Il collasso demografico dell'Italia

(di Andrea Gaspardo)
08/04/21

Nel corso di tutto l'anno 2020 ad anche in questo 2021, le prime pagine dei quotidiani sia cartacei che online hanno quasi sempre dedicato ampia copertura alle notizie relative all'andamento della pandemia del Covid-19. Sebbene tale attenzione sia più che giustificata, l'autore della presente analisi ritiene che sia altresì necessario partire dagli impressionati dati della pandemia del Covid-19 per fare un'analisi a tutto tondo della situazione demografica nella quale versa il nostro paese perché, senza iperboli o esagerazioni, l'Italia è ormai arrivata ad un giro di boa ed è giunto il momento, sia per le élite che per il popolo italiano tutto, di aprire un serio e franco dibattito sul futuro reale del nostro paese perché parlare di demografia, specialmente ora nel 2021, vuol dire proprio questo: parlare del nostro futuro e del destino che vogliamo scegliere per la nostra comunità nazionale.

Prima di procedere per questa strada è necessario aprire una doverosa parentesi. Per molti, la demografia è poco più di un'incolore sfilata di numeri necessaria dal punto di vista statistico ma incapace di interpretare la complessità della società e, per la lentezza con la quale i fenomeni demografici evolvono, nemmeno troppo rilevante ai fini politici o economici, per non dire elettorali. Per altri, le vicende demografiche indicano la strada che l'Umanità sta percorrendo, sintomi di un insostenibile crescita o di un inesorabile declino. Entrambe costituiscono visioni affrettate che colgono solo gli aspetti superficiali dei fenomeni demografici, isolati dal loro contesto. L'andamento demografico va infatti interpretato su tre piani diversi ma connessi.

Il primo e più evidente è quello “macro”. L'insieme degli individui influenza la produzione ed il consumo, il riparto delle risorse, il rapporto con il territorio e l'impatto ambientale.

Il secondo piano è quello “micro”: i fenomeni demografici (nascite, morti, unioni, divorzi, migrazioni, ecc...) sono anche frutto di scelte e comportamenti individuali, e come tali sono sintomo di propensioni, di scelte e di situazioni di vita che hanno conseguenze di lungo periodo.

Il terzo piano, riguarda la “qualità” della popolazione: i fenomeni demografici sono infatti componenti fondamentali di quello che in economia si definisce “capitale umano”. Per esempio: la bassa mortalità è sinonimo di miglior salute, mentre la capacità di unirsi e riprodursi, di aggregarsi e di spostarsi, sono conseguenze sia di condizionamenti che di libere scelte individuali.

A ben vedere, l'importanza che la demografia riveste in campo economico venne efficacemente descritta dall'economista inglese John Maynard Keynes in un discorso del 1937 alla Eugenics Society: “Una popolazione crescente ha un'importante influenza sulla domanda di capitale. Non solo la domanda di capitale aumenta, al netto del progresso tecnico e del miglioramento delle condizioni di vita, in approssimativa proporzione alla popolazione. Ma poiché le aspettative degli imprenditori si fondano più sulla situazione attuale che su quella futura, un'era di popolazione crescente tende a promuovere l'ottimismo, dato che la domanda tenderà a superare le aspettative, piuttosto che deluderle. Ma in un'era di popolazione declinate, avviene invece il contrario. La domanda tende a deludere le aspettative e una situazione di eccesso d'offerta è difficile da correggere, sicché si può determinare un'atmosfera di pessimismo. Il primo effetto del cambiamento da una popolazione crescente a una declinante può essere disastroso”.

Leggendo questi appunti si capisce come il declino della popolazione avrebbe un effetto comparabile a quello della deflazione: un rinvio degli acquisti da parte dei consumatori, un conseguente calo degli investimenti da parte delle imprese, un cedimento della domanda, l'arresto o l'inversione del segno di crescita.

Chiusa questa parentesi, è ora necessario chiedere a noi stessi quale sia lo “stato di salute” delle popolazione italiana, che tipo di traiettoria storica ci ha portati alla situazione odierna e quali potrebbero essere gli esisti futuri.

Tradizionalmente, l'Italia è sempre stata caratterizzata, rispetto agli altri paesi dell'Europa Occidentale, da un'organizzazione sociale marcatamente familista, da un ritardo nello sviluppo economico e dell'istruzione, da una condizione sociale arretrata dell'elemento femminile, da alti tassi di fertilità e da imponenti fenomeni migratori in uscita dalla penisola.

