Gibuti: un micro-Stato conteso nel Corno d'Africa

(di Filippo Del Monte)
09/03/21

Gibuti è un lembo di terra incastonato tra Etiopia, Eritrea e Somalia, al confine tra Mar Rosso ed Oceano Indiano. Questo Stato africano, quasi invisibile sulle carte geografiche, vanta una importanza geopolitica notevole per la sua posizione che ne fa, in sostanza, la tappa obbligata delle rotte commerciali dirette o nel Mediterraneo o verso i "mari caldi" dell'Asia. 

In particolare a Gibuti arrivano prodotti ad alto valore aggiunto provenienti dall'Europa e che vengono poi importati nei Paesi vicini. Ma Gibuti è essenziale anche per lo stoccaggio del greggio e le lavorazioni dell'industria pesante, tant'è vero che il programma d'investimenti per l'ammodernamento ed il potenziamento del porto si basa proprio su queste due fondamentali branche industriali-produttive.

In epoca coloniale Gibuti rappresentava una sorta di "porto franco" controllato dai francesi - una vera spina nel fianco per i possedimenti italiani nel Mar Rosso - utilizzato anche dagli abissini quale "sbocco sul mare" e via preferenziale per l'importazione di armi e manufatti provenienti dall'Europa; il tutto a danno degli interessi italiani nell'area. Basti pensare alle difficoltà cui le autorità politiche e militari italiane andarono incontro sia nella prima fase della nostra espansione coloniale (fino alla battaglia di Adua del 1896) sia durante la guerra d'Etiopia in epoca fascista per evitare che Gibuti potesse essere utilizzata da Addis Abeba quale mercato cui rifornirsi.

Oggi la situazione è sostanzialmente la stessa, cioè Gibuti ha conservato la sua funzione di "libero mercato" sia per gli Stati vicini che per le grandi potenze, nonché quella di "sbocco sul mare" per l'Etiopia dopo l'indipendenza dell'Eritrea. 

In tutto il Paese sono stanziati circa 10.000 militari provenienti da varie parti del mondo e dal 2013 anche l’Italia ha stabilmente un proprio contingente di circa 100 soldati interforze (presso la base avanzata di supporto “Amedeo Guillet”). La massiccia presenza militare ha spinto molti esperti a parlare di “ipermilitarizzazione” di Gibuti, evidenziandone ancor più l’importanza strategica per il contrasto della pirateria nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano. Attorno a Gibuti fanno perno tutte le principali missioni internazionali per la difesa della libertà di navigazione da e per il Mediterraneo, a conferma del fatto che nella stabilità del Corno d’Africa stia un fattore determinante per la sicurezza del (ormai ex) Mare Nostrum.

La posizione geografica di Gibuti è altamente vantaggiosa, dal punto di vista militare ed economico, e su questo concorda anche la classe politica gibutiana. Il 28 gennaio scorso a Gibuti si è infatti svolto un vertice al quale hanno partecipato il presidente di “Ports and Free Zones” Aboubaker Omar Hadi, il direttore generale di “Air Djibouti”, Abdourahman Ali Abdillahi, il rappresentante di “Ethiopian Airlines” a Gibuti Yoseph Belay, nonché il rappresentante di “China Merchant Group”, He Fei e nel quale si è discusso della possibilità – e della necessità – di creare una piattaforma aereo-marittima commerciale per agganciare i grandi traffici commerciali dell’area puntando però anche sul risparmio. La combinazione aria-mare è due volte più veloce del trasporto esclusivamente marittimo e due volte più economica del trasporto esclusivamente aereo, risparmiando in più otto ore di aereo e cinque giorni di mare, considerando anche che Gibuti (e qui torna nuovamente la geografia a fare la parte del leone) si trova sempre lungo le principali rotte marittime euro-asiatiche ed aeree asiatiche dirette in Africa. Il tutto accompagnato da una transizione del trasporto di merci per l’entroterra dalla gomma alle rotaie.

Lo sviluppo della “complementarietà” logistica di Gibuti potrebbe e dovrebbe interessare sostanzialmente a tutti gli Stati che abbiano una proiezione commerciale sovra-regionale e d’importanza mondiale (come l’Italia) ma di fatto si tratta di un processo guidato, ancora una volta, dalla Repubblica Popolare Cinese che a Gibuti investe all’incirca 1 miliardo di dollari all’anno, cifra pari al 50% del PIL gibutiano. Il rischio che Pechino possa fagocitare la già labile sovranità politica e l’economia di Gibuti è crescente visto che sono i cinesi a detenere circa il 60% del debito pubblico (1,3 miliardi) dello Stato africano e che nel novembre 2017 il Parlamento gibutiano fu costretto ad approvare una legge per rinegoziare unilateralmente i contratti delle infrastrutture strategiche nel tentativo di allentare la morsa cinese sul Paese.

La diplomazia statunitense a Gibuti, basata su investimenti in favore della “crescita sostenibile”, è fallita di fronte all’impossibilità di mettere sul piatto le stesse cifre investite dai cinesi non solo nel Corno d’Africa ma in tutto il continente nero.

I massicci investimenti di Pechino, che si esplicano tanto in ambito finanziario quanto infrastrutturale, rispondono alla necessità tutta militare di dotare la Zhōngguó Rénmín Jiěfàngjūn Hǎijūn (Marina militare cinese) di una capacità di proiezione salvaguardando le vie di comunicazione marittima che attraversano l’Africa, l’Oceano indiano, lo stretto di Malacca e naturalmente il Mare Cinese Meridionale. La dottrina della Marina cinese è offensiva ed ha i suoi risvolti pratici nella costruzione di infrastrutture militari nel porto di Gibuti e civili a Gwadar in Pakistan, nonché nell’istituzione del “China-Pakistan Economic Corridor”. L’immenso corridoio marittimo del “Cindoterraneo” è terreno di confronto tra le grandi potenze ed è anche lo spazio preferenziale per l’espansione cinese.

Pompare capitali per la costruzione di infrastrutture e l’ottenimento di concessioni, alle lunghe può portare ad uno “sviluppo tossico” del Paese nel quale si investe ed è questo l’obiettivo diretto della Cina a Gibuti ma che non ha affatto lasciato indifferenti le autorità locali. L’avvicinamento – grazie alla legge del 2017 sui contratti – di Gibuti ad Emirati Arabi Uniti ed India ed il “ritorno di fiamma” per la Francia (che ha gestito un lungo processo di indipendenza durato dal 1977, anno della proclamazione ufficiale, al 1994) che a Gibuti ha la più grande base militare fuori dal territorio nazionale (1450 soldati) e che si è fatta promotrice di una linea di “collaborazione rispettosa” con i gibutiani in palese polemica con la Cina, rispondono proprio a questa esigenza.

La partita per Gibuti è ancora tutta da giocare ma è bene evidenziare che, nonostante il governo abbia tentato di allentare il proprio legame con la Cina – che ha investito 14 miliardi di dollari per la costruzione di sedi istituzionali, acquedotti e ferrovie – aprendo i propri mercati anche ad altri capitali, il progetto della piattaforma aereo-marittima sembra confermare la forte presa di Pechino sullo Stato-chiave del Corno d’Africa e quindi le difficoltà di penetrazione occidentale nell’area.

Foto: U.S. Air National Guard / ministero della Difesa / Ministry of National Defense of the People's Republic of China