I bisbigli dalla guerra yemenita

(di Denise Serangelo)
15/04/15

L’Operazione Battaglia Decisiva ha definitivamente perso di credibilità. L'Arabia Saudita continua a bombardare i ribelli sciiti Houthi con innata testardaggine e l'unico risultato ottenuto è quello di aver perso la faccia agli occhi dell'intera comunità internazionale.

Mentre gli aerei mietono vittime senza un scopo strategico apparente; i ribelli guadagnano ulteriore territorio e controllano Bab el-Mandeb e gran parte della città di Aden. Si vede che sotto le bombe ci si organizza meglio.

Lo scopo dell'offensiva era quello di arginare l'avanzata Houthi, ma le ripercussioni di una politica estera frettolosa e superficiale come quella intrapresa dai sauditi potrebbero portare a conseguenze ben peggiori di quanto si era preventivato.

La controffensiva delle milizie sciite era scontata - chi viene attaccato si difende - e infatti sul confine settentrionale si contano i primi morti della coalizione che erano posti a protezione delle frontiere saudite.

Quello che però nessuno si aspettava è il rischio concreto di instabilità interna della petromonarchia, la preoccupazione di una possibile guerra civile spaventa tutti; paesi confinanti inclusi.

La minoranza sciita del paese, secondo fonti attendibili, sarebbe sul piede di guerra e minaccia ripercussioni per le offensive intraprese in Yemen. Il gruppo, seppur minoritario, ha le capacità di gestire una piccola guerriglia interna al paese. Ryad sarà in grado almeno di fermarli sul nascere?

La possibilità che da queste micro - rivolte si infiltrino elementi dell'IS o di Al-Qaeda nel paese è assolutamente concreta.

I due gruppi terroristici sarebbero fortemente tentanti di sfruttare il caos saudita per conquistare postazioni vitali ed economicamente rilevanti, sfruttando le ripercussioni internazionali a proprio vantaggio.

La risalita del valore del greggio e la conseguente salita vertiginosa dei prezzi al consumatore mettono in allarme non solo il Golfo ma l'intera comunità internazionale.

In questa ingarbugliata matassa da cui tenta di venire a galla, l'Arabia Saudita deve affrontare il rebus Iran. Quest'ultimo per l'occasione ha messo in tiro le sue migliori navi da guerra, che da qualche giorno stazionano nei pressi delle acque territoriali yemenite.

La ragione ufficiale di questa mobilitazione è la probabile evacuazione dei propri cittadini da un paese sulla via della guerra civile. Ufficiosamente Teheran sta spostando le truppe per garantire sostegno alle fazioni Houthi in caso di scontro aperto.

Per chi ha seguito la vicenda dal suo esordio sa che nel Golfo di Aden sono attraccate, ormai dal 27 marzo, le navi da guerra egiziane e saudite che non consentiranno l'entrata di navi iraniane fino al termine dell'offensiva.

La possibilità che nasca uno scontro resta alta ma fino all'ultimo si cercherà di evitare un'aperta ostilità in mare al fine di ridurre perdite economiche ed umane che nessun paese coinvolto può sostenere.

Il coinvolgimento militare iraniano è quello che maggiormente spaventa la comunità internazionale che è reduce da una vittoria, con la firma dell'accordo sul nucleare, ma che teme una chiamata alle armi delle comunità sciiti nel mondo.

Tale chiamata sicuramente non innescherebbe una guerra planetaria, tuttavia andrebbe ad esacerbare situazioni già critiche lasciando ampio margine di manovra a gruppi terroristici cari alla cronaca.

L'imbarazzo per gli scarsi risultati e l'impacciata politica che guida l'offensiva è aggravato dall'annientamento della leadership saudita nella coalizione che capeggia. Il Pakistan che all’inizio sembrava essere in prima linea al fianco di Riyadh, ora ha cambiato posizione e si mantiene neutrale.

La decisione vede fortemente contrariati gli stati arabi e potrebbe costare cara alla repubblica islamica.

Gli ingenti finanziamenti affluiti verso il progetto atomico pakistano sono prontamente revocabili, per questo Islamabad assicura totale disponibilità solo in caso di attacco e si dichiara un grande alleato della monarchia saudita.

la Turchia, con la recente visita a Teheran sembra essersi smarcata e pur combattendo e finanziando (forse) assieme al Qatar i jihadisti contro i governi e le milizie sciite, si è allontanata dal gigante saudita suo diretto concorrente nella lotta per leadership regionale.