Andando a scartabellare i dati forniti da “Our World in Data” delle Nazioni Unite e dalla “Gapminder Foundation” di Stoccolma, nel corso di tutto il XIX secolo il tasso di fertilità totale (Total Fertility Rate – TFR) delle donne italiane oscillò tra un massimo di 5,47 ed un minimo di 4,56 figli per donna a seconda dei decenni. Tali dati non devono sorprendere se pensiamo che la società sia degli stati italiani pre-unitari che del neo-costituito Regno d'Italia era rurale ed in gran parte analfabeta. Tuttavia, il progressivo sviluppo industriale, il miglioramento delle condizioni igieniche e la successiva scolarizzazione hanno lentamente ma inesorabilmente cambiato le carte in tavola a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo.

La popolazione italiana ricevette un drammatico shock nel corso della Prima Guerra Mondiale e del contemporaneo diffondersi dell'Influenza Spagnola, quando per la prima volta da secoli si registrò un calo della popolazione totale, pur in presenza di tassi di fertilità totale oscillanti tra i 3,80 ed i 3,24 figli per donna nel quinquennio 1915-1919. Se infatti la popolazione continuò ad aumentare fino al 1916 arrivando a toccare i 36.481.000 individui, le catastrofiche perdite sofferte dal Regio Esercito nel corso delle battaglie dell'Isonzo, di Caporetto e nell'area del Piave, la contestuale carestia che colpì le popolazioni rurali e l'arrivo dell'Influenza Spagnola portarono ad un calo della popolazione che, nel 1919, contava ora 35.717.000 abitanti, con una differenza di -764.000 anime rispetto al 1916. Fortunatamente, al contrario di quanto avvenne in altri paesi europei come la Francia e la Germania, lo shock fu di breve durata e, già nel 1920, la popolazione italiana ricominciò a crescere in maniera sostenuta.

L'avvento del Fascismo ebbe un effetto positivo sulle dinamiche demografiche della penisola dato che il regime mussoliniano comprese il valore geopolitico che una popolazione numerosa avrebbe avuto per il destino dell'Italia che la dittatura fascista voleva costruire. Le politiche demografiche espansive approvate da Mussolini furono talmente efficaci che, non solo alla vigilia dell'entrata dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale, nel 1940, il Regno contava una popolazione di ben 44.467.000 abitanti, ma a differenza di quanto era avvenuto con la Prima Guerra Mondiale, la dinamica espansionistica positiva continuò anche negli anni della Seconda Guerra Mondiale, nonostante i lutti e le distruzioni sofferte dalla penisola nel corso dell'immane conflitto.

I trent'anni compresi tra il 1945 ed il 1975 possono essere considerati gli “anni d'oro” della demografia italiana dato che il miglioramento delle condizioni economiche, l'allungamento delle aspettative di vita ed il mantenimento di tassi di fertilità ancora relativamente alti in tutto il periodo garantirono una crescita continua del serbatoio di popolazione nazionale. Non solo, gli anni del cosiddetto “Miracolo Economico” presentarono per la prima volta nella Storia dello Stivale una situazione nella quale gli italiani non erano più costretti ad emigrare a caccia di fortuna all'estero per mancanza di lavoro e risorse in patria. Ora la cosiddetta “Italia Felix”, pur nel perpetuarsi del dualismo Nord-Sud, poteva garantire a tutti gli italiani un potenziale lavoro e, da lì a poco, i governi avrebbero potuto persino permettersi di sperimentare politiche sociali ed assistenziali particolarmente generose.

Tuttavia, come accade ad ogni era storica, anche quella degli “anni d'oro” dell'Italia Felix era destinata a finire. Una conseguenza diretta dello sviluppo economico e dell'innalzamento del livello di istruzione fu infatti l'abbattimento dei tassi di natalità, prima in maniera lenta, poi via via più rapidamente fino a giungere all'anno 1976, ultimo anno nel quale, con un tasso di fertilità totale di 2,11 figli per donna, l'Italia presentava “i conti demografici in ordine”.

Da allora fino ad oggi il tasso di fertilità totale non ha mai più raggiunto il livello ottimale e non ha fatto altro che calare inesorabilmente al netto di effimeri rimbalzi. Tuttavia, nonostante il tasso di fertilità totale calante, dal 1976 in poi, la popolazione italiana totale non ha smesso di aumentare per i successivi 39 anni. Questa tendenza apparentemente contro intuitiva si spiega molto semplicemente grazie al fatto che, come già detto, i decenni precedenti all'anno 1976 furono molto floridi dal punto di vista demografico per cui anche se il numero di figli per donna era ora minore, c'era un gran numero di persone che, anno dopo anno, entravano nella fascia riproduttiva e quindi il numero totale dei nati era comunque ragguardevole (questo processo è noto come “momento demografico”). Da non dimenticare poi il fatto che il progresso economico e sociale negli anni del “Dopoguerra” ha portato ad un notevole allungamento delle aspettative di vita ed azzerato la mortalità infantile, con conseguente beneficio per la demografia generale del paese. Da ultimo, la fine della “Guerra Fredda” e la “Globalizzazione” hanno per la prima volta dall'epoca delle “Invasioni Barbariche” reso la penisola italiana una terra di attrazione per masse di immigrati provenienti sia da altre aree del continente europeo sia dal resto del mondo.

