Il dibattito sul Canale di Suez nell’Ottocento. Spunti di riflessione geopolitica

(di Filippo Del Monte)
31/03/21

Il blocco temporaneo del Canale di Suez avvenuto in questi giorni a causa dell’incagliamento della portacontainer “Ever Given” ha fatto comprendere all’opinione pubblica quanto l’esistenza del canale sia fondamentale per il commercio mondiale, un fattore dato per scontato ed al quale non si badava finché non è stato messo in discussione da una gigantesca nave messa “di traverso”. E si è trattato di un errore, figurarsi se una flotta in assetto da guerra e con supporto aereo a disposizione decidesse, in caso di aperte ostilità, di bloccare il Canale di Suez quali pericolose conseguenze per il mondo e, nello specifico, per i paesi mediterranei potrebbero scatenarsi.

Quando il Canale di Suez era ancora solamente un progetto ambizioso, in Italia già si facevano riflessioni sulle potenzialità economico-commerciali di un simile passaggio, in grado di riportare al centro dei commerci mondiali il Mediterraneo, ed i rischi politico-militari connessi. La modernità geopolitica e strategica di certe discussioni avvenute nella seconda metà del XIX secolo, ci spingono a riproporne, per sommi capi, i contenuti, per tentare di stimolare una riflessione in merito.

Tra i primi anni '50 del XIX secolo e l'inaugurazione del Canale di Suez datata 1869, in Italia si aprì un importante dibattito sulle possibilità e le opportunità di una espansione commerciale verso i mercati dell'Estremo Oriente e del sud-est asiatico. 

Nel Regno di Sardegna a farsi portavoce di tale istanza furono gli ambienti della Camera di Commercio di Genova, ente che istituì una commissione per studiare gli effetti dell'apertura del Canale di Suez sul commercio internazionale e la pianificazione infrastrutturale e logistica da dare al porto cittadino per affrontare questa sfida. In particolare la commissione ritenne necessari alcuni interventi di ammodernamento del porto (foto), come la costruzione di un molo nuovo, di una darsena mercantile e di un dock da adibire a magazzino per le merci, facendo quindi di Genova uno scalo di livello europeo. Ugualmente fu proprio il Consiglio della Camera di Commercio genovese nel 1857 a chiedere al Governo sabaudo di intraprendere una politica navale più attiva con l'invio di navi militari a "mostrare bandiera" nei porti asiatici sia per aumentare il prestigio delle rappresentanze diplomatico-consolari sarde ivi presenti, sia per proteggere le navi mercantili e condurre sul campo studi sulle merci più redditizie.

Nel Regno Lombardo-Veneto a prendere l'iniziativa fu l'economista e statistico vicentino Fedele Lampertico (foto seguente) che parlò di necessità di attuare lavori nel porto di Venezia tali da metterlo in condizione di avere vantaggi dall'apertura della "nuova strada per le Indie". Si dovevano scavare canali, rendendo accessibile alle navi la stazione ferroviaria e consentendo l’approdo diretto ai magazzini, i quali andavano dotati di adeguate strutture di carico e scarico per velocizzare le operazioni. A Lampertico non sfuggiva infatti l'importanza di collegare il porto alla rete ferroviaria per la creazione di una sorta di "polo logistico intermodale" veneto, unico modo per godere delle opportunità date da Suez, ripristinando quella "potenza marittima" che in passato aveva caratterizzato Venezia, in particolare quale "ponte" tra l'Europa e l'Asia.

Nel 1861 fu proclamato il Regno d'Italia ed il ruolo geopolitico che il nuovo Stato incastonato al centro del Mediterraneo potesse svolgere fu subito evidente. Nel 1865 il missionario Giuseppe Sapeto pubblicò lo scritto "L'Italia e il canale di Suez" (Tipografia e Litografia dei F.lli Pellas, Perugia, 1865) destinato alle Camere di Commercio nazionali e relativo allo studio geoeconomico della nuova situazione determinata dalla prossima apertura del Canale di Suez. Per Sapeto l’Italia avrebbe potuto trarre vantaggi immediati derivanti dalla navigazione di cabotaggio legata alla pesca ed all’apertura dei mercati in Arabia e nel Corno d’Africa; tuttavia i vantaggi maggiori il nostro Paese avrebbe potuto ottenerli solo se si fosse provveduto a potenziare le strade ferrate collegando i principali porti con l’entroterra ed aprendo i valichi alpini. Solo una rete ferroviaria capillare avrebbe permesso all’Italia di dominare i commerci euro-mediterranei quale hub d’arrivo e partenza delle merci ed avendo come poli il porto di Brindisi a sud ed i cinque sbocchi alpini a nord.