Si sono tirate fuori dai giochi con eccezionale maestria anche l'Oman e l'Algeria che si allontanano dalle offensive militari, rivalutando il loro peso diplomatico nei concordati per una risoluzione pacifica della questione yemenita.

Rimangono schierati con determinazione al fianco dei sauditi Egitto e Emirati Arabi Uniti.

Gli impicci diplomatici di Ryad hanno una ripercussione pesante sull'offensiva militare in atto, non si può bombardare in eterno e prima o poi qualcuno dovrà mettere piede oltre il confine dello Yemen.

Con una coalizione così ridotta è difficile pensare ad un intervento terrestre. Riyadh non dispone di un esercito ampio e preparato tale da sconfiggere i ben armati ed esperti ribelli Houthi da solo.

Un intervento terrestre sarebbe possibile esclusivamente con un supporto esteso da parte di Egitto ed Emirati Arabi che però hanno problemi ben più seri che assecondare il gioco al massacro dei sauditi. L'Egitto ha difficoltà a controllare totalmente la penisola del Sinai, dove esiste una forte presenza di gruppi legati all’IS e ad ovest deve supportare il governo libico nella sua lotta contro Alba Libica e il Califfato. Gli Emirati Arabi invece sono vicinissimi all’Iran e impegnarsi in guerra in Yemen li renderebbe troppo vulnerabili in caso di risposta iraniana. 

Giordania, Sudan, Oman e Bahrain hanno troppe problematiche interne e di confine per aiutare i sauditi in Yemen se non con la disponibilità di qualche aereo da combattimento e una pacca sulla spalla.

Lo Yemen doveva essere il fulgido esempio di come la leadership saudita nel Golfo avrebbe guidato questa frammentata zona geopolitica verso un glorioso futuro di unificazione politica e militare. La disfatta è però arrivata da ogni fronte possibile. La sua ormai scontata perdita di credibilità nella regione mette alle strette la monarchia che prima o poi dovrà decidere come mandare avanti o concludere questa ormai aleatoria "Decisive Storm".

Negli emirati arabi cresce la consapevolezza che gli eserciti, nonostante siano modernamente equipaggiati sono assolutamente privi dell'esperienza bellica necessaria a mandare avanti un conflitto come quello iniziato lo scorso marzo.

Nessuno dei soldati arruolati è sufficientemente dedito alla causa del suo paese per poter imbracciare un fucile, figuriamoci gestire un'operazione a livello tattico.

I bombardamenti sono un sintomo, non solo di poca lungimiranza strategica ma anche di una inesistente volontà dei soldati di "sporcarsi le mani" con una guerra di cui tutti vorrebbero fare a meno.

Questa "Battaglia decisiva" è iniziata con vigore e molte aspettative. L'intera mondo militare - diplomazia inclusa - aspettavano di vedere l'Arabia Saudita e le sue associate prendere consapevolezza del loro peso politico e militare diventando gestori della propria sicurezza, invece no. Abbiamo assistito ad uno spettacolo il cui prologo era brillante ma è durato poche pagine, lo sviluppo inesistente e un finale che difficilmente potrà soddisfare qualcuno. 

La famiglia Saud ha fatto il passo più lungo della gamba, pensava di poter gestire un'operazione militare complessa e asimmentrica con qualche alleato (alleati più sulla carta che nella realtà) e costosi equipaggiamenti.

Dopo due settimane pare ovvio che gli Stati del Golfo non hanno una maturità politico-militare tale da sostenere autonomamente le proprie necessità.

Diventa così un lontanissimo miraggio la creazione degli Stati Uniti d'Arabia con il suo esercito multinazionale, un progetto che se ben avviato sarebbe diventato un grande esempio di cooperazione militare e lungimiranza politica senza precedenti.

La fretta ed il pensiero che i soldi da soli facciano vincere le guerre hanno portato l'Arabia Saudita nuovamente nell'angolo degli impreparati e scatenato una guerra da cui dovremmo almeno salvare il salvabile.

Per comandare una coalizione e muovere guerra non bastano i bisbigli, si deve alzare la voce.

O urli o taci, se sei senza voce nemmeno partecipi.