il fenomeno jihadista, dello stesso autore “Il terrorismo jihadista”, Europa Edizioni, 2019. Prefazione del gen. c.a. Roberto Bernardini, già comandante delle Forze Operative Terrestri dell’Esercito Italiano

1 Marco Cannavicci, La psicologia del kamikaze, su “Polizia e democrazia” n. 78, marzo 2003, pag. 28

2 S/RES/2178 (2014) del 24 settembre 2014, pag. 2.

3 Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, BUR Rizzoli, 2014

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