Il dilemma di Israele: uno “Stato” senza “Nazione”

(di Andrea Gaspardo)
27/02/20

Il 6 febbraio 2020 è stata purtroppo per Israele una giornata ricca di incidenti a sfondo terroristico, verosimilmente conseguenza dell'ondata di risentimento causata dalla pubblicazione dei dettagli relativi al cosiddetto “Accordo del Secolo” annunciato dal presidente americano Trump e fortemente voluto dal primo ministro israeliano Netanyahu.

Tra i vari “incidenti” che hanno insanguinato varie aree del paese, è stato quello avvenuto sul “Monte del Tempio” che ha provocato le reazioni più importanti tra l'opinione pubblica del paese. Poco prima di Mezzogiorno infatti, il posto di polizia posizionato a guardia dell'entrata del “Monte del Tempio” è stato avvicinato da un uomo armato di pistola che ha immediatamente iniziato a sparare a bruciapelo contro i poliziotti ivi presenti ferendone leggermente uno per poi fuggire. Tuttavia la fuga dello sparatore non è durata a lungo dato che pochi istanti dopo è stato raggiunto, circondato ed abbattuto dalle forze speciali prontamente intervenute.

Da una serie di controlli effettuali subito dopo è emerso che l'attentatore era il quarantacinquenne Shadi Bana, un arabo israeliano proveniente da Haifa e proprietario di un negozio di fiori. Secondo “Channel 13 News”, Shadi Bana era molto noto nel suo quartiere ed era equamente apprezzato dai suoi vicini sia Ebrei che Arabi. La notizia che, secondo alcune fonti, egli si fosse da poco convertito dal Cristianesimo all'Islam non ha tutt'oggi trovato completa conferma e potrebbe anzi essere un goffo tentativo di attribuire il gesto alla nefasta influenza al”terrorismo islamico”. Quello su cui sono invece unanimemente concordi le fonti è il fatto che Shadi Bana fosse descritto da famigliari, parenti, amici e vicini tutti insieme come “l'ultima persona al mondo con la quale avere un litigio, figuriamoci pensare che avrebbe potuto diventare un terrorista!”.

L'evento ha particolarmente segnato la società israeliana e ha senza dubbio riportato in prima pagina il problema dei rapporti tra lo Stato d'Israele e la sua stessa minoranza araba (musulmana e non). A ben vedere però, tale conflitto rappresenta a sua volta solo la punta dell'iceberg di una crisi ben più profonda che investe la società israeliana tutta nel suo rapporto con le istituzioni dello stato e con l'ideologia politica che, in ultima analisi, ha portato alla fondazione dello stato stesso: il Sionismo.

Con il termine “Sionismo”, si intende il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico mirante alla ricostituzione di una “Patria Ebraica” nei territori definiti biblicamente e storicamente come “Terra d'Israele” (corrispondente grosso modo alla terra di Canaan dell'Antichità, o alla provincia romana della Palestina o, ancora, alla “Terra Santa” medievale).

Frutto del pensiero di Theodor Herzl, e nonostante abbia subito nel corso dei decenni un complicato processo di evoluzione e differenziazione, il Sionismo ha sempre avuto nella costruzione e nella difesa dello Stato d'Israele il suo pilastro fondamentale e gli eventi che hanno caratterizzato il Medio Oriente dopo la Prima Guerra Mondiale (Dichiarazione Balfour del 1917) e la successiva fondazione dello Stato d'Israele dopo la Seconda Guerra Mondiale (1948), ne hanno dimostrato sia la potenza ideologica che la vitalità politica e sociale.

I problemi insiti nell'ideologia sono emersi con il tempo, nel corso dei successivi decenni di vita democratica israeliana. Sebbene infatti l'opera di “costruzione dello stato” dal punto di vista istituzionale e materiale possa dirsi compiuta, il Sionismo non è riuscito nell'opera di creare una “nazione” né gli Israeliani sono riusciti a produrre un nuovo sistema “ideologico-filosofico” che potesse affiancare e sostituire il Sionismo nell'affrontare le nuove sfide che sarebbero inevitabilmente emerse con il tempo. Chi ritiene che tale necessità sia secondaria, rispetto al problema ben più pressante di garantire la sicurezza interna ed esterna di Israele dalle forze che minacciano la sua sopravvivenza, commette un grave errore di valutazione; al netto della sua forza economica e militare, Israele sta evolvendo verso uno stato dai connotati fortemente “comunitaristici” assai più simile ai suoi vicini mediorientali che non ai paesi europei e/o occidentali ai quali pur dichiara di aver sempre guardato come fonte di ispirazione.