Due anni dopo, al momento della conclusione dei lavori del Canale di Suez – anche se poi l’inaugurazione avvenne effettivamente solo nel 1869 – l’ex ministro di Agricoltura, Industria e Commercio del Governo La Marmora II (1864-1865) e socio fondatore della Compagnie universelle du canal maritime de Suez Luigi Torelli, facendosi portavoce delle istanze di quanti, al di là delle discussioni teoriche, notavano concretamente l’impreparazione e la mancanza di competitività commerciale dell’Italia. Torelli sottolineò crudamente ma realisticamente che il semplice taglio dell’istmo di Suez, la posizione geografica dell’Italia e la notevole riduzione del percorso per l’Oriente non avrebbero costituito, da soli, i fattori di garanzia per l’economia nazionale. L’esponente della Destra lombarda scrisse in “Il canale di Suez e l’Italia” (Stabilimento Giuseppe Civelli, Milano, 1867) che le nazioni che avrebbero ottenuto vantaggi dalla nuova via di comunicazione sarebbero state quelle che “avranno più merci da recare in Oriente, in contraccambio di quelle che trasporteranno in Europa; che avranno più capitali per dominare sui mercati; che avranno più pratica di quei mari; che avranno più relazioni già stabilite con quei grandi centri”, in altre parole Gran Bretagna e Francia, due superpotenze politico-militari ed economico-commerciali con capacità di proiezione esterna. Londra avrebbe potuto aumentare i viaggi da Suez verso l’India Britannica mentre Parigi avrebbe potuto investire risorse sull’insegnamento della lingua araba, sugli studi idrografici e sull’ampliamento della propria flotta di vapori mercantili.

In Italia mancavano tali condizioni perché, in sostanza, l’assenza di input governativi in tal senso costituiva il principale limite allo sviluppo d’una strategia di proiezione internazionale non solo commerciale ma anche politica.

Le preoccupazioni di Torelli erano le stesse degli ambienti della Società Geografica Italiana, sostenitori di una politica di rafforzamento internazionale del Regno d’Italia lontana da “voli pindarici” e consapevole delle necessità di sviluppo del Paese. L’ex ministro della Pubblica Istruzione del Governo Ricasoli II Cesare Correnti (foto), altro esponente della Destra lombarda (che di lì a qualche anno, contagiato dal “depretisismo” sarebbe passato alla Sinistra su posizioni laico-moderate), nell’articolo “Sull’istmo di Suez e sul Commercio Orientale” (in “Bollettino della Società Geografica Italiana”, fascicolo III, 1869) scrisse che l’apertura del Canale avrebbe provocato una “rivoluzione cosmica” rendendo più vicine l’Europa, l’India e la Cina, facendo in modo che il Mediterraneo ridiventasse “per la geografia civile quello che è sempre stato per la geografia fisica” ovvero “il centro della terra abitabile”. La concorrenza sarebbe stata spietata ed i lavori di ammodernamento del porto di Brindisi, iniziati quell’anno, il completamento della ferrovia Ancona-Brindisi-Lecce ed il traforo del Frejus in fase di scavo, se non fossero terminati in tempi brevi, non avrebbero consentito all’Italia di reggere l’urto delle potenze straniere.

Dall’analisi di Cesare Correnti emergeva un fattore di debolezza endemico del commercio italiano: l’assenza di possedimenti coloniali. Con la Turchia ormai “rassegnata nelle mani della civiltà cristiana”, l’India “provincia inglese”, l’Africa niliaca ed atlantica “sempre più europea”, la Cina “superata e ormai abbattuta” con enormi mercati aperti dalla penetrazione ora diplomatica ora militare di Francia, Gran Bretagna e Russia, sarebbe stato necessario “pigliar posto subito”. Priva di infrastrutture ben collegate e senza un impero coloniale, l’Italia correva il rischio di essere schiacciata tra Marsiglia e Trieste e di essere considerata, per le navi provenienti da Suez, nulla più che un “inciampo” geografico nel mezzo del Mediterraneo.

Tanto Torelli quanto Correnti erano stati certamente influenzati dal grande dibattito aperto fin dal 1857 dal garibaldino Nino Bixio sull’importanza di una politica di sostegno e potenziamento della marina mercantile italiana. Non si potevano limitare, secondo Bixio, i commerci italiani al Mediterraneo, al Mar Nero, agli Stati Uniti ed all’America Latina, senza che il tricolore lambisse anche i porti d’Africa ed Asia. Più che dalla mancanza di spirito d’iniziativa dei privati, questa situazione era determinata dall’assenza di risorse pubbliche destinate all’ammodernamento della flotta mercantile con navi a vapore, in sostituzione di quelli a vela non in grado di affrontare con successo le pericolose correnti dell’Oceano Indiano e, men che meno, quelle del Canale di Suez (le stesse cui si è trovata di fronte la “Ever Given”), risalibile solo dai piroscafi. Dal 1860 erano iniziati, con grande rapidità ed ingenti fondi a disposizione, i programmi francesi e britannici di sviluppo delle nuove flotte mercantili a vapore e l’Italia era rimasta indietro sia per questioni politiche come la conquista dell’indipendenza, sia economiche come l’arretratezza di molte regioni, in specie quelle dell’ex Regno delle Due Sicilie. Il problema della debolezza della marina mercantile andò a sommarsi a quello dell’assenza di una sviluppata rete diplomatico-consolare del Regno di Sardegna prima e del Regno d’Italia poi nei territori africani ed asiatici ormai aperti alla penetrazione delle potenze europee.

