Francia in crisi: il crollo del governo Barnier segna la fine del macronismo?

(di Gino Lanzara)
05/12/24

La sfiducia votata contro il governo Barnier, per la prima volta dal 1962, riporta alle considerazioni estive espresse su stabilità e governabilità francesi che l’azzardo presidenziale nell’interdire la strada dell’esecutivo a Marine Le Pen non ha potuto concretizzare, stante l’indisponibilità dei 289 seggi indispensabili a garantire una maggioranza.

Se è vero che il secondo turno elettorale ha consegnato al Nuovo Fronte Popolare di sinistra una vittoria storica, è anche vero che le alchimie dell’Eliseo non hanno risparmiato alla Francia l’ascesa di un esecutivo che, altrettanto storicamente, è già passato agli annali come uno dei meno longevi, espressione di un’Assemblea Nazionale frammentata e la cui composizione ha reso problematici accordi programmatici tra compagini lontane da qualsiasi ipotesi di governo di unità nazionale. La legge di bilancio, come previsto, ha costituito il banco di prova per un esecutivo privo dei mezzi per poter superare un’impasse gravata dalla necessità di tagliare un deficit che, dovendo far scendere il rapporto deficit PIL, richiede impopolari tagli e draconiane misure di politica fiscale.

Ora come allora, la Francia è in una posizione di stallo, dove Raphael Glucksmann, esponente socialista, non ha potuto che richiamare ad un più ampio senso di responsabilità istituzionale fondato su scelte realistiche e praticabili. Il fatto che gli estremi parlamentari, di destra e di sinistra, abbiano convenuto per un voto a suo modo bipartisan, fa intendere la portata di un insuccesso politico che porta le stigmate di Ensamble, già En Marche, movimento costruito intorno a Macron, vittima di sé stesso, di un’impopolarità crescente e determinata dall’incapacità di intrattenere un dialogo con alcun gruppo politico e dalla spregiudicatezza nell’usare gli avversari per vittorie di breve respiro, accompagnata dal declino dei repubblicani, a lungo protagonisti della scena politica transalpina.

Barnier ha condotto l’esecutivo (in)cosciente del fatto che solo la benevolenza della Le Pen avrebbe consentito il suo prosieguo politico, sorprendendosi dell’irresponsabilità che ha messo a rischio provvedimenti ritenuti improrogabili e necessari. Macron ha dimenticato che il sistema a firma de Gaulle funziona solo se la presidenza fa suo un consenso politico gestibile anche in caso di maggioranze divergenti: impossibile governare ignorando i risultati democratici.

La Quinta Repubblica, in quanto a caos, replica la debacle della Quarta, quando tra il 46 ed il 58 si succedettero 24 governi. Le conseguenze più immediate sono due: il divieto di scioglimento delle camere fino al compimento del 12 mese dalle precedenti, e la fine del macronismo, latore di un messaggio centralista che non ha avuto seguito data l’intransigenza programmatica delle formazioni che hanno conquistato il più significativo successo elettorale, anche se, come per l’NFP, questa sì scontri con la debilitante anemia delle finanze pubbliche, oggetto peraltro di attenzione comunitaria per deficit eccessivo. Cedere alle spese replicherebbe la pessima prestazione da mini budget del governo Truss, mentre mantenere il piglio inimicherebbe le ali più oltranziste dell’NFP.

Il problema è poi ulteriormente aggravato da una rafforzata antipatia nei confronti del presidente, un afflato popolare diffuso che trascende, ma comunque aggrava, gli aspetti politici. Non è stato un caso per cui i candidati del suo partito abbiano preferito evitare di esporre sui manifesti elettorali l’immagine di un politico percepito come autoritario ed ancora troppo legato al contesto affaristico di provenienza, proprio delle banche di investimento. Beninteso, la crisi ha radici di una profondità attagliata alle misure adottate dai premier Elisabeth Borne e Gabriel Attal che, in quanto privi del pieno sostegno assembleare, sono stati costretti a ricorrere frequentemente al contestatissimo articolo 49.3 della Costituzione, quello che consente di far passare un testo legislativo senza il voto dei deputati che, però, possono far cadere il governo votando la sfiducia. Se il Rassemblement national è stato infine contenuto perché non ascendesse al potere, più difficile è stato negoziare con Jean-Luc Mélenchon, la cui irruenza ha di fatto contribuito ad una sostanziale ingovernabilità.