L'imponente afflusso di immigrati (che oggi assommano a circa l'8% della popolazione italiana) al netto delle tensioni sociali e politiche interne ha in realtà portato benefici sia in ambito economico che demografico, tuttavia esso si è dimostrato insufficiente per risollevare le sorti dell'Italia nel lungo periodo. Nonostante il guadagno di piccoli punti di decimale sul tasso di fertilità totale, dal 1993 fino ad oggi (e con l'unica eccezione costituita dall'anno 2004) il saldo tra nati e morti è rimasto irrimediabilmente negativo, originariamente di poche migliaia di unità, ma con una forchetta sempre più ampia fino a raggiungere la “fantastica” cifra di -214.262 nel 2019.

Nonostante il saldo naturale negativo, la bilancia migratoria positiva ha permesso ancora per oltre 20 anni di “nascondere la polvere sotto il tappeto” fino al 2015 quando la popolazione italiana ha finalmente raggiunto il suo picco storico di 60.795.612 unità. Da allora in poi, purtroppo, tutti i nodi sono venuti al pettine e la situazione ha continuato a peggiorare in maniera allarmante. La bomba demografica ha colpito l'Italia su una pluralità di fronti tanto da innescare, de facto, 4 crisi diverse, tutte di non facile risoluzione:

  • il tasso di fertilità totale (Total Fertility Rate, TFR) ha continuato a calare fino a toccare il minimo di 1,27 figli per donna nel 2019;
  • il calo del TFR ha comportato una diminuzione del numero assoluto di nascite fino al livello di 420.170 nel 2019 (il valore più basso dalla data dell'Unità d'Italia);
  • l'invecchiamento della popolazione ed il parallelo peggioramento relativo delle condizioni economiche e di vita hanno causato un aumento della mortalità con conseguente allargamento della forbice (in senso negativo) del saldo naturale tra nascite e morti (-214.262 nel 2019);
  • l'acuirsi della crisi economica e sociale ha dato nuovo impulso all'emigrazione, sia da parte degli italiani “indigeni” che dei “nuovi italiani di recente stanziamento” tanto che, se nel 2015 la popolazione italiana aveva toccato il picco di 60.795.612, al principio del 2020 essa si era ridotta a 59.641.488 anime, con una perdita complessiva di oltre 1.154.000 persone in 5 anni (equivalente alla perdita della popolazione del Trentino-Alto Adige).

Ecco quindi che il nostro paese è irrimediabilmente scivolato nella “trappola demografica” mirabilmente descritta da John Maynard Keynes nel suo discorso del 1937 alla Eugenics Society. Andando ad analizzare la struttura della popolazione italiana alla vigilia dello scoppio della pandemia si nota poi che il 13% della popolazione fosse composto da giovani al di sotto dei 14 anni di età ma la percentuale degli “over 65” fosse del 23,2% con una marcata tendenza all'accrescimento.

È inutile dire che una società che invecchia è assai meno propensa a “scommettere sul futuro” preferendo concentrarsi sulla “gestione dell'esistente”, soprattutto se le riforme richieste andassero a toccare i nervi scoperti della riforma pensionistica. Tuttavia il mantenimento ad oltranza di un sistema pensionistico che non rispecchia più la struttura demografica del paese porta inevitabilmente a scaricare tutta la pressione sulle fasce di popolazione costituite dai giovani, che infatti impossibilitati a modificare le strutture esistenti a causa della propria esiguità numerica, reagiscono con l'unico strumento a loro disposizione: “votando con i piedi” (cioè emigrando).

A questo punto è necessario chiedersi, quale impatto ha avuto la pandemia del Covid-19 sulla già delicata situazione demografica italiana?

Secondo i dati da poco pubblicati dall'ISTAT, nel 2020 sono morti complessivamente 746.146 italiani. Nel quinquennio 2015-2019, il totale dei decessi era stato di 3.179.458, con una media approssimata di circa 635.892 individui l'anno. Ciò implica che nel 2020 si sono registrati circa 110.254 morti in più rispetto alla media del quinquennio precedente (equivalente alla perdita della popolazione della Valle d'Aosta).