La fusione di queste due questioni d’importanza strategica aveva spinto nel 1863 il capo della Divisione Consolati al Ministero degli Affari Esteri Cristoforo Negri (ex capo di gabinetto di D’Azeglio e futuro presidente della Società Geografica Italiana dal 1867 al 1872) a scrivere una serie di articoli sul tema su giornali come “La Perseveranza” (organo dei liberal-conservatori lombardi), “Il Corriere Mercantile” (espressione della Camera di Commercio genovese) e “L’Opinione” (quotidiano della destra piemontese) raggruppati l’anno dopo nel volume “La grandezza italiana. Studi, confronti e desideri” (Tipografia G.B. Paravia, Torino, 1864). Partendo dal presupposto che l’opinione pubblica italiana fosse incerta sulle possibilità dell’espansione commerciale nazionale, Negri (foto) voleva “rimuovere perplessità e indugi” invitando la classe politica a riflettere sui fattori di debolezza italiani e sulle soluzioni per superarli. Ancora una volta emergeva che il problema principale dietro le difficoltà italiane ad aprire nuovi mercati all’estero fosse l’assenza di un impero coloniale. Negri giudicava come irreversibile la crisi dell’Impero Ottomano e se l’Egitto fosse caduto in mano britannica (cosa che poi avvenne) assieme a Suez, se Tunisi fosse caduta in mano francese (altra previsione avveratasi) e se l’Austria-Ungheria avesse occupato l’Albania, l’Italia sarebbe stata soffocata nel suo mare. Ecco perché era fondamentale inviare un console a Costantinopoli (sulla stessa linea all’inizio degli anni ’60 Negri aveva proposto di aprire un Regio Consolato in Cina ma senza successo a causa della ritrosia del Governo e del mancato sostegno della Regia Marina) così da poter esercitare una qualche influenza politico-commerciale e per coordinare poi la creazione di una ramificata rete consolare nei Paesi islamici soggetti al Sultano di Istanbul, sia lungo le sponde africane del Mar Rosso. Proprio lungo le coste dell’Africa Orientale i britannici ed i francesi (anche utilizzando l’influenza delle congregazioni religiose missionarie) stavano attuando una politica di penetrazione politico-economica particolarmente aggressiva, così come navi prussiane fin dagli anni ’50 erano una presenza fissa a Zanzibar ed Aden, presenza che si sarebbe rafforzata nel ventennio successivo. “Non esiste per noi – scriveva Negri – ossia per i nostri vantaggi, la costa orientale dell’Africa, e non esiste il Mar Rosso” ed era un giudizio quanto mai veritiero ed anche molto critico nei confronti della Regia Marina che non assumeva un ruolo più attivo per sostenere la presenza dei privati in zone redditizie ma comunque rischiose.

Un discorso a parte Negri l’affrontava relativamente ai commerci in Estremo Oriente, dove l’Italia, pagando lo scotto di non essere presente in quelle zone, era costretta a dipendere dall’intermediazione straniera con il rischio – che poteva diventare una certezza se non si fosse corso ai ripari in fretta – di vedersi sfuggire ogni vantaggio dall’apertura del Canale di Suez ed il “dirottamento” dei traffici commerciali verso i porti francesi.

Merci essenziali per i mercati italiani, come la seta cinese destinata agli opifici piemontesi e lombardi, non arrivavano in Italia passando per lo stretto di Gibilterra o da Suez ma dai porti inglesi e francesi, e lo stesso valeva per i “prodotti coloniali” provenienti dalle Indie visto che non solo l’Italia non aveva sfruttato la liberalizzazione dei mercati nel Raj Britannico d’India ma non aveva neanche stipulato trattati commerciali e d’amicizia con la Cina, il Siam ed il Giappone, privandosi dei vantaggi tariffari e doganali delle altre potenze ed in alcuni casi vedendosi addirittura respingere il naviglio nei porti giapponesi a meno che non battessero bandiera francese.

Alcuni dei settori più moderni del colonialismo italiano, rappresentati anche dall’industria serica lombardo-piemontese, negli anni seguenti proposero sia di percorrere una “via cinese” alla costruzione dell’impero italiano, sia esperimenti come quello della gestione privata – fallimentare - nella colonia del Benadir per superare le problematiche d’ordine politico-commerciale emersi negli anni ’60. Nell’ambito delle correnti del colonialismo italiano, i sostenitori della “politica mediterranea” e quelli della “politica del Mar Rosso” erano concordi nel sostenere l’importanza dell’indipendenza commerciale e quindi anche politico-strategica italiana nei mari.

Come si può vedere alcune questioni come lo sviluppo coordinato delle infrastrutture logistiche, la subordinazione in alcuni mercati emergenti ma fondamentali, l’assenza d’una politica navale assertiva e l’importanza di garantirsi un’area d’influenza sono ancor oggi all’ordine del giorno per la politica militare ed estera italiana. Con la “globalizzazione selettiva” queste problematiche stanno esplodendo in modo virulento, occorrerà aprire quanto prima un dibattito in termini politici sulla questione per non rimanere, ancora una volta, indietro.

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