Nel corso dei numerosi contatti avuti nel tempo sia con Israeliani che con Ebrei della Diaspora, mi sono reso conto che, dal punto di vista ebraico, esiste una fondamentale confusione tra il concetto primitivo di “popolo” e quello, assai più sottile ed elaborato di “nazione”.

Possiamo definire con il termine di “popolo” una qualsiasi collettività umana legata ad un ambito geografico oppure caratterizzata da una comune adesione ad una particolare identità valoriale. Si capisce bene come tale definizione sia molto ampia e si presti a numerose interpretazioni. Viceversa, la definizione di “nazione” è assai più ristretta e mirata: essa è infatti un'unità etnica cosciente di una propria peculiarità e autonomia culturale specialmente in quanto premessa di unità e sovranità politica.

Declinando questi concetti alla realtà empirica, possiamo affermare che, all'interno della Repubblica Italiana, le minoranze slovena, tedesca e francofona residenti rispettivamente in Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta sono (per ragioni di collocazione geografica) parte integrante del “popolo italiano”, tuttavia non possono essere definite parte della “nazione italiana” perché l'utilizzo di lingue diverse da quella italiana le pone automaticamente fuori dall'alveo culturale che ha costituito la base di sviluppo della cultura italiana (a sua volta pilastro imprescindibile della nazione).

Venendo al contesto israeliano, la maggior parte della popolazione del paese è costituita da Ebrei discendenti da una o più delle numerose ondate migratorie che si sono riversate in quel territorio a partire dal 1881. A fianco di tale comunità maggioritaria esistono diverse minoranza etniche o etno-religiose come gli Arabi musulmani, gli Arabi cristiani, i Drusi, i Circassi, gli Armeni e altre comunità più piccole. L'atteggiamento sia dello Stato d'Israele che del Sionismo verso tutte queste comunità è sempre stato ondivago e scostante. Da un punto di vista formale, le varie correnti sionistiche non sono mai riuscite a trovare un comune accordo se il futuro Stato d'Israele dovesse diventare “uno stato solamente di Ebrei” (come teorizzato da Ze'ev Jabotinsky) oppure essere uno “stato ebraico ma aperto anche agli altri” (come invece affermato da Theodor Herzl prima e da David Ben-Gurion dopo). Le divergenze teoriche furono superate nella pratica all'indomani della vittoria nella Guerra di Indipendenza, quando le autorità del giovanissimo stato decisero immediatamente di estendere la cittadinanza anche a tutti i “non-Ebrei” presenti sul suo territorio e, anche se da allora fiumi d'inchiostro sono stato sparsi sul fatto che l'iniziativa di Ben-Gurion fosse dettata da un genuino desiderio di giungere ad un ragionevole compromesso con gli Arabi oppure fosse una mossa meramente propagandistica, almeno formalmente ed entro i confini del 1949-1967, Ebrei, Arabi ed altri “non-Ebrei” avrebbero dovuto vivere nello stesso paese da eguali.

Il tempo ci ha consegnato una realtà dei fatti alquanto diversa. Mentre lo Stato d'Israele è riuscito sin da subito ad instaurare proficui rapporti di collaborazione con i Drusi ed i Circassi, il rapporto con le altre comunità non è andato altrettanto bene. Gli Arabi sia musulmani che cristiani sono stati visti ben presto, non senza qualche giustificazione, come pericolosa “quinta colonna” del nemico esterno e la mancanza quasi totale di investimenti pubblici e privati nelle zone da essi abitate (prediligendo invece la spesa in favore dell'accoglienza di nuove ondate migratorie ebraiche) ha fatto sì che, benché tra il 1949 ed il 1967 gli indicatori sociali mostrassero una sostanziale convergenza verso un comune sentiero di sviluppo, dopo quest'ultima data tale percorso virtuoso si sia praticamente fermato. Non solo, dopo il 1967, proprio grazie alla vittoriosa Guerra dei Sei Giorni, gli Arabi di Israele sono stati a tutti gli effetti “riunificati” con i Palestinesi dei Territori e della Striscia di Gaza venendo così esposti alla drammatica realtà del perenne conflitto Israelo-Palestinese. L'effetto congiunto del conflitto e della stagnazione economica e sociale nelle loro aree di residenza, ha causato un lento ma inevitabile estraneamento degli Arabi israeliani dall'identità e dai valori del loro stesso paese al punto che molti di essi hanno finito per auto nominarsi “Palestinesi che vivono in Israele”.

