I progetti di Pechino nella Regione Artica

(di Antonio Vecchio)
12/11/18

La politica cinese nella Regione Artica è particolarmente significativa della più ampia strategia perseguita da Pechino su scala globale per affermarsi come player di primo livello.

L’Artico è vasto circa 20 milioni di Km quadrati, il doppio della Cina, e custodisce il 30% dei giacimenti inesplorati di gas e il 13% di quelli di idrocarburi.

L’itinerario artico permetterà alle merci cinesi, quando lo scioglimento dei ghiacciai sarà completo, di raggiungere l’Europa in tre settimane contro le cinque occorrenti se si passa per lo stretto di Malacca, controllato dagli USA e quindi potenziale “chocke point” (trad. strozzatura).

Un grande vantaggio per una nazione che ha investito tutto sulla globalizzazione delle merci, per la quale grande importanza strategica rivestirà l’utilizzo per lunghi periodo all’anno dei due nuovi nuovi “passaggi”, di nord ovest verso l’Oceano Atlantico e nord est in direzione del mare del Nord.

Già nel 2017, nel documento “Vision for marittime cooperative and road initiative” Pechino faceva cenno ai “tre principali itinerari” che formano la cosiddetta “One Belt, One Road Inititiative” nota anche come Via della Seta, passanti rispettivamente per l’Oceano Pacifico, il Canale di Suez e, per l’appunto, il Mare Artico.

Nel 2018, con la pubblicazione dell’“Arctic White Paper” è stata confermata la volontà di partecipare non solo allo sfruttamento delle immense risorse naturali, ma anche, con le altre nazioni artiche1, alla “governance” di questa area immensa attraverso la quale transiterà la “via della seta polare”.

L’intento del documento, di facile lettura nel suo complesso, è essenzialmente quello di entrare a gamba tesa nel consesso delle nazioni che siedono nel Consiglio Artico2 - anche quelle che vi partecipano in qualità di osservatori (tra queste l’Italia, la Cina lo è divenuta nel 2013) - , con l’obiettivo di diventare, forte dello straordinario peso economico, una “potenza artica” entro il 2050.

Non stupisce quindi la recente dichiarazione del vice ministro degli Esteri, Kong Xuanyou, di forte incoraggiamento alle compagnie cinesi che intendano fare affari in tutta la regione, per costruirvi infrastrutture o anche solo a fini turistici.

Un incoraggiamento politico che segue un fenomeno già in atto da tempo, come si evince, tanto per citare un esempio, dal numero di arrivi di cittadini cinesi all’aeroporto islandese di Keflavik (foto), passati da 9500 nel 2007 a oltre 86000 nel 2017.

È dal 2004 che la Cina ha una presenza permanente in Islanda con una stazione di ricerca. Nel 2008, Pechino intervenne con numerosi investimenti per salvare l’isola dal collasso finanziario e nel 2016 fu proprio una società cinese, la SHENGHE RESOURCES, a comprare il 12,5% di GREENLAND MINERAL AND ENERGY, società australiana operante nel campo della terre rare.

Pechino starebbe inoltre acquistando un porto in Islanda ed un’altro in Norvegia (Kirkenes) da inserire entrambi lungo l’itinerario della Via della Seta.

Anche in Groenlandia si registrano forti investimenti cinesi, non solo nel campo della estrazione di risorse naturali (ferro e metalli), ma anche in quelli delle infrastrutture, del turismo (d’avventura e eco-turismo) e della ricerca scientifica.

Compagnie cinesi stanno lavorando in questi mesi all’allargamento di tre aeroporti e sono tre le basi di ricerca scientifica aperte da Pechino nella parte occidentale dell’isola.

Non è un caso se nell’ottobre del 2017, il premier groenlandese, Kim Kielsen, si sia recato a Pechino con una folta delegazione, pur tra le vivaci critiche di Copenhagen.

La politica di estrazione di uranio e terre emerse favorita dalla capitale Nuuk continua ad essere fermamente ostacolata dalla madrepatria danese, preoccupata, al pari degli altri paesi dell’Unione Europea, dalla forte penetrazione cinese in tutta l’area.

Anche l’Alaska non poteva sfuggire all’abbraccio cinese. Per capirne il senso, si pensi che la Cina è il 20° importatore al mondo di gas liquefatto (LNG), per un totale di 34 miliardi di investimenti e che l’Artico è stimato possedere circa 1/3 delle riserve mondiali di gas, la metà delle quali in Alaska.

A dimostrazione di questa speciale attenzione, dopo l’incontro con Trump a Mar a Lago nel 2017, Xi Jinping, lungo la via del ritorno, volle fare tappa proprio a Juneau (foto), per parlare essenzialmente di affari, soprattutto legati allo sfruttamento di LNG.

Un particolare interesse dettato anche dal fatto che nello stato americano il riscaldamento globale si sta verificando due volte più velocemente che nel resto del mondo, con la conseguenza che da queste parti le condizioni di apertura di nuovi itinerari intercontinentali si creeranno prima che altrove.