Dato che, al 31 dicembre 2020, l'Italia aveva registrato ufficialmente 74.159 decessi attribuiti al Covid-19, ci ritroviamo con ulteriori 36.000 morti (ma in realtà la “voragine” è ancora più ampia dato che, per ovvi motivi, il 2020 ha registrato una sensibile diminuzione del numero di decessi causati da incidenti sul posto di lavoro ed incidenti stradali) che in gran parte possono essere attribuiti al collasso verticale del sistema sanitario nazionale, una volta reputato il secondo migliore al mondo e che invece è stato completamente “sbaragliato” dall'offensiva del nemico pandemico senza che il “sistema Italia” nel suo complesso (politico, amministrativo, sanitario, ecc..) riuscisse ad imbastire una strategia di reazione efficace.

Alcune voci, in maniera piuttosto frettolosa, sono state tentate di “gioire” per la corrente situazione affermando che la pandemia avrà effetti positivi sulle casse dell'INPS e libererà risorse in termini di dotazioni ed eredità a favore delle fasce più giovani che potranno così reinvestirle nel sistema economico dandovi nuova linfa e vitalità.

L'autore della presente analisi ritiene che queste siano solamente fantasie prive di senso. Innanzi tutto, qualsiasi “effetto positivo” che la morte dei nostri nonni e genitori anziani (cerchiamo di avere il coraggio di chiamare le cose con il loro vero nome!) possa aver avuto sui conti dell'INPS, è stato ampiamente bruciato dalla crisi economica indotta dalla pandemia stessa. Secondo, considerando che, già prima della crisi economica un numero abnorme di famiglie italiane (soprattutto nel Mezzogiorno) arrivava letteralmente a fine giornata grazie alle pensioni di anzianità dei “nonni”, la fine improvvisa di questo “sostentamento” rischia di lasciarci in eredità una “bomba sociale” difficile da disinnescare. Da ultimo, credere veramente che “i giovani ed i meno giovani” inizieranno allegramente ad investire ora eventuali “ricche eredità” come se non ci fosse un domani è da abuso di oppiacei.

Al contrario, visto il perdurare della situazione di incertezza e senza delle chiare prospettive per il futuro, è assai più probabile che i suddetti individui optino invece per accrescere il livello del risparmio personale con conseguenza di far precipitare l'economia nel cosiddetto “paradosso del risparmio” (cioè diminuzione del consumo da parte di famiglie ed individui con conseguente sottrazione di risorse all'economia in generale che, dopo una serie di passaggi intermedi, ha come effetto ultimo un ulteriore calo dei redditi) con il risultato finale che tale scenario finirebbe per acuire ulteriormente la spirale deflazionistica nella quale la nostra economia è già piombata da almeno 4 anni.

La somma di crisi demografica, crisi sanitaria e crisi economico-sociale equivale ad una catastrofe anche per un paese moderno come la Repubblica Italiana. Quale sarà il bilancio complessivo della “World War Coronavirus” sulla demografia italiana è, ad oggi, difficile da prevedere per il semplice fatto che gli eventi sono ancora in pieno svolgimento. Possiamo però concludere la nostra narrazione guardando agli scenari futuri sull'evoluzione della demografia italiana come erano stati formulati prima che scoppio della pandemia.

A seconda che si voglia adottare una visione pessimistica o ottimistica, l'Italia perderebbe, da qui al 2040, un numero compreso tra i 4 ed i 16 milioni di abitanti. A chi crede che lo scenario peggiore sia esagerato, bisogna ricordare che i fenomeni di crollo demografico di una realtà statuale iniziano sempre in maniera “armonica” ma ben presto hanno la tendenza ad assumere un andamento esponenziale quando l'arretramento demografico va ad infrangere i cardini sui quali si basano il sistema economico e quello sociale.

L'ultima volta che la penisola italiana si trovò ad affrontare una crisi sistemica di questo tipo fu all'epoca della “Guerra Gotica” che oppose il Regno degli Ostrogoti all'Impero Romano d'Oriente tra il 535 ed il 562 dopo Cristo.

Quali effetti possa avere l'avverarsi di un simile scenario sulla stabilità del sistema politico e dello stato in generale, sono considerazioni che l'autore lascia fare ai lettori in piena libertà. In ogni caso è qui necessario sottolineare che il collasso demografico italiano, con tutte le sue complesse ramificazioni, deve essere una buona volta preso seriamente in considerazione dalle élite dominanti perché dalla vittoria o dalla sconfitta che la nostra nazione riporterà in questa “battaglia” germoglieranno i semi (qualsiasi essi siano) del nostro futuro.

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