Che gli ultimi anni siano stati problematici lo ha testimoniato anche l’arretramento politico, economico e militare nella Franceafrique, mai come ora percorsa da crescenti sentimenti anti francesi. Il Sahel è sempre meno francese, e Parigi deve appoggiarsi ad egemoni concorrenti, come Cina e Turchia. Mentre Macron parlava apertamente di insostenibile cinismo da parte del RN, la Le Pen dichiarava la fine di un governo effimero, che Eric Coquerel già preconizzava destinato a cadere nel disonore, mentre Reuters annunciava manovre presidenziali atte a garantire una continuità dell’esecutivo già da sabato con la replica Cazeneuve o l’avvento del ministro della difesa Lecornu, quando verrà riaperta Notre Dame alla presenza di numerosi capi di stato in carica ed in pectore, a là Donald Trump.

Esclusa con forza, al momento, qualsiasi ipotesi di dimissioni presidenziali, definite dallo stesso Macron quale espressione di fantapolitica. Punto di insormontabile attrito, la completa indicizzazione delle pensioni all’inflazione richiesta dalla destra. Con il collasso del governo, cadranno anche i testi della legge di bilancio, a meno che, evitando lo shutdown, non si nomini in tutta fretta un premier in possesso dei requisiti di governo, capace di varare in neanche 20 giorni una nuova manovra che il parlamento dovrebbe esaminare entro poco più di due mesi. Oltre a mancare il denaro, manca ormai il tempo, con l’incubo incombente dello spread, attenzionato con la Germania e praticamente azzerato con la Grecia.

La tenuta di Parigi, ora, fa paura1. Possibile ma paventata soluzione, la gestione ordinaria a cura dell’esecutivo uscente con l’applicazione dell’art. 45 della Loi organique des lois de finances (LOLF), che proroga con provvedimento speciale la legge di bilancio dal 2024 al 2025; facciamola italianamente breve: un esercizio provvisorio che sventerebbe temporaneamente il dissesto, purché il presidente sia pronto sia ad attivare l’art. 16 Cost. scavalcando il parlamento, sia ad affrontare il conseguente caos sociale. Ripensare a sguardi e ghigni sardonici non troppo sommessi tra presidenti e cancellieri d’antan, riporta all’oscurità di una nemesi impietosa. Tutte le altre ipotesi, appartengono alla fanta-costituzione, non essendo praticabile alcuna soluzione che non preveda l’approvazione parlamentare. La Francia sta testando i limiti di un Paese dove è in vigore un sistema di monarchia repubblicana che dovrebbe in teoria garantire la stabilità politica2.

Su chi scommetteranno gli investitori, con la locomotiva europea in panne, tra finanzkrise tedesca e debacle francese? La BCE è stata chiara: il contesto è volatile la sostenibilità del debito sovrano molto incerta. La tempesta perfetta che introduce ad una sindrome ellenica, con conseguenze a cascata su tutta la zona euro, resa inerte proprio nel momento di maggior crisi geopolitica tra MO, Ucraina ed il ritorno del MAGA Trump. la crisi francese, non è solo economica: è strategica, con una UE condotta dalla Commissione politicamente più debole della sua storia.

Dopo de Gaulle la Grandeur si è affievolita, tanto che Giscard D’Estaing ha descritto la Francia come una grande potenza media, sospinta da elementi quali l’arsenale nucleare autonomo e la detenzione di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza e da una nostalgia cui anche Macron non è riuscito ad essere immune; come ha detto Mélenchon, anche con un Barnier ogni tre mesi, Macron non durerà tre anni. C’è da pensarci.

1 La spesa pubblica è agli stessi livelli sul PIL dell’arrivo di Macron all’Eliseo, al 57%. Il deficit potrebbe salire al 7% del PIL, mentre il debito pubblico è sopra il 110% ed è previsto in aumento. La competitività economica è inerte se è vero che il disavanzo commerciale è aumentato in rapporto al PIL attestandosi sopra il 4% e confermandosi cronico. L’età pensionabile è stata aumentata a 64 anni dai 62 e l’assegno pieno si otterrà gradualmente con 43 anni di contributi.

2 Bruino Cavalier, responsabile economista di Oddo BHF

Foto: Élysée