Il 2024 ha consegnato in extremis al nuovo anno la naturale evoluzione storica di un Paese che di grandezza ed imperialismo ha fatto il suo motivo di essere; una proiezione costante che, tuttavia, si è scontrata con storia ed errori commessi nel tempo.
Francafrique è termine giornalistico che si rifà alla Comunità francese di de Gaulle, lungo una parabola che inizia nel 58 e termina con Chirac nel 95, un percorso intarsiato di regime change, guerre civili, operazioni militari secondo un paradigma neocolonialista.
Macron è solo l’epigono destinatario di un’eredità impossibile che ha garantito, a lungo, una strenua resistenza alla pervasività russa ma che nulla può, ora, contro il Dragone. Questo è stato uno dei motivi per l’Eliseo ha resistito così tanto, traendo motivo di proporsi come alleato affidabile e soprattutto insostituibile.
Ma i tempi sono cambiati, la Francia ha ceduto in Niger ed ora in Senegal e Ciad: è la fine di un impero, di capacità economiche e militari al momento non ripristinabili, aspetto questo che non può non riguardare a cascata i Paesi attigui, compreso il nostro in termini migratori. Intanto occorre l’uranio per garantire la force de frappe.
Parigi non può più garantire di essere la gendarme d’Africa. Probabilmente anche Jacques Foccart, ideatore della Francafrique, concorderebbe sulla necessità di un cambio di passo, lontano dagli interventismi di Sarkozy.
Anche l’area del franco CFA dovrà essere rivalutata, connessa agli interessi di Total, Bollorè, Havas, Eramet. È stato inevitabile giungere nella fascia centrale del continente africano ad una revisione politica che crea spazi che non possono essere tollerati e mantenuti nelle relazioni internazionali.
La presenza militare non può prescindere dalla ridefinizione delle strategie securitarie, ma la grandeur non può non tenere conto dei colpi politicamente inferti all’interno e dall’esterno.
È finita un’era, ma per Parigi, in Africa, non si scorgono soluzioni.
Foto: Ministère des Armées et des Anciens combattants