Ma lo sforzo di penetrazione della Cina riguarda anche la Finlandia, che dal 2000 al 2016 ha ricevuto da Pechino circa 8,43 miliardi, e la Norvegia alla quale sono stati destinati oltre 7 miliardi.

Entrambe le nazioni concorrono, con grandi sovvenzioni cinesi, alla realizzazione del corridoio artico.

Le relazioni cinesi con tutti questi paesi dimostrano che, se è vero come ha più volte detto Kong Xuanyou, che la Cina non interferirà con le politiche degli altri stati artici, è altrettanto vero che non sarà completamente “assente”. La varietà e quantità di risorse naturali custodite sotto i ghiacci costituiscono un piatto troppo prelibato per la nazione più energivora del mondo.

La grand strategy di Pechino nell’Artico, d’altronde, si sviluppa in linea con quella adottata nel resto del mondo, protesa a consolidare la rinascita geopolitica della nazione e il suo approvvigionamento energetico.

La Cina ragiona ormai da superpotenza, ed ha ben chiare le implicazioni che una buona “politica artica” ha sul consolidamento del rispettivo peso geopolitico.

A tale scopo ha promosso anche l’ avvicinamento con la Russia di Putin, particolarmente facilitato dal vigente regime di sanzioni.

Il rapporto con Mosca consente alla Cina di dialogare con un membro permanente del Consiglio Artico e, dato non secondario, di accedere alla tecnologia russa, ad esempio quella legata alla propulsione nucleare per navi rompighiaccio, di cui Mosca detiene la flotta più grande al mondo (circa 40 navi contro le 8 statunitensi).

Una tecnologia di grande importanza poiché potenzialmente utilizzabile nel programma di costruzione di portaerei su cui Pechino fonda il raggiungimento dello status di superpotenza extra regionale.

Al momento la Cina dispone di una sola portaerei operativa, la Liaoning di costruzione ucraina, ma ha piani industriali per la costruzione, entro il 2030, di altre 7 navi di questo tipo.

Le recenti manovre militari congiunte, JOINT SEA EXERCISE 2017, che hanno visto per la prima volta la partecipazione di 3000 militari cinesi, sono la conferma di quesa nuova stagione di collaborazione tra le due nazioni.

Collaborazione che riguarda anche il campo degli investimenti industriali, come dimostrato dalla realizzazione cinese di una nuova città vicino San Pietroburgo (Baltic Pearl), e dagli investimenti che la potente (e ricca) China Development Bank ha operato nel gigante russo NOVATEK’s ARTIC, grazie ai quali Pechino avrà accesso diretto alle riserve di gas liquefatto dell’area, guadagnando un ruolo di tutto rilievo nelle esplorazioni dei giacimenti present nella EEZ3 russa.

Anche Ottawa non risolta estranea alle attenzioni di Pechino, per la sua posizione strategica e le risorse naturali di cui dispone. Numerosi sono gli accordi in tal senso, in tutti i campi non ultimi quelli scientifico e commerciale.

La piena disponibilità del passaggio a nord ovest rappresenterà la piena consacrazione del Canada come stato artico, aprendogli nuove prospettive di crescita, che Ottawa si prepara a gestire anche aumentando la sua popolazione entro il 2100, dagli attuali 36 a 100 milioni (e la Cina può aiutarlo in questa sfida)

Vi è però un potenziale elemento di frizione: mentre Ottawa e Mosca considerano i passaggi artici a nord ovest e a nord est “acque interne”, nel libro bianco di Pechino sono contemplati come itinerari “internazionali”. Come se non bastasse, nel documento si fa riferimento a una “Polar Silk road”, lasciando intendere, anche nella scelta dei nomi, una poco dissimulata voglia di influenzare la nuova regione secondo i propri intressi, dimostrando ancora una volta il consueto pragmatismo della politica estera della Dragone.

Il futuro ci dirà in che modo la Cina riuscirà a plasmare la regione artica e in che misura le sarà consentito di realizzare i propri progetti.

Una cosa appare certa: la futura fruibilità di questa regione apporterà una profonda trasformazione anche in campo geografico, nella misura in cui stati che prima erano geograficamente distanti - si pensi solo a Cina e Canada o Canada e Russia - non solo vedranno crescere vertiginosamente i volumi dei rispettivi traffici commerciali, ma si scopriranno nazioni “contermini”.

Una prospettiva che la Cina dimostra di aver già compreso, lavorando per sfruttarla al meglio.

1Nel documento Pechino si definisce un “near arctic state”

3Zona Economica Esclusiva. (https://it.wikipedia.org/wiki/Zona_economica_esclusiva)

(foto: U.S. Coast Guard / web / State of Alaska Office of the Governor / Ministry of Foreign Affairs, the People's Republic of China)