Le cose vanno solo discretamente meglio per la piccola comunità armena, in gran parte concentrata nell'omonimo Quartiere della Città Vecchia di Gerusalemme, che, pur avendo sempre mantenuto un rapporto cordiale con le autorità del paese, risente molto negativamente sia del continuo clima di conflitto sia delle azioni di espropriazione da parte delle autorità e dei coloni ebrei appartenenti ai vari movimenti religiosi i quali, alla luce dello strisciante programma di “ebraicizzazione” di Gerusalemme, sono più che contenti di espropriare le proprietà immobiliari armene per distribuirle poi ai coloni.

La tendenza negli ultimi anni ha avuto una progressione persino peggiorativa, tanto da far dire a Sua Beatitudine Nourhan Manougian, Patriarca del Patriarcato Armeno di Gerusalemme nel corso di un'intervista concessa nel 2013 al quotidiano Haaretz: “Noi siamo cittadini di terza-classe”1. Ma il processo di trasformazione più interessante ha riguardato proprio la maggioranza ebraica.

Nata come “contenitore delle diaspore”, la comunità ebraica d'Israele ha favorito, nel corso dei decenni, l'integrazione di Ebrei provenienti da almeno sessanta contesti culturali diversi. Contro ogni pronostico iniziale, le varie “tribù fondatrici” (Aschenaziti, Sefarditi, Mizrahì, Romanioti, Italkim, ecc...) hanno finito per integrarsi sorprendentemente bene e, sebbene una certa rivalità tra Aschenaziti e Mizrahì pervada ancora il folklore nazionale, la prassi della convivenza e dei matrimoni misti ha fatto sì che, decennio dopo decennio, la tradizionale suddivisione “etnico-culturale” sia andata scemando. Purtroppo però, nuove faglie di scontro sono emerse in campo politico-religioso.

Dagli anni'70 in poi, Israele ha assistito ad una progressiva polarizzazione della società ebraica in corrispondenza con l'ascesa demografica dei cosiddetti “ultra-ortodossi” (“Datim”, “Chardalim” e “Haredim”) e dei “conservatori religiosi” (Masortim) a spese dei “laici” (Hilonim). Pur essendo stati proprio questi ultimi a costituire il motore trainante per la fondazione e lo sviluppo di Israele ed avendo detenuto il primato demografico sino ad ora, gli “Hilonim” hanno visto erodere drammaticamente i propri numeri negli anni recenti sia a causa del boom demografico degli strati più conservatori della società (le donne “Haredi” presentano un tasso di fertilità totale che è almeno tre volte più alto di quelle “Hiloni”) che a causa dell'emigrazione (Yerida). Si stima che attualmente circa un milione di “Yordim” viva all'estero e gli Stati Uniti in particolare si sono rivelati particolarmente abili ad intercettare questo fiume di emigranti altamente qualificati e disciplinati.

La suddivisione della società ebraica israeliana in “tribù politico-religiose” non preoccuperebbe se tale separazione rimanesse “ideale” e non sconfinasse anche nella suddivisione territoriale (quartieri ed insediamenti rurali diversi per “tribù” diverse), nell'educazione (a differenza dell'Italia, Israele non è mai riuscita a creare un'unica scuola pubblica per tutti) nei servizi pubblici (gli “Haredim” utilizzano linee di autobus a loro dedicate) e nelle sinagoghe (dove un ebreo può partecipare ai riti solo se registrato in quella particolare congregazione).

Nemmeno le forze armate e di sicurezza sono più in grado di mascherare le profonde fratture sociali; infatti si stima che solo il 43% dei giovani teoricamente reclutabili si presenti regolarmente alla chiamata di leva, i pochissimi “Haredim” che servono la bandiera lo fanno esclusivamente in unità ad hoc, e i ranghi dei reparti combattenti di prima linea (come le micidiali “Sayeret”, le unità speciali da ricognizione profonda) continuano ad operare solo grazie alla massiccia presenza di Drusi, Beduini del Neghev, Falasha (Ebrei etiopi) e “Russi” (grazie al positivo effetto che le tradizioni militari sovietiche e russe hanno ancora su questo segmento della popolazione di recente immigrazione).

In conclusione, nonostante l'apparente forza, Israele è un piccolo gigante con i piedi molto “argillosi” e, sebbene presenti tassi di crescita economica ed espansione tecnologica sbalorditivi, il fatto che, a centotrentanove anni dall'inizio delle ondate migratorie sioniste (1881) e a settantadue anni dalla dichiarazione d'indipendenza (1948), non si sia riusciti a creare una “nazione” coerente nemmeno nella parte ebraica della sua popolazione (e tacendo del drammatico aumento dei conflitti tra Ebrei e “non-Ebrei” israeliani), deve suonare come un drammatico campanello d'allarme nelle orecchie di noi tutti.

1http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.532541

Foto